lunedì 18 febbraio 2013

nuovi western - Django Unchained



Proviamo a far ripartire il blog, da mesi in coma profondo.
E non potevamo non farlo che con un articolo sull'attesissimo Django Unchained di Tarantino. Che sarebbe stato l'evento western dell'anno era facile prevederlo, che sarebbe stato - stando stretti - l'evento western dell'ultimo ventennio era invece più difficile immaginarlo. Pare infatti ormai che quest'ultima opera dell'autore di Pulp Fiction sia uno dei massimi incassi del western americano, secondo solo (per ora) a Balla coi lupi di Kevin Costner. Ma al di là dell'arida contabilità dei botteghini, il vero miracolo a cui ha fatto assistere Django Unchained è l'essere riuscito ad affollare le sale cinematografiche di spettatori di tutte le età che si sono divertiti, esaltati, emozionati di fronte ad un film western. Per registrare un tale entusiasmo di massa attorno ad un film genuinamente western (quindi il kolossal avventuroso ed ecologico di Costner non fa molto testo) bisogna probabilmente tornare indietro di quarant'anni, in Italia almeno ai film di Trinità, per altro puntualmente citati da Tarantino. Negli Stati Uniti l'icona del Django di Jamie Foxx, con i suoi anacronistici occhiali da sole e il vestito di Little Joe di Bonanza, si è già ritagliata il suo posto nell'immaginario collettivo, venendo citata negli spot pubblicitari, nelle vignette satiriche sui giornali e negli annunci amatoriali dei concerti. Un successo che almeno per un po' ha strappato il genere al culto amorevole, ma vagamente necrofilo, degli appassionati di cinema western (e qualcuno infatti non l'ha presa bene), restituendolo alla sua vera vocazione, quella del grande cinema popolare.

Un successo che è anche l'ennesima conferma di Quentin Tarantino come regista centrale nel cinema moderno. Autore e personaggio troppo ingombrante e particolare per non avere larghe schiere di nemici e detrattori, ma piaccia o meno non si può negare il fatto evidente che è uno degli ultimi giganti rimasti nel cinema. Uno degli ultimi che, kubrickianamente, gira film solo quando li può girare esattamente come vuole girarli, senza mai scendere a compromessi (se non a livello distributivo: la divisione in capitoli sia di Kill Bill che di Grindhouse - il che comunque conferma l'intoccabilità del suo girato), e che ogni volta che affronta un genere costringe chi viene dopo a confrontarsi con la sua visione. 



2012 DJANGO UNCHAINED
di Quentin Tarantino, con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo Di Caprio, Kerry Washington, Samuel L. Jackson, Walton Goggins, Dennis Christopher, James Remar, David Steen, Dana Michelle Gourrier, Nichole Galicia, Laura Cayouette, Ato Essandoh, Sammi Rotibi, Clay Donahue Fontenot, Don Johnson, Franco Nero, James Russo, Don Stroud, Russ Tamblyn, Bruce Dern, Jonah Hill, Tom Savini, Quentin Tarantino, Robert Carradine

Quello tra Quentin Tarantino e il Western era probabilmente un incontro inevitabile.
Il più importante tra i nuovi registi americani ha infatti sempre professato pubblicamente tanto la sua conoscenza enciclopedica che la sua ammirazione per il genere, soprattutto nella sua declinazione italiana, tanto da fare da padrino alla retrospettiva dedicata agli spaghetti-western alla Mostra del Cinema di Venezia del 2007 e disseminare con il suo inconfondibile stile pop e citazionistico i suoi film di battute, musiche e omaggi al genere.
Va da sé, quindi, che quando ad inizio del 2011 si è sparsa la voce che l’autore era al lavoro su un western propriamente detto l’attesa degli appassionati è salita rapidamente alle stelle.
Dopo la visione del film possiamo dire che tale attesa non è andata delusa e se era facile attendersi che l’approccio tarantiniano al genere non fosse meno che personale, più difficile era aspettarsi che il prodotto finale fosse un film addirittura geniale.


Il risultato è un film divertentissimo e fulminante, non perfetto (qualche strana caduta di tono in qualche flashback e nelle scene oniriche), ma con tocchi di genio assoluto.

Chi l'avrebbe mai detto che Tarantino sarebbe diventato uno dei registi più esplicitamente politici e virulenti del cinema americano (per quanto a ben vedere tra le righe lo è sempre stato fin dai tempi de Le iene)? Perché, alla faccia delle note polemiche di Spike Lee (il quale avrebbe solo da imparare da Tarantino su come gestire il talento personale, invece di continuare ad alternare almeno due film mediocri per ogni pellicola degna di nota), se qualcuno ha mai visto un film più velenosamente satirico e meno riappacificato di questo sullo schiavismo americano ci faccia un fischio, perché noi non l'abbiamo visto o non lo ricordiamo.
State certi che nessun fanatico neonazista con il fucile sotto il letto terrà mai questo film nella sua videoteca personale... dove magari si rischia di trovare Pulp fiction o Kill Bill.

Anche se il vero bersaglio degli umori caustici del regista è il romanticismo sudista più che l'epica western, i puristi del genere hanno avuto comunque di che indignarsi, soprattutto per certe scelte musicali. Dimenticando magari che quasi 50 anni fa le chitarre elettriche, i ritmi jazzati, gli assoli beat, le vocalità operistiche che Morricone inseriva nelle sue colonne sonore western erano trovate forse più "scandalose" che inserire oggi una canzone hip hop durante una sparatoria.


Esattamente come nella sua precedente pellicola, Bastardi senza gloria, che prendeva solo il titolo e poco altro da uno sconosciuto film di guerra italiano di Enzo G. Castellari (Quel maledetto treno blindato), Tarantino parte sì da Django, ma del personaggio di Sergio Corbucci rimangono solamente il nome e qualche altro omaggio sparso (tra gli altri il bellissimo inizio con i titoli di testa in rosso e il divertito cameo di Franco Nero) e il suo lunghissimo western (ben 165 minuti) devia ben presto verso la blaxploitation western degli anni settanta e pellicole come Libero di crepare e Mandingo (tanto che lo stesso regista più che western definisce il suo film «southern»), fino a pervenire addirittura nei territori di film classici americani come Nascita di una nazione e Via col vento. Nonostante la mole di rimandi ad altre pellicole che i fan, dimostrando di guardare forse più il dito che la luna, si stanno affannando a cercare, Django Unchained rimane però un’opera squisitamente personale e non collocabile in nessun sottofilone, classificandosi come assolutamente unica all’interno del genere.

Se è giusto quindi dire che il film di Tarantino non è uno spaghetti western (anche perché - monsieur de La Palisse ci consenta di farlo notare - non è un film italiano e non è stato girato in Europa), lasciateci però aggiungere che ci sono cadute le braccia leggendo in Italia cento volte in cento recensioni l'estremizzazione opposta, cioè che Django Unchained non avrebbe addirittura nulla a che vedere con il western all'italiana, con tanto di compatimento dei poveri ingenui che si sarebbero fatti distrarre dal solito specchietto per le allodole tarantiniano.

Le braccia cadono perché perché se è vero che Django Unchained non è un vero western spaghetti, allo stesso modo come Kill Bill non era ovviamente un vero wuxia o chambara, resta comunque un film intriso fino al midollo di umori e atmosfere "spaghetti". Non fosse altro Tarantino per il suo film ha ripreso pari - pari la struttura base di uno dei filoni più originali, interessanti e purtroppo dimenticati del western nostrano, cioè quello cosiddetto gotico. Film che univano all'estetica western trovate da tragedia greca e atmosfere da racconto alla Poe (o di horror alla Corman se vogliamo) e che vedevano - esattamente come in Django Unchained - quasi sempre una prima parte in cui veniva descritto il viaggio picaresco dei protagonisti e una seconda parte claustrofobica ambientata in ville, manieri, ranch spettrali dove esplodeva la tragedia e la follia. Uno schema che in diversi varianti è presente in pellicole come E Dio disse a Caino, Requiescant, Texas addio, Il pistolero dell'ave Maria, Ciakmull l'uomo della vendetta e soprattutto Le Colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro di Fulci, da cui Tarantino riprende qualcosa di più che qualche isolata citazione.

E allora? Allora si scopre che in Italia per la maggior parte delle persone e (quel che è peggio) dei critici quei titoli non esistono o è come se non esistessero. Perché nell'immaginario comune gli spaghetti western sono al massimo i film di Leone, i due o tre film più noti di Corbucci, i due Trinità e ad un'altra decina di titoli ad essere ottimisti. Mentre il resto del filone, cioè qualcosa come 600 e passa titoli, resta materia per relativamente pochi estimatori. E se si può capire la difficoltà dello spettatore comune di scremare i titoli degni dall'immane mole di spazzatura prodotta ai tempi (ma grazie a tanti siti, forum e - perché no? - blog come questo la cernita non è più tanto complicata in realtà), difficile invece capire e giustificare la pigrizia e la cronica miopia della critica.

La figuraccia è dunque doppia. Non solo deve venire un regista americano a dimostraci quanto variegato, multiforme e complesso fosse il nostro western, ma la maggioranza della critica italiana neanche coglie la dimostrazione.


Se graficamente Django Unchained è forse il western più violento di tutti i tempi – una sua singola scena contiene probabilmente più sangue di quello usato da Peckinpah in tutta la sua carriera – è però anche il film più lineare di Tarantino e non c’è il classico spezzettamento temporale marchio di fabbrica dell’autore. Il racconto segue in ordine cronologico il viaggio di un ex-schiavo, Django (Jamie Foxx), e del cacciatore di taglie che lo ha liberato (Christoph Waltz), e il loro tentativo di liberare la moglie del primo, Broomhilda (Kerry Washington), dalle mani di Calvin Candie (Leonardo DiCaprio), un latifondista sadico che si diverte ad organizzare combattimenti all’ultimo sangue tra schiavi neri.

Ancora una volta Tarantino dona ai suoi attori dei personaggi memorabili e riesce a cavare dalle loro interpretazioni il meglio. A cominciare da Christoph Waltz, semplicemente epico nei panni di una specie di Lee Van Cleef più umano, ma altrettanto titanico, munito di una forbita e straniante parlantina (ovviamente un po' penalizzata dal doppiaggio italiano), un carretto da dentista con un folle dente gigante sul tetto e protagonista di un'indimenticabile uscita di scena.
Ci voleva Tarantino perché un personaggio interpretato da Di Caprio bucasse finalmente e definitivamente lo schermo, nei panni del più tipico dei sadici tarantiniani, tanto più inquietanti quanto più fondamentalmente stupidi. Anche per lui un pezzo da brividi: la sfuriata razzista durante la cena.
Mostruosa e fregoliana anche la prova di Samuel L. Jackson che, in linea con l'aria shakespeariana che si respira nella lunga parte del film ambientata nella villa, interpreta un vero e proprio Iago nero. Anche per lui almeno una sequenza memorabile, quando appartandosi con il suo padrone bianco inizia a parlare come se il vero padrone fosse lui. Alla faccia di Tarantino regista privo di sfumature...
E infine Jamie Foxx, secondo molti messo in ombra dalle prove magistrali dei tre colleghi. Invece interprete di un personaggio più sfumato e sottotono degli altri (a parte le sequenze finali), la cui complessità è definita da un'infinità di piccoli dettagli che ad una prima visione quasi non si notano. Basti citare la sequenza apparentemente trascurabile in cui Waltz gli serve un bicchiere di birra e lui pare incerto sul da farsi, probabilmente perché da schiavo non l'aveva mai nemmeno assaggiata e sicuramente nessuno gliela aveva mai offerta. Comunque Foxx si aggiudica la sequenza più toccante e magistralmente "western" del film, il laconico e malinconico saluto al cadavere dell'amico buttato in un angolo.
 



La pellicola inizia con un lungo prologo “di formazione” abbastanza rispettoso delle convenzioni del genere (siamo ovviamente più dalle parti di Sergio Leone che di John Ford, autore che Tarantino ha pubblicamente affermato di odiare), dove l’anziano bounty killer insegna al giovane allievo i rudimenti del mestiere, rallenta quindi in una parte centrale molto dilatata dove il regista si può sbizzarrire nella sua specialità di dialoghista e accelera poi con un trascinante crescendo emotivo in un'epica parte finale incentrata sulla vendetta, forse la più intimamente contigua ai western italiani di Corbucci, per chiudersi infine con l’esplosione della fortezza bianca di Candyland e la strage di tutti i suoi occupanti, che è anche uno dei più scoperti atti politici del cinema americano degli ultimi anni.
Mentre si può infatti discutere circa l’attendibilità storica di molti particolari del film, nel suo nucleo centrale riguardante lo schiavismo la pellicola è probabilmente più vera di quanto in molti vorrebbero ammettere e Tarantino, in un film soprattutto d’intrattenimento e apparentemente “leggero”, con una lucida operazione intellettuale scoperchia il lato oscuro dell’America e i vergognosi scheletri che vi sono nascosti (“Il tuo amico è rimasto impressionato e tu no” dice a un certo punto Di Caprio/Candie a Foxx/Django dopo aver fatto sbranare uno dei suoi mandingo dai cani: “Io conosco gli americani meglio di lui” è l’eloquente risposta).

Tarantino, come in tutto il suo cinema, prende un modello, lo plasma a suo piacimento e poi lo utilizza per parlare di tutt’altro, e noi non possiamo che guardare ammirati.

M. Mihich & T. Sega

1 commento:

  1. Film stupido, inutile e pesantemente sopravvalutato, in poche parole.... Il peggior Tarantino di sempre.

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