mercoledì 20 febbraio 2013

i film - La rossa ombra di Riata


1973 LA ROSSA OMBRA DI RIATA (The Deadly Trackers)
di Barry Shear, con Richard Harris, Rod Taylor, Al Lettieri, Neville Brand, William Smith, Isela Vega, Pedro Armendáriz Jr.

Tra i numerosi dirty western degli anni settanta, fieramente osteggiati dalla critica alla loro uscita per l’eccessivo tasso di violenza e non ancora riscoperti neppure in questi tempi di “rivalutazione selvaggia”, ma che a noi di Se sei vivo spara piacciono tanto, questo ha alle spalle una storia produttiva particolarmente travagliata, e un risultato finale probabilmente non all’altezza delle aspettative di partenza.
Le riprese furono iniziate nel 1972 in Almeria dal grande Samuel Fuller, autore anche del racconto (“Riata”) da cui la pellicola è tratta, ma insanabili divergenze artistiche con la star del film Richard Harris portarono al suo licenziamento da parte della produzione e alla sospensione del film, che fu ricominciato da capo in Messico nel 1973, con una nuova troupe, una nuova sceneggiatura e la regia affidata alle più accomodanti mani del meno conosciuto Barry Shear (del girato di Fuller pare sopravvivano solo i fermo immagine che accompagnano i titoli di testa).



La mano poco esperta del regista si vede facilmente nel modo totalmente libero con cui Harris, truccato come William Berger in un film di Sabata, costruisce il suo ruolo di sceriffo-vendicatore, sfoderando smorfie, ghigni, espressioni tormentate e furibondi scoppi d’ira, finendo per assomigliare a un Klaus Kinski in una delle sue performances più esagitate.
Nonostante vada spesso in “overacting” l’attore irlandese rimane un magnifico interprete western (nello stesso periodo era sugli schermi anche con Un uomo chiamato cavallo e Uomo bianco, và col tuo Dio!) e con la sua furente interpretazione e la sua maschera tragica risulta comunque assai efficace in un film così sopra le righe, anche grazie al supporto di un ottimo cast, che vede Al Lettieri in una delle sue rare parti da “buono” (è un poliziotto messicano, protagonista di un finale sorprendente), che lo conferma uno dei caratteristi più validi degli anni settanta, Rod Taylor efficacissimo invece nel suo primo ruolo da “cattivo” e la star messicana Isela Vega che interpreta con la consueta bravura una prostituta maltrattata un po’ da tutti.



Se il soggetto di partenza di Fuller è oltremodo duro, cupo e nichilista la sceneggiatura di Lukas Heller in molti passaggi appare invece piuttosto semplicistica e stereotipata, accontentandosi di mettere in scena un facile meccanismo chiastico di causa ed effetto, mentre la regia troppo televisiva di Shear (che dopo questa pellicola tornerà a dirigere telefilm) pare concentrata unicamente sull’accumulo di immagini sanguinose e scene violente in un facile sensazionalismo da film d’exploitation, certamente rozzo ma a suo modo anche efficace.
Il regista non lesina allo spettatore uccisioni di donne, vecchi e bambini, pallottole in fronte in primo piano, sgozzamenti e massacri variamente assortiti attingendo a piene mani alle esagerazioni del western italiano (i cattivi lombrosiani e dediti a perversioni varie, tra cui un personaggio con un pezzo di rotaia al posto della mano amputata, non sfigurerebbero in pellicole borderline come Il mio nome è Shanghai Joe).



Tra le righe il film nutre anche delle ambizioni di critica sociale e mette in contrapposizione la vendetta del libero cittadino e il lassismo della legge, ponendosi senza molta fantasia sulla scia di altri film di successo dell’epoca che trattavano di giustizia privata e libero arbitrio, come Cane di paglia e Ispettore Callaghan: il caso Skorpio è tuo.

Dove la pellicola risulta sicuramente degna di nota è nella sua parte messicana (il film è stato girato in coproduzione tra USA e Messico): sia le location (Cocoyoc e Cuernavaca nello stato di Morelos, a sud di Città del Messico) che il comparto tecnico, soprattutto la fotografia satura e nera di Gabriel Torres e le scenografie di Ernesto Carrasco, sono assolutamente notevoli.



Malgrado le vicissitudini produttive e la banalizzazione dell'assunto di partenza La rossa ombra di Riata rimane un solido revenge-western di serie B, ma certo non si può non pensare con rimpianto a quello che sarebbe stato nelle mani di Fuller.

1 commento:

  1. Sì, un buon "dirty western", davvero duro in certi momenti.

    Curiosa appunto la somiglianza coi polizieschi di allora. Trovata che sconta un po' la scarsa credibilità del personaggio del poliziotto messicano, impregnata di un "garantismo" masochista, totalmente anacronistico per l'epoca e fuori luogo nel Messico dell'800, ma con un bel ribaltamento dei soliti ruoli tra americani e messicani.

    Il tutto può essere letto anche in chiave satirica: l'americano che pretende di vivere in un'utopica oasi di pace e democrazia, e che quando crolla l'illusione va a far massacri nei paesi che non conosce...

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