giovedì 27 ottobre 2016
Blackway | Go With Me
2015 Blackway o Go With Me
di Daniel Alfredson con Anthony Hopkins, Julia Stiles, Alexander Ludwig, Ray Liotta, Hal Holbrook
Come si fa a spiegare lo strano entusiasmo che può suscitare un film come Blackway?
Non assomiglia neanche lontanamente a un capolavoro, perché non lo è. Anzi, ha tutte le sembianze di un film americano qualunque, dove una certa ricercatezza di regia cede il passo in alcuni punti a stereotipi visivi e sonori abusati. Ad esempio nelle scene d'azione, per altro pochissime, dove la convenzionalità della confezione stride con il carattere volutamente dimesso e casuale che gli autori volevano dare alle azioni. Non è difficile quindi incappare in internet in stroncature impietose, con alcuni che parlano di un thriller totalmente fallito, altri di un'americanata impersonale, altri ancora di un patetico tentativo di noir alla "Fargo" affogato in un'estetica da dtv.
E allora? E allora il "segreto" per apprezzare il film è evidente fin dal fatto che se ne parla in questo blog: Blackway è un western. Un bel film western. E non solo: è anche uno dei pochi veri western visti al cinema quest'anno. Blackway non è un western solo perché c'è gente coi fucili (meno comunque di quanti ne impugnino i personaggi in uno dei poster) o perché c'è un viaggio di ricerca tra splendidi paesaggi selvaggi. Queste sì sono cose assolutamente generiche che si trovano anche in tanti polizieschi, noir, action che affollano una qualsiasi videoteca.
Quel che rende Blackway un vero western è il tono piano del racconto, una narrazione soffice e calma come una nevicata. È la tranquillità hawksiana con cui i personaggi accettano i loro ruoli, i loro laconici scambi di battute la trasparenza delle loro azioni. È la descrizione affettuosa di un'America sì lugubre, violenta e desolata, ma vista anche come un meraviglioso contenitore di storie umane, senza il cipiglio da fustigatore delle contraddizioni della patria del capitalismo.
Anche l'ironia sotterranea che attraversa tutto il film, il livello forse più incompreso dai detrattori, non è mai un sarcasmo demolitore, è piuttosto l'ironia di chi racconta una storia in modo intelligente, sentendosi complice dei personaggi e degli spettatori, ma lontanissimo da qualsiasi strizzata d'occhio post-moderna.
Un film tanto e così palesemente americano è stato girato da un regista svedese.
Daniel Alfredson, solido regista di pellicole di genere, conosciuto fino ad ora per aver diretto in patria gran parte della serie Millenium, la trasposizione in film dei celebri romanzi Stieg Larsson. Si avverte per tutto il film uno sguardo molto europeo e soprattutto molto nordico, ma non ne risulta il classico distacco dell'Autore del vecchio mondo che dice la sua su qualche aspetto della realtà americana. Alfredson lavora da artigiano sapiente, usando la sua sensibilità tutta svedese per mostraci con occhi nuovi cose viste e straviste. Si noti come riesce a dare un senso e ad usare in modo persino poetico l'onnipresente filtro blu della fotografia, ormai da anni uno logoro luogo comune estetico dei film che vogliono raccontare di un'America fredda e marginale.
Blackway è il nome di un vicescriffo corrotto, maniaco sessuale, ricattatore, spacciatore, magnaccia e assassino, che i tre protagonisti devono cercare e affrontare. Fin dalla decisione di dedicare alla nemesi dei personaggi il titolo del film siamo quindi di fronte ad una specie di Moby Dick da paesello, una piccola ricerca del Male tra motel, segherie, povere case per arrivare alle incombenti montagne, descritte come luoghi arcani e misteriosi. Ognuno dei tre lo cerca per ragioni personali che vengono mostrate in flashback che si incastrano alla narrazione in modo curioso, con uno stile forse debitore dei film da regista di Tommy Lee Jones. La tensione semplice e implacabile su cui si basa il fascino del film è innescata dal mostrare tre antieroi, umanissimi e fallibili, che si avvicinano gradualmente ad un personaggio che diventa sempre più inquietante man mano che, attraverso i flashback o le testimonianze di altri personaggi, si compone il suo sinistro ritratto.
Un film di questo tipo è fatto in grandissima parte dalle facce degli attori.
Julia Stiles sembra invecchiata tutta di un colpo, ma anche per questo funziona perfettamente, nelle parti di una cameriera dall'aria dimessa e un po' sconfitta, ma ancora abbastanza avvenente da mettere in moto certi avvenimenti. Hopkins azzecca un ruolo e un film dopo non so quanti anni (forse da recuperare "Il caso Freddy Heineken", coevo a questo e sempre diretto da Alfredson). Alexander Ludwig se la cava bene nel potenzialmente scivoloso ruolo del marcantonio balbuziente, poco sveglio ma dal cuore d'oro. Si fa notare anche il grande caratterista Hal Holbrook, novantenne, nella parte del vecchio proprietario della segheria. Infine un luciferino Ray Liotta, come Blackway, divora le poche scene in cui appare.
Uno di quei piccoli grandi film che si fanno voler bene più di tanti capolavori.
Un grazie ai "colleghi" dei 400 Calci per aver segnalato un film che ha dato lo spunto a chi scrive di tornare a scrivere sul blog.
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