sabato 29 dicembre 2012

Harry Carey Jr. 1921-2012



Dai capolavori di John Ford, di cui era amico fraterno e a cui ha dedicato il libro autobiografico Company of Heroes: My Life as an Actor in the John Ford Stock Company, e di altri Maestri del cinema come Raoul Walsh e Howard Hawks agli adult-western televisivi degli anni cinquanta-sessanta, dagli spaghetti-western italiani, dove ha rivestito il ruolo a suo modo leggendario del padre alcolizzato di Trinità e Bambino, fino ai cameo interpretati in tarda età nel revival western degli anni novanta (Ritorno al futuro parte III e Tombstone, ma anche Verso il sole di Cimino) si è fermata oggi la lunga cavalcata di Harry Carey Jr. attraverso sessantanni di cinema western.
Alla sua lunga vita e carriera è stato dedicato il documentario DOBE and A Company of Heroes del 2002.

venerdì 19 ottobre 2012

i film 50 - Tempo di terrore / Tempo di uccidere


1967 Tempo di terrore o Tempo di uccidere (Welcome to Hard Times)
di Burt Kennedy con Henry Fonda, Janice Rule, Aldo Ray, Janis Pai, Keenan Wynn, John Anderson, Warren Oates, Denver Pyle, Lon Chaney Jr, Elisha Cook Jr., Edgar Buchanan, Royal Dano.

Ci siamo già imbattuti altre volte in Burt Kennedy. Grandissimo sceneggiatore di western aspri e affascinanti negli anni 50, tra cui cinque celebri titoli diretti da Budd Boetticher e un paio di non meno preziosi gioielli diretti da Gordon Douglas (L'urlo dei comanches e La guida indiana). Nel 1961 esordisce alla regia con I canadesi, bel racconto di foreste nordiche e giubbe rosse con cui sembra voler continuare il discorso fatto con Boetticher e Douglas.
Invece, incredibile a dirsi, Kennedy detestava i western che sceneggiava. Odiava la violenza e amava l'ironia, per cui per tutti gli anni 60 e 70 si specializzerà come regista in commedie western, dove a farla da padrona sarà la farsa più bonacciona e innocua. Parliamo di titoli non certo memorabili quali Il dito più veloce del West, L'infallibile pistolero strabico, Dingus: quello sporco individuo e Quel maledetto colpo al Rio Grande Express (l'ultimo suo western per il grande schermo e il migliore della serie, anche perché il meno umoristico). Film che a onor del vero in America riscuotevano anche un lusinghiero successo.
A nostro parere un enorme spreco di talento, perché le volte che invece faceva sul serio Kennedy ha dimostrato spesso di essere un regista non banale e parecchio originale, con film come La Texana e i fratelli Penitenza (a dispetto del cretinissimo titolo italiano un western serissimo), il notevole euro-western La spina dorsale del diavolo e una buona imitazione dei western urbani di Hawks come Appuntamento per una vendetta.

Ma il suo film più originale è senz'altro questo misconosciuto e dimenticato film del 1967 "Tempo di uccidere" (o "Tempo di terrore"). Film ambiguo fin dal titolo originale "Welcome to Hard Times" dove al significato letterale se ne aggiunge uno più specifico, dato che Hard Times è anche il nome del desolato paesino in cui si svolge tutto il film.
Il carattere inclassificabile della pellicola è ben evidenziato dai più disparati titoli che il film collezionerà in giro per il mondo: in Gran Bretagna è "Killer on a Horse" (titolo che riprende una delle scene più crude del film), in Francia è "Frontiere in fiamme" (Frontière en flammes), nei paesi di lingua tedesca è "L'incendiario dell'Arkansas" (Mordbrenner von Arkansas), per i finlandesi è "Lo straniero sta arrivando" (Muukalainen lähestyy), in Brasile diventa "L'uomo con la morte negli occhi" (O Homem Com a Morte nos Olhos), in Spagna "Una pallottola per il diavolo" (Una bala para el diablo).


In un minuscolo paese giunge un giorno uno straniero (Aldo Ray) che si rivela essere una vera furia della natura. Senza dire una parola, ridendo soltanto, l'uomo violenta, uccide, appicca un incendio che distrugge mezzo paese e se ne va. Il paesino semidistrutto viene abbandonato da tutti, tranne che dal sindaco (Henry Fonda), una prostituta violentata dallo straniero, il figlio dell'unico uomo del paese che aveva provato a reagire e un misteriso stregone indiano che fa le veci del dottore. Il paese si ripopola con l'arrivavo di un avido pappone e le sue quattro prostitute, il fratello gemello di uno dei vecchi abitanti e un becchino pistolero (Warren Oates). Ma passato l'inverno lo straniero ritorna...


Tratto da un romanzo di E.L. Doctorow è il western più ambizioso di Kennedy, dove riesce a fondere un suo personale discorso sulla violenza con quei suoi soliti ritratti di gente stravagante, la cui umanità nelle sue commedie veniva soffocata però dalla esigenze ridanciane. Pur mettendo in scena un west fangoso e disadorno, non è un film realistico. In tutta la pellicola si respira un'atmosfera strana e irreale, satura di presagi misteriosi. È un western unico nel suo genere, non più classico, non ancora crepuscolare, ma men che mai è influenzato dall'allora imperante western all'italiana. Le sequenze violente anticipano forse le sequenze più allucinate dei western di Clint Eastwood, mentre le parti più da commedia, con i continui e inaspettati scarti tra dramma e ironia, fanno pensare al Peckinpah de La ballata di Cable Houge, ma con un sottofondo molto più inquietante.


I primi venti minuti, con lo straniero che porta morte e distruzione nel paese in maniera imprevedibile e bestiale, culminanti con la visione infernale dell'incendio, sono un grandissimo pezzo di cinema. Poi il film diventa una stralunata commedia umana, popolata da personaggi dalle evidenti valenze metaforiche, ma che non diventano mai dei rigidi simboli, grazie alla salutare ambiguità delle caratterizzazioni e all'imprevedibilità della vicenda.
Tutto sembra costruito per arrivare al riscatto conclusivo della meschina umanità messa in scena, invece il finale è quanto di più spiazzante si possa immaginare, con la violenza che si rivela incontrollabile e i cui effetti saranno ancora più amari e devastanti della prima volta.


Memorabile l'inquietante straniero senza nome interpretato da un sanguigno Aldo Ray, che porta la rovina in autunno e riappare in primavera, quasi diventando l'incarnazione delle angosce della piccola comunità, che si sta sfaldando dopo non essere riuscita realmente a solidarizzare durante l'inverno (bellissima la sequenza della festa di Natale, in cui dopo un attimo di trovato senso di comunità tutti finiscono per passare la notte da soli). Lo straniero appare quindi come una sorta di punizione biblica. Inoltre la figura dell'energumeno feroce che senza motivo porta distruzione nei paesini isolati era un personaggio tipico del folklore americano ottocentesco. 

Decisamente unico nel genere è anche il protagonista interpretato da un fragile Henry Fonda, un avvocato e sindaco dal nome emblematico: Blue. Un idealista tormentato e vigliacco, che pur in buona fede sbaglierà tutto fino alla fine, non solo incapace di proteggere e salvare chi gli sta a cuore, ma anzi artefice della tragedia finale.


Il film è popolato da tutta una serie di personaggi interpretati da un'eccezionale parata di alcuni dei più noti caratteristi americani di quegli anni. I nomi si possono leggere in cima a questo articolo e nella maggior parte dei casi diranno molto poco, ma le facce sono quelle famigliari a tutti gli appassionati di cinema americano. 

L'unica nota negativa riguarda l'irritante e troppo convenzionale colonna sonora di Harry Sukman, che nei momenti di relativa calma sembra voler far passare il film per la solita gioviale commedia western di Kennedy. Fortunatamente più efficace (o non presente) nei momenti di tensione.

news - C'era una volta in America di nuovo in sala



Non è un film western, C’era una volta in America, ma la notizia che il capolavoro di Sergio Leone tornerà al cinema – nei circuiti delle multisale – per questo weekend (dal 18 al 21 ottobre) non può essere passata sotto silenzio da noi di Se Sei Vivo Spara, che consideriamo Leone il più grande regista di western di ogni tempo (insieme a Ford, Hawks, Peckinpah...).
A ventotto anni dalla sua uscita il capo d’opera leoniano torna quindi in sala, nella nuova versione restaurata presentata all’ultimo Festival di Cannes, che aggiunge alle tre ore e venti di durata originarie altri 26 minuti e sei scene completamente inedite e opportunamente sottotitolate e, soprattutto, che ripristina il doppiaggio originale in luogo di quello offensivo approntato per l’uscita del film in dvd.
C'era una volta in America è il testamento artistico di Leone, oltre che il suo lavoro più intimo e sentito, una vera e propria ossessione a cui il regista si dedicò per quasi quindici anni fino a realizzare la sua personale Recherche. Vederlo nel buio della sala cinematografica sarà come trovarsi al cospetto di qualcosa di sacro.

venerdì 12 ottobre 2012

news - Almeria Western Film Festival 2012


Si svolgerà dall’11 al 13 ottobre 2012 nel suggestivo scenario di Tabernas in Spagna la seconda edizione dell'Almería Western Film Festival, il primo festival cinematografico europeo dedicato esclusivamente al genere, che nelle intenzioni degli organizzatori si pone come ideale punto d’incontro per il cinema western di tutto il mondo.

Oltre a omaggi e retrospettive, il piatto forte del festival sarà anche quest'anno il concorso ufficiale, in cui gareggeranno nove western prodotti nell'ultimo anno.

Questa la selezione ufficiale:


GOODNIGHT FOR JUSTICE: THE MEASURE OF A MAN
(2011) USA
Duration: 88 min
DirectorKristoffer Tabori
Principal Actors: Luke Perry, Cameron Bright and Teach Grant
Writers: Neal H. Dobrofsky Tippi Dobrofsky Luke Perry
Executive Producers: John Morayniss Luke Perry Ira Pincus
Producer: Luke Perry Ira Pincus
Director of Photography: ---
Music: Garry M.B. Smith
Company: Hallmark Channel
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GOOD FOR NOTHING
(2011) NEW ZEALAND
Duration: 92 min
Director: Mike Wallis
Principal Actors: Cohen Holloway, Inge Rademeyer y Jon Pheloung
Writers: Mike Wallis
Executive Producers: Jamie Selkirk
Producer: Inge Rademeyer Mike Wallis
Director of Photography: Mathew Knight
Music: John Psathas
Company: -----
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LA NOSTRA RECENSIONE


HEATHENS AND THIEVES
(2011) USA
Duration: 88 min
Director: Megan Peterson, John Douglas Sinclair
Principal Actors: Andrew Simpson, Gwendoline Yeo y Don Swayze
Writers: John Douglas Sinclair
Executive Producers: Marc McCrudden Steve Riley
Producer: Peter H. Scott
Director of Photography: Pyongson Yim
Music: Sean R. Ferguson
Company: -----
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ORSON WEST
(2012) ESPAÑA
Duration: 87 min
Director: Fran Ruvira
Principal Actors: Sonia Almarcha, Frank Feys, Jorge Yamam, Montserrat Carulla
Writers: Fran Ruvira
Executive Producers: Mariví de Villanueva
Producer: Xavier Crespo Juan Carlos Claver
Director of Photography: Carles Gusi
Music: Marc Vaíllo
Company: Canonigo Films Dacsa Produccions
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THE LEGEND OF HELL´S GATE
(2011) USA
Duration: 88 min
Director: Tanner Beard
Principal Actors: Eric Balfour, Lou Taylor Pucci y Henry Thomas
Writer: Tanner Beard
Executive Producers: -----
Producer: Jay Michaelson Suzanne Weinert
Director of Photography: Nathanael Vorce
Music: Lexie Beard
Company: -----
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A LEGEND OF WHITEY
(2011) CANADA
Duration: 85 min
Director: Dave Lawrence
Principal Actors: Shauna Baker, Julian Black Antelope y Jonathan Brewer
Writers: David Lawrence Paul Spence
Executive Producers: -----
Producer: Bruce Harvey David Lawrence
Director of Photography: Christophe Collette Carlos Sanchez Jason Sanchez
Music: Stuart MacQuarrie Roy Vuccino
Company: Stone Soup Productions
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SAL
(2011) CHILE
Duration: 114 min
Director: Diego Rougier
Principal Actors: Fele Martínez, Gonzalo Valenzuela y Javiera Contador
Writer: Diego Rougier
Executive Producers: Javiera Contador Diego Rougier Adrián Solar
Producer: Luigi Araneda
Director of Photography: David Bravo
Music: -----
Company: Picardia Films
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PÓLVORA NEGRA
(2011) BRASIL
Duration: 87 min
Director: Kapel Furman
Principal Actors: Nicolas Trevijano
Writers: Kapel Furman
Executive Producers: Kapel Furman
Producer: Kapel Furman
Director of Photography: Andre Sigwalt
Music: Alan Feres, Loud
Company: -----
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YELLOW ROCK
(2011) USA
Duration: 90 min
Director: Nick Vallelonga
Principal Actors: Michael Biehn, James Russo and Lenore Andriel
Writers: Lenore Andriel Steve Doucette
Executive Producers: Steve Doucette
Producer: Lenore Andriel Nick Vallelonga
Director of Photography: Matt Garrett
Music: Randy Miller
Company: Black Elk Mountan Prods LLC
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giovedì 11 ottobre 2012

prossimamente - The Brigands of Rattleborge (2013)



A questo punto pare confermato: dopo l'esordio in lingua inglese col thriller Stoker, Park Chan-wook dirigerà un western. Una notizia che non può che far esultare gli appassionati del genere, visto che - piaccia o non piaccia il suo cinema - il coreano è regista fra i più talentuosi ed originali sulla piazza.
Sarà un western "classico", dunque ambientato in America e con cast statunitense; credo sia in assoluto il primo diretto in terra yankee da un orientale.
Lo script, opera di S. Craig Zahler, risale al 2006 e pare abbia faticato tanto a trovare finanziamenti per un tasso di violenza decisamente fuori dalla norma. Visto che lo stesso Park non è certo uno che lesina in quanto a efferatezze, tutto fa pensare - compresa la produzione indipendente - che ci troveremo di fronte un filmone duro e senza sconti.
Noi ci stiamo già sfregando le mani...


prossimamente - The Lone Ranger (2013)


 

Giusto ieri, nei commenti all'anteprima di un piccolo e forse interessante film indipendente, ci si lamentava dello scarso se non nullo interesse dei pezzi grossi del cinema verso il genere western.
Quasi a smentirci, ecco qua il primo trailer di The Lone Ranger, il nuovo kolossal diretto da Gore Verbinski, interpretato da Johnny Depp e prodotto dalla (uhm) Disney e (coff coff) Jerry Bruckheimer, ovvero la squadra de "I pirati dei Caraibi", che nello scorso decennio ha trasformato il genere piratesco - un filone che era ancora più cadavere del western - in una miniera d'oro. Riusciranno i Nostri a fare la stessa cosa col western?




Qualche commento a caldo. Trailer poco significativo e poco entusiasmante. In primo luogo sembra tirare più un'aria steampunk che da vero e proprio western, il che finora al cinema è sempre stato sinonimo di boiatone col botto (vedi alle voci Jonah Hex e Wild Wild West). Però con i suoi film di pirati Verbinski ha dimostrato di essere un abile, per quanto non raffinatissimo, evocatore di atmosfere avventurose, inoltre ha diretto Rango, notevole film d'animazione dove ha dimostrato di amare il western e di saper dire qualcosa di non banale sul genere. Certo, vedere sbandierato così il nome del vate dell'action più noioso e cazzone Jerry Bruckhneimer preoccupa sempre, e quel paio di scene al rallentatore e la canzonaccia ruock non fanno ben sperare. Ma c'è da dire che sembra essere un trailer molto reticente, dove ad esempio non è presente alcun elemento ironico, assenza improbabile in un film degli autori de "I pirati dei Caraibi".
Da quel poco che si vede Johnny Depp sembra aver trasformato Tonto in un freak buffamente ieratico, quindi in netta contrapposizione col suo esagitato Jack Sparrow (che, piaccia o meno, è una delle massime icone avventurose degli ultimi anni). Già dalla locandina è evidente che si punta più sul suo personaggio che su quello sembrerebbe più stereotipato del Lone Ranger, interpretato dall'anonimo Armie Hammer. Speriamo almeno ci vengano risparmiate "le origini dell'Eroe", piaga che affligge tutti film che vedono protagonista un tizio mascherato.

mercoledì 10 ottobre 2012

il film 49 - Gunfighter's Moon



1995 GUNFIGHTER'S MOON
di Larry Ferguson con Lance Henriksen, Kay Lenz, Linda Yarnell, Jordan Yarnell, Nikki Deloach, Ivan Sergei, James Victor

Certi film esistono solo perché esistono certe facce. È sicuramente il caso di questa pellicola degli anni 90, tutta costruita attorno al faccione torvo e magnificamente logoro di Lance Henriksen, ai tempi sulla cresta dell'onda come protagonista della serie thriller “Millennium”.


Strana faccia quella di Henriksen, specchio perfetto della sua vita, che - usando una frase fatta - sembra un film. Nato in una poverissima famiglia di New York nel 1940, passa una giovinezza da teppista, tra strada e riformatorio. Negli anni 60 fa una vita da vero hobo, viaggiando clandestinamente sui treni. Semianalfabeta, scopre di avere un certo talento per la pittura e guadagna qualche soldo dipingendo scenografie per i teatri. Ottenuta qualche particina impara a leggere studiando i copioni. Entrato in contatto con ambienti più intellettuali fa amicizia con James Cameron e ottiene le prime particine. Il suo film d'esordio è non a caso proprio un film sugli hobo, il duro e magnifico "L'imperatore del Nord" di Robert Aldrich.
Dopo aver legato negli anni 70 soprattutto con Sidney Lumet, con cui gira tre film, Henriksen negli 80 si afferma come caratterista grazie all'amico Cameron, comparendo in tutti i suoi primi film, "Piranha paura", "Terminator" e soprattutto "Aliens - Scontro finale" dove diventa famoso nel ruolo dell'androide Bishop. È l'allora moglie di Cameron, Kathryn Bigelow, che gli offre il primo ruolo da quasi protagonista, quello dell'inquietante capofamiglia vampiro del notevole "Il buio si avvicina".

Fosse nato quindici o venti anni prima è probabile che la sua faccia sghemba e un po' stralunata sarebbe stata ben utilizzata nel cinema western. Invece nella nostra epoca arriva al genere solo nel 1995, dove però gira ben tre film, i ben noti Dead Man e Pronti a morire e questo Gunfighter's Moon (poi distribuito poco e male nel 1997). In seguito tornerà al genere con una particina della miniserie televisiva Into the West, del 2005, Appaloosa di Ed Harris e del poco consigliabile La febbre della prateria (Prairie Fever), entrambi del 2008.


Ci siamo dilungati sull'intrigante figura dell'attore protagonista perché, prevedibilmente, non c'è molto da dire su questo b-movie, dalla trama troppo elementare e i personaggi stereotipati, per quanto per nulla sgradevole. La confezione è povera ma dignitosa, a parte una mediocre e spesso per nulla adeguata colonna sonora. 

Henriksen è Frank Morgan, pistolero stanco e un po' andato di testa, che risponde alla richiesta d'aiuto di una vecchia amante. Scoprirà di avere una figlia adolescente e di dover difendere il marito della donna, neo-sceriffo di un paesetto in cui stanno per arrivare tre spietati fuorilegge che vogliono liberare un loro compare detenuto in attesa di impiccagione.


Il film ha un inizio promettente, con Morgan quasi pazzo che uccide in una posada un pistolero che lo ha sfidato in un'atmosfera allucinata. Peccato che poi la storia si sposti subito in un tipico e bucolico paesino americano, con i vecchietti sulle sedie a dondolo, ragazzine con le trecce e gioviali feste campestri.
Un'ambientazione quindi dalle atmosfere edulcorate e posticce tipiche di prodotti come "La signora del west". Di conseguenza il film funziona solo nelle parti che vedono in scena Henriksen, la cui figura tenebrosa fa da contrasto con l'ambiente lindo e ipocrita del paesino americano. Vestito di nero, voce d'oltretomba, accompagnato da un cane dagli occhi di ghiaccio, Morgan solidarizza solo con un bistrattato uomo delle pulizie messicano e getta nel panico la comunità quando rapisce la figlia per farci quattro chiacchiere.


Poche, purtroppo, ma notevoli le scene veloci e brutali dei duelli. Oltre a quello d'apertura nella posada assistiamo ad un bello scontro notturno sotto la pioggia, con la fiamma della pistola che incendia i pantaloni del protagonista, e a quello finale, in cui Morgan uccide a sangue freddo l'ultimo degli avversari rimasti in vita, nonostante questi stia implorando di essere risparmiato.
Un vero peccato che queste sequenze non abbiano fatto parte di una storia più interessante.

prossimamente - Dead Man's Burden



Nuovo western indipendente in arrivo dagli Stati Uniti, girato nel deserto del New Mexico e scritto e diretto dall’esordiente Jared Moshe. Per fortuna senza sfumature horror, come ultimamente pare andare di moda.

Questa è la sinossi ufficiale:
Siamo nel 1870, e un’America frammentata tenta di mettere assieme i propri pezzi dopo la Guerra Civile. Martha (Clare Bowen) e suo marito Heck (David Call) vivono in una fattoria che il padre di Martha ha acquistato nella frontiera rurale del New Mexico, e faticano a tirare avanti. Quando una compagnia mineraria si dice interessata a comprare la loro terra, Martha e Heck possono sperare in una vita migliore. Ma i loro piani speranzosi vengono presto complicati quando il fratello maggiore di Martha, Wade (Barlow Jacobs) - che lei pensava fosse morto durante la guerra -, torna a casa dopo aver appreso della morte del padre. Fuggito dall’Esercito dell’Unione, Wade scopre che Martha ha qualche segreto nell’armadio. Quando i due fratelli si riavvicinano, sospesi tra il desiderio di riconciliarsi con l’unica famiglia che hanno e le loro convinzioni contrastanti, la tensione e i sospetti iniziano ad aumentare…


domenica 7 ottobre 2012

i film 48 - Pronti a morire


1995 PRONTI A MORIRE (The Quick and the Dead)
di Sam Raimi. Con Gene Hackman, Sharon Stone, Russell Crowe, Leonardo DiCaprio, Gary Sinise, Tobin Bell, Roberts Blossom, Kevin Conway, Keith David, Lance Henriksen, Pat Hingle, Woody Strode


Diciamo che all'epoca fu una delusione piuttosto clamorosa. Le attese erano alte. Intrigavano il titolo originale, un'idea di base sulla carta parecchio divertente, un cast da grandi occasioni e soprattutto intrigava il nome di Sam Raimi alle perse con il western. A ripensarci oggi suona strano, ma all'epoca Raimi era considerato da molti "il" piccolo genio del cinema di genere indipendente americano, affine e complementare ai suoi amici fratelli Coen (assistenti di scena del primo "Evil Dead / La casa"). Al di là di come si possono giudicare i film di Raimi da "The Gift" in poi, è evidente che il suo nome è ormai associato a tutt'altro tipo di cinema e a tutt'altro pubblico. 

Ma all'epoca intrigava ancora leggere Raimi che nelle interviste dichiarava il suo amore per il western e diceva di volersi rifare a film come "Django" e "Per un pugno di dollari". Visto che solo un paio d'anni prima aveva diretto lo spassosissimo "L'esercito delle tenebre", demenziale e amorevole omaggio al cinema fantastico di serie B, in molti si aspettavano il corrispettivo western di un film come quello, quindi uno spettacolo altrettanto cinetico, ironico e travolgente. Invece al cinema ci si trovò di fronte ad un film né carne né pesce, anche ben fatto, ma con troppi dialoghi, troppi indugi narrativi, troppi attori che non sembravano avere le facce giuste al posto giusto e - a dirla tutta - troppi pochi morti ammazzati. Almeno relativamente a quelli che uno può attendersi se si citano Leone e Corbucci come modelli. Aveva anche il difetto di molti western girati nei 90, quello di voler delineare troppi personaggi e seguire troppe linee narrative. Insomma non un brutto film, ma aveva tutta l'aria di una grande occasione sprecata.


Il tempo è al solito galantuomo. Rivedendo "Pronti a morire" a distanza di anni quei non lievi difetti restano, ma forse pesano meno di quel che sembrava allora. Cambia molto innanzitutto poterlo vedere senza il criminale doppiaggio italiano che, tra le tante cose che rovinava, banalizzava ulteriormente la già problematica interpretazione di Sharon Stone. 

Il personaggio della Stone era e resta il difetto numero uno del film. In alcuni momenti involontariamente ridicola, come nelle entrate in scena stile versione femminile del pistolero senza nome di Clint Eastwood: all'inizio quando arriva in paese con lo sguardo torvo e il cigarillo tra i denti o nel finale quando, tra il fumo delle esplosioni, più che andare a sostenere un duello sembra piuttosto che stia facendo una sfilata di moda. D'altra parte è il difetto di moltissimi film americani, soprattutto degli anni 90, cuciti addosso al divo di turno che spesso era anche il produttore del film, come appunto accade in questo caso. Sintomatica l'inutile scena di sesso tra la Stone e Russel Crowe (mentre un'altra con Di Caprio pare si stata tagliata per volere dell'attrice), ma allora irrinunciabile in film con protagonista l'attrice diventata famosa per i torridi amplessi di "Basic Istinct".

Guardando il film con maggior distacco si nota però anche che la Stone se la cava egregiamente nelle scene dove non deve far finta di fare la dura e può apparire più femminile, come nella bella sequenza della cena con Hackman. Inoltre per buona parte del film il suo personaggio resta in attesa, per cui in fondo non influisce così tanto nell'economia della narrazione.


Da rivalutare senza tante riserve invece il resto del cast. Il solito titanico Hackman da vita ad un grande e odiosissimo cattivo che tiene fede al proprio nome: Herod. Ottimo (non doppiato) l'allora ancora sconosciuto e ancora magro Russel Crowe, alle prese con il personaggio più interessante, un letale pistolero diventato prete che forse poteva essere il vero protagonista. Anche l'allora astro nascente Di Caprio ha gioco facile nella parte stereotipata del pistolero ragazzino. 

 Ma il pezzo forte del film è la gran folla di caratteristi che popola il film, un epica sfilata lombrosiana di ceffi e di facce più o meno note viste in centinaia di film e telefilm. Dai più conosciuti Lance Henriksen, Woody Strode e Gary Sinise a tipici attori dalla serie "se non conosci il nome, conosci la faccia": Pat Hingle, Roberts Blossom, Keith David, Tobin Bell.


La pellicola in sé resta tutto sommato un bel giocattolone con le pile scariche, troppo superficiale per essere preso sul serio e allo stesso tempo troppo ambizioso per diventare puro intrattenimento. Ma il tempo gli ha conferito il fascino strano di un film tutto sommato unico nel suo genere, autenticamente strambo e originale. È anche il tentativo fallito, ma generoso di riportare e ringiovanire l'estetica di un cinema già allora completamente scomparso da almeno vent'anni. Anche se poi a conti fatti è più un tipico western postmoderno, i cui debiti verso gli "spaghetti" si fermano ad una serie di numerose, ma in fondo effimere, citazioni. Fin dai nomi dei personaggi e della città (Redemption) è ricca di simbolismi religiosi e l'atmosfera è quella di un certo immaginario assolutamente americano, intriso di riferimenti biblici di stampo protestante. 


Che Raimi non avrebbe per nulla preso sul serio il retroterra religioso del film era scontato, ma avrebbe dovuto fare la stessa cosa anche con le lambiccate pretese della sceneggiatura di dare profondità ai personaggi e buttarla tutta sul divertimento più cialtrone. Invece la sua regia allora sorprese per come sembrava misurata ed elegante, forse imbrigliata. Il suo estro si scatena solo nelle folli scene dei duelli, tutti coreografati con uno stile e idee sempre diversi ed ingegnosi, anche se a volte fin troppo sopra le righe, come per l' inappropriata capriola finale di Hackman. 

La confezione è di lusso, con le bellissime scenografie, una gran fotografia di Dante Spinotti, bei costumi (a parte quelli "griffati" della Stone), ma anche una magagna imperdonabile per un western che si vuole rifare alla estetica “spaghetti”: una mediocre e incolore colonna sonora.
E forse il problema di base del film è proprio la confezione fin troppo lussuosa e ricca. Probabilmente un budget più contenuto e un cast meno ingombrante (proprio come nelle precedenti pellicole horror-fantasy di Raimi) avrebbero dato al tutto un’aria più genuina e ruspante, più in linea con la liberatoria trasandatezza del cinema che si voleva omaggiare.

venerdì 5 ottobre 2012

i film 47 - Manto Nero


1991 MANTO NERO (Black Robe)
di Bruce Beresford con Lothaire Bluteau, Aden Young, Sandrine Holt, August Schellenberg, Tantoo Cardinal, Billy Two Rivers, Lawrence Bayne 

Riprendiamo la retrospettiva dei western usciti negli anni 90 con questo strano e dimenticato oggetto cinematografico del 1991. Insieme a L’ultimo dei mohicani di Mann, dell’anno dopo, si tratta curiosamente dell’unico serio sforzo produttivo fatto per mettersi sulla scia dell’immane successo ottenuto l’anno precedente da Balla coi Lupi di Kevin Costner. Ci sono anche qui i paesaggi letteralmente mozzafiato, gli indiani che parlano nella loro lingua con i sottotitoli, il protagonista che si ritrova sperduto in un territorio ostile e selvaggio. Manca totalmente invece la furbizia del film di Costner, il suo dosaggio di azione, epica, ironia e sentimenti. Non stupisce davvero che all'epoca "Manto Nero" fu un sonoro flop e poi sia stato praticamente dimenticato, perché è un film pessimista, triste, severo, senza catarsi, più dalle parti di certo cinema d’autore europeo che non di quello spettacolare americano. E infatti è una produzione soprattutto canadese e australiana.

Anche chi scrive, che all'epoca era un adolescente che cercava di andare al cinema a vedere qualsiasi cosa odorasse di western, si tenne ben lontano da un film che, nonostante gli indiani, si presentava con un trailer che parlava della crisi spirituale di un prete durante un viaggio. Visto a distanza di vent’anni si rivela un film affascinante e interessante, povero d’azione (meglio avvertire che la prima freccia impiantata in una gola arriva dopo un’ora esatta di film), ma piuttosto crudo e davvero poco compiacente.


Tratto dall'omonimo romanzo di Brian Moore e sceneggiato dall'autore stesso, non si tratta ovviamente di un western canonico. È un dramma avventuroso e seicentesco, la storia di un prete gesuita e di un giovane francese innamorato di una ragazza indiana che per raggiungere una sperduta missione nel Quebec si aggregano ad una piccola tribù di algonchini. Sarà un viaggio da incubo, disseminato di disagi, premonizioni di morte e personaggi inquietanti, tra cui un notevole stregone nano che sembra uscito da un film di Herzog. Se non c’è molta azione, non mancano certo la violenza e i dettagli crudeli. Anzi c’è solo l’imbarazzo della scelta, tra dita della mano segate in primo piano con una conchiglia, cadaveri di neonati, donne ammazzate, bambini a cui viene tagliata la gola e scene di sesso piuttosto esplicite.


Anche ad un livello più teorico ci sono molte cose che non ti aspetti da una produzione milionaria: benché visti con simpatia e umanità gli indiani sono descritti anche nei loro lati più intolleranti e barbari, la fede cristiana è messa sullo stesso piano delle superstizioni indiane e vien reso con grande efficacia il classico contrasto tra la sfolgorante bellezza della natura e la sua indifferente crudeltà. Insomma concetti poco adatti per richiamare al cinema il pubblico che aveva decretato l’enorme successo del film precedente del regista, il lezioso e paraculo "A spasso con Daisy". E infatti per quanto accademica, stavolta la regia di Beresford è lontanissima dal suo solito stile patinato, che era riuscito a rendere quasi affettato anche un film sulla rivoluzione messicana. Questo anche grazie ad una confezione di gran lusso, ma misurata, con ad esempio le belle musiche della colonna sonora che si fanno sentire solo quando servono, evitando di essere un tappeto sonoro costante come in molti film di questo tipo.


Il protagonista è quanto di meno carismatico si possa immaginare. Un giovane aristocratico diventato prete più per reprimere la sua latente omosessualità che non per fede, un personaggio disorientato e impotente, con la faccia malinconica e francescana dell'attore francese Lothaire Blueteau. Un personaggio tormentato con cui è davvero difficile entrare in sintonia. Più simpatica la coppia formata dal giovane compagno di viaggio - di cui il prete è forse segretamente innamorato - e la bellissima ragazza indiana, decisa e risolutiva, interpretata dall'allora diciannovenne Sandrine Holt.

Anche se siamo più dalle parti di “Diario di un curato di campagna” che non de L’ultimo dei mohicani, per gli appassionati dei film d’avventura ambientati nell'America del ‘600 e del ‘700 il film è comunque una gioia per gli occhi, tra indiani credibili, fucili a canna lunga, canoe che scivolano su fiumi maestosi, favolosi boschi innevati e l’immancabile scena dei prigionieri che vengono fatti correre tra due ali d'indiani armati di bastoni.


Colpisce infine che un film come questo, che si direbbe relativamente recente, o comunque proveniente da un panorama cinematografico apparentemente non molto diverso da quello odierno, oggi sarebbe impensabile come film pensato (almeno potenzialmente) per il grande pubblico. Oggi un film con le stesse caratteristiche sarebbe concepito solo per i festival e i circuiti d'essai.

martedì 25 settembre 2012

i film 46 - Il grande duello



1973 IL GRANDE DUELLO
di Giancarlo Santi con Lee Van Cleef, Horst Frank, Peter O'Brien, Marc Mazza, Jess Hahn, Antonio Casale, Klaus Grünberg, Dominique Darel

Trascurato all’epoca della sua uscita, invisibile per anni e rivalutato come merita solo in tempi più recenti, con i suoi molti pregi e anche con qualcuno dei suoi difetti è un film denso e sostanzioso, che porta i segni visibili della fine di un'epoca e di un modo di fare cinema, e probabilmente l’ultimo grande spaghetti western "classico" (Keoma e California sono infatti già dei post-western).

Come un po' tutti quei rari spaghetti "seri" di quegli anni, è un film con parecchie infiltrazioni crepuscolari, a cominciare dalla clamorosa bellezza malinconica della musica di Bacalov, ripresa anche dal volpone Tarantino nel sanguinoso capitolo animato di Kill Bill: gran pezzo di cinema, nonostante Santi si lamenti dell'appropriazione indebita. Per una volta l'insistenza, tipica del periodo, su particolari scabrosi e battutacce grevi (quella sul cadavere del cavallo è talmente triviale da fare trasalire) è funzionale all'atmosfera, con un Lee Van Cleef quasi stanco, che elegante ed austero si aggira in un West laido e pezzente; ma dove i peggiori hanno l'eleganza pacchiana dei fratelli Saxson.
Un West con parecchi particolari stranianti: baristi ermafroditi, il cattivo sifilitico, l'inquietante pelato Marc Mazza (già maniaco ne L'uomo della pioggia con Charles Bronson), il tipico cattivo Horst Frank che interpreta due ruoli (padre e figlio), il caratterista neandertaliano Salvatore Baccaro tra le guardie del corpo dei cattivi. Anche il protagonista capellone Alberto Dentice/Peter O'Brien è ne più ne meno che un hippie nel Far West e i battaglieri coloni sembrano usciti da un film di propaganda rivoluzionaria.



Se la prima parte deve molto a Leone, la seconda nel paese è più debitrice dei western politici e pessimisti di Corbucci. I piani di potere dei cattivi sono molto chiari con la realpolitik del cattivo Horst Frank, che rinuncerebbe alla vendetta pur di portarli a compimento. La parte gialla è un po' confusa e bisogna rimuginare un po' per far quadrare i conti, ma la trovata del flashback in bianco e nero è suggestiva e usata come si deve. Anche se il colpo di scena finale non sorprende nessuno. Notevolissimi i duelli e le sparatorie, ripresi direttamente da Leone, ma con influenze anche del cinema di Peckinpah, con l'uso del montaggio sincopato e il ralenty, usato molto più sensatamente che nel successivo Keoma. Unica grossa pecca: il personaggio superfluo della promessa moglie di uno dei Saxon, la viscontiana Dominique Darel, che si innamora di Dentice, sottotrama sentimentale che inquina un po' il finale, fin troppo spensierato rispetto al clima del resto del film.



Decisamente notevole la regia di Giancarlo Santi, già aiuto regista di Sergio Leone in Il buono, il brutto, il cattivo e C’era una volta il West (e che, come noto, avrebbe dovuto essere anche il regista di Giù la testa), che al suo esordio assoluto sembra davvero un esperto e consumato professionista, dimostrando una padronanza del mezzo tecnico da fare invidia a più titolati colleghi.
L’ascendenza da Leone è, peraltro, evidentissima per tutto il film, con Santi che cerca, forse un po’ anche per dimostrare il suo talento e che Leone sbagliò a non affidargli Giù la testa, di costruire le sequenze in perfetto stile "leoniano", con carrellate a salire, primi piani ravvicinati e tutti gli altri classici vezzi tecnici del Maestro.
Secondo Antonio Bruschini è un film in cui Santi "dimostra di aver ben assorbito l’uso ritmico delle pause e la musicalità dei silenzi di Leone (si veda la lunga sequenza iniziale dell’arrivo di Clayton alla stazione di servizio) nonché il suo afflato epico. Esemplare la maestosa sequenza del duello con Van Cleef e i cattivi che avanzano uno incontro agli altri, spalancando le enormi porte del recinto, sottolineato dall’intenso tema musicale di Luis Enriquez Bacalov, del tutto degno di Morricone."
Bisogna dire, però, che Santi spinge molto di più sui tasti del barocco e del grottesco, due elementi sì presenti soprattutto nell’ultimo Leone, ma che però vengono decisamente accentuati.
E da Leone viene ripreso, e notevolmente amplificato, anche l’uso delle facce patibolari, con un campionario di brutti ceffi da fare invidia a Lombroso, di trivialità quasi da borgata romana e la sgradevolezza di personaggi e situazioni, che ricordano il celebre inizio di Giù la testa.
Il massacro dei minatori invece è quasi sulla falsariga di quello dei soldati messicani in Per un pugno di dollari, con gli stessi primissimi piani della canna della mitragliatrice e degli occhi di chi spara.



Il film, purtroppo, è decisamente penalizzato dagli esterni, girati sui monti della Toscana, che non possono certo competere con il fascino dei deserti dell'Almeria. Purtroppo, a causa dell’aumento dei costi, pochi degli spaghetti western degli anni settanta vennero girato in Spagna.
Geniale, invece, l’idea dei titoli di testa che scorrono orizzontalmente da destra verso sinistra sullo schermo.

Purtroppo la versione attualmente circolante, in televisione e su dvd, è censurata: ricordiamo bene il particolare del vecchio ucciso in mezzo alla strada che lascia l'impronta di sangue sul vestito bianco di uno dei Saxson (scena che si vede anche nel trailer su YouTube) e anche il massacro dei coloni dovrebbe essere sforbiciato.

T. Sega & M. Mihich

martedì 18 settembre 2012

prossimamente - Dead in Tombstone

















Il primo trailer di Dead in Tombstone, weird western dell'olandese Roel Reiné (The Scorpion King 3: Battle for Redeption), girato interamente in Bulgaria e in uscita negli USA il 31 dicembre (probabilmente per cercare di agganciare l’onda di Django Unchained), direttamente per il mercato dell’home video.

Nonostante appaia evidente che si tratti dell’ennesimo B-movie (un po’ il corrispettivo odierno di certi prodotti nostrani degli anni sessanta-settanta, che erano comunque realizzati con carrettate di gusto, mestiere e idee in più) in questo periodo di vacche magrissime per il genere (quantunque il successo de Il Grinta dei fratelli Coen ci avesse fatto sperare in sua una nuova “rinascita”) ne segnaliamo volentieri l’uscita, se non altro per l’interessante cast, che comprende Danny Machete Trejo, che ci appare perfetto nel ruolo del desperado nerovestito, e Mickey Rourke, che dopo l’Oscar sfiorato per The Wrestler sembra ritornato a battere i bassifondi del cinema, nell'ennesimo testacoda di una carriera fatta di resurrezioni e cadute.

sabato 25 agosto 2012

i film 45 – Mi chiamavano Requiescat... ma avevano sbagliato


1973 MI CHIAMAVANO REQUIESCAT... MA AVEVANO SBAGLIATO
di Mario Bianchi, con Alan Steel, William Berger, Frank Braña, Fernando Bilbao, Gilberto Galimberti, Celine Bessy, Lorenzo Robledo, Paco Sanz, Karin Well

Western violentissimo girato da Mario Bianchi mentre il genere era in piena agonia, negli stessi set, ormai cadenti e in rovina, di Per un pugno di dollari e decine di film successivi.
L’atmosfera di disfacimento e l’aria di decadenza, da “fine di un’epoca”, che si respirano per tutto il film, anche se probabilmente non volute, sono tra le cose migliori della pellicola, insieme all’esagerato tasso di violenza e sadismo, con cui il regista decide di compensare l’evidente mancanza di mezzi (ci sono pochissimi attori e pochissimi cavalli), se non altro in ammirevole controtendenza rispetto alla deriva comica del genere.

Si comincia con una scena piuttosto schifosa in cui il protagonista, legato e bendato, viene ricoperto di sputi e poi mutilato con le mani esplose a colpi di pistola, per proseguire con torture con ferri ardenti, schiacciamenti di testicoli, forconi infilati in gola e sparatorie particolarmente sanguinose, il tutto messo in evidenza da frequenti close-up splatter.
C’è anche una insistita scena di sesso, del tutto anomala in un western italiano.



Peccato, però, che la sceneggiatura sia del tutto sconclusionata, con passaggi narrativi illogici (non si capisce, ad esempio, l’assurdo piano del protagonista di farsi catturare dai cattivi) e la regia di Bianchi sia quella che è, cioè abbastanza sotto il minimo sindacale (con abbondanza di momenti inutili e scene allungate a dismisura per raggiungere il metraggio previsto). Visto il successo ottenuto con i western – ne girerà più o meno in contemporanea e nelle stesse location altri due, Hai sbagliato... dovevi uccidermi subito e Nel nome del padre, del figlio e della colt – si butterà nel porno.
Il protagonista Alan Steel, alias Sergio Ciani, è espressivo quanto un monolite e pare abbia sempre una scopa in culo, però per il ruolo del vendicatore incazzato e pervaso dall’odio la sua fissità di sguardo riesce persino a essere funzionale.
A tenere su il film ci pensano i caratteristi spagnoli come Frank Braña e Lorenzo Robledo (che come al solito fa una bruttissima fine) e soprattutto un eccezionale William Berger, efficacissimo nel ruolo del capobanda sadico e sanguinario.



La collocazione storica, abbastanza inedita, è quella del Missouri post guerra civile, insanguinato da scontri tra soldati nordisti e bande di ex-confederati (purtroppo le uniformi sono davvero tremende, stile festa di carnevale). Il protagonista è appunto un ufficiale nordista che dopo esser stato lasciato per morto tornerà dopo un paio d’anni per vendicarsi abbigliato con un incredibile mantello nero alla Zorro.
Peccato anche per la colonna sonora di Gianni Ferrio totalmente fuori posto. Non che sia male, ma sarebbe stata più adatta a una commedia romantica.

La cosa migliore del film è il finale nella ghost town abbandonata (che sarebbe il celebre villaggio western di Golden City – Hoyo de Manzanares, ormai ridotto a un cumulo di catapecchie) dove Steel prima affronta in duello Berger sfoggiando una ingegnosa protesi con la pistola al posto della mano invalida e poi molla in mezzo al fango della main street la squaw innamorata di lui e che gli aveva salvato la vita (Celine Bessy, che sfoggia un completino da indiana tremendo) e se ne va via da solo a cavallo verso il tramonto.

venerdì 24 agosto 2012

i film 44 - "Doc''



















1971 'DOC'
di Frank Perry, con Stacy Keach, Faye Dunaway, Harris Yulin, Michael Witney, Denver John Collins, Dan Greenburg, John Scanlon

La sparatoria all’O.K. Corral di Tombstone, nella realtà storica né più epocale né più cruenta di tante altre del Selvaggio West, è una di quelle vicende della Frontiera assurte ad epica ed entrate nell’immaginario collettivo grazie alla mitologia hollywoodiana, che l’ha trasformata in leggenda per mezzo di film come Sfida infernale e Sfida all’O.K. Corral.
Ovviamente nelle pellicole di John Ford e John Sturges lo scontro tra gli Earp e i Clanton era occasione per una marcata contrapposizione tra gli sceriffi e i fuorilegge, con i primi che rappresentavano l’incarnazione del bene e della giustizia, contrapposte in maniera netta e senza sfumature alla selvaggia anarchia dei secondi.
Nella “New” Hollywood degli anni settanta, gravida di cattiva coscienza e contrassegnata dal crollo di molte illusioni, tale dicotomia viene invece recisamente rifiutata e il film di Frank Perry, regista di altre pellicole pregne di disincanto come Brevi giorni selvaggi e Diario di una casalinga inquieta, si inserisce nella grande corrente degli anti-western di Penn e Altman, con cui rivaleggia in quanto a demolizione dei miti e rifiuto degli schemi codificati.

Il regista, innanzitutto, sceglie una prospettiva decentrata, inquadrando la celebre vicenda non attraverso le gesta dello sceriffo Wyatt Earp – tratteggiato come la figura cinica e opportunistica quale probabilmente era nella realtà – ma dell’amico Doc Holliday, che se nelle precedenti incarnazioni cinematografiche di Victor Mature e Kirk Douglas era la spalla fedele dell’eroe qui si trasforma in una figura problematica e dubbiosa, alla disperata ricerca di sé stesso e di una vita avulsa dalla violenza che lo ha sempre accompagnato.
Anziché un atto di coraggio ed eroismo la sparatoria con i Clanton rappresenta quindi per lui il fallimento di queste aspirazioni e la consapevolezza di non poter fuggire dal proprio destino, come viene chiaramente esemplificato nell’uccisione a sangue freddo del giovane pistolero che voleva seguire le sue orme, come una metaforica uccisione di se stesso.



La versione della sfida all'OK Corrall pare più vicina alla versione storica: un regolamento di conti tra mafiosi più che una sfida tra uomini di legge e fuorilegge. Protagonista per una volta è Doc Hollyday, interpretato da un marmoreo Stacy Keach, pistolero dall'area funerea ma in fondo molto più umano del Wyatt Earp interpretato dall'ottimo caratterista Harris Yulin, un gelido opportunista che con indifferenza porta alla rovina amici e famigliari, pur di perseguire i suoi meschini scopi politici. Molto bello anche il personaggio della prostituta interpretata da una radiosa Faye Dunaway, uno dei rari western (un altro che mi viene in mente è La Ballata di Cable Hogue) in cui la protagonista femminile fa la prostituta non solo per sentito dire. Particolare la regia di Perry: se da una parte mette in scena il West tutto fango sudore e polvere da sparo tipico dei western autunnali, dall'altra dirige attori e sequenze con una stilizzazione tipica dei classici anni '50. Bel film, non all'altezza di Sfida infernale, forse alla pari di Sfida all'Ok Corral, decisamente superiore ai due film degli anni '90. (Tommaso Sega)



Il ritmo imposto alla pellicola da Perry è lento e indugiante, attento all’introspezione psicologica dei vari personaggi, dipinti tutti in chiave realistica e antieroica, e in pratica gli spari e le scene di violenza sono riservati unicamente alla sfida finale, risolta peraltro in maniera secca e asciutta in non più di una decina di secondi. La visione del Far West che traspare dal suo film è quella di un consesso umano basato sulla coercizione (tramite la violenza delle armi da fuoco e quella della politica), la prostituzione (fisica e morale) e il gioco d’azzardo. Uno sguardo amaro e senza speranza, che il regista estende metaforicamente anche alla società americana degli anni settanta del secolo scorso.

Pur essendo un western di ambientazione prevalentemente cittadina la fotografia di Gerald Hirschfeld si concede suggestivi scorci dei paesaggi desertici di Tabernas e Cabo de Gata, in Almeria, dove il film è stato interamente girato.
Decisamente efficace la prova di Stacy Keach, grande attore sottovalutato con una faccia perfetta per i loser degli anni settanta, in seguito interprete di una altro storico personaggio della frontiera, Frank James, nel film di Walter Hill I cavalieri dalle lunghe ombre.



Alla sparatoria dell’O.K. Corral verranno successivamente dedicati altri due film negli anni novanta: Tombstone di Pan Cosmatos e Wyatt Earp di Lawrence Kasdan, nei quali gli sceriffi torneranno a essere gli eroi e i Clanton i cattivi, il segno che i tempi erano nuovamente cambiati.

mercoledì 8 agosto 2012

i registi 18 - Carlo Lizzani

CARLO LIZZANI
Achtung! Autore!



A differenza di altri autori provenienti dal cinema cosiddetto impegnato come Damiani, Brass e Questi, che negli anni d’oro del western italiano si inserirono nel filone calandosi dall'alto, dimostrando scarsa considerazione per il genere, Lizzani è il caso di un autore militante che fece western con una certa convinzione, anche come produttore, avvicinandosi al genere con rispetto e sapienza artigianali. Pur proponendo una sua lettura personale, nei suoi western Lizzani non cerca di destrutturare il genere, ma cerca piuttosto l’accesso ad un tipo di narrazione all'epoca autenticamente popolare. Incappando, manco a dirlo, anche in qualche tirata d’orecchi della critica ortodossa di allora più ottusa e trombona.

1966 UN FIUME DI DOLLARI
di Carlo Lizzani con Thomas Hunter, Henry Silva, Dan Duryea, Nicoletta Machiavelli, Gianna Serra, Nando Gazzolo, Loris Loddi

Il primo dei due western di Lizzani ha decisamente un'impostazione classica. Per quanto la trama abbia elementi tipicamente "spaghetti", come il protagonista ossessionato dalla vendetta e il villaggio diviso tra fazioni, lo stile, i dialoghi, i costumi e persino le musiche di Morricone guardano senza dubbio più ai modelli  americani che non ai canoni imposti dalle pellicole di Leone. In particolare sembra potente l’influenza dei film di  Anthony Mann, dai cui film è ripreso direttamente l'attore Dan Duryea, con quella solita aria da affascinante relitto che avevano un po' tutte le vecchie glorie hollywoodiane che venivano a cercar nuova fortuna in Italia. Se lo stile e l’iconografia sono classici il tutto è però condito dalla violenza e dal clima morboso tipico del western nostrano. Ambiguità ben visibile nel gran scontro finale, dove se l’azione è coreografata con le tipiche inquadrature geometriche dei film americani, i protagonisti fanno però grande uso della dinamite: esagerazione spettacolare tipicamente "spaghetti" e infrazione dei codici cavallereschi che nessun "buono" di un western classico si sarebbe mai permesso.


Pur senza arrivare allo stravolgimento grottesco più caratteristico dei western all'italiana, Lizzani estremizza alcune peculiarità dei personaggi tipici. A cominciare dal protagonista, talmente divorato dal desiderio di vendetta da essere spesso mostrato con un'aria febbricitante e malata, pronto a qualsiasi atto masochista pur di giungere al suo scopo, come farsi pestare o a farsi tagliare un tatuaggio dal braccio. Per quanto un po’ anonimo, l'attore Thomas Hunter ha la giusta aria spiritata e malinconica.


È anonimo e basta invece il capo dei cattivi interpretato da Nando Gazzolo, ma poco male perché a rubargli la scena c’è il suo braccio destro, un incontenibile Henry Silva, che pur nerovestito gioca ad andare contro al suo classico personaggio del killer glaciale, interpretando un pistolero messicano dall’allegria decisamente inquietante. Il personaggio di Nicoletta Macchiavelli, splendidamente decorativo, moriva nella versione italiana mentre sopravviveva nella versione americana. Futuro rinomato doppiatore e specializzato nei ruoli da bambino in moltissimi "spaghetti", il piccolo Loris Loddi è un caso raro di moccioso simpatico in un western.


Pur considerandola un’ opera su commissione Lizzani si mette rispettosamente e seriamente al servizio del genere, ma non si annulla come autore, rivelando un bel talento per le scene d’azione e violenza. Una bellissima sequenza, che evidentemente sconfina dall'estetica convenzionale dei western italiani, è quella del protagonista che dopo anni torna nel suo ranch e lo ritrova monocromatico, perché totalmente ingrigito dalla polvere. Quando l'uomo inizia a leggere il diario della moglie la macchina da presa inizia a vagare per la casa vuota e si sente la voce della donna come quella di un fantasma.

1966 REQUIESCANT
di Carlo Lizzani con Lou Castel, Mark Damon, Pier Paolo Pasolini, Franco Citti, Pietro Ceccarelli, Barbara Frey, Nino Davoli, Rossana Martini, Rosanna Crisman

Anche se è probabilmente il primo western italiano esplicitamente politicizzato, non è, come si legge quasi ovunque, un western rivoluzionario, ma piuttosto un tipico western gotico di quel periodo. Si respira la stessa aria, affascinante e tragica, di film come Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro, Texas addio, Sette dollari sul rosso e 1.000 dollari sul nero. In quest’ultimo appare lo stesso tempio azteco (ovviamente finto) presente anche in “Requiescant”. (Scenografie che appaiono anche in Killer Kid, notevole e misconosciuta pellicola con Anthony Steffen, quella sì un vero western rivoluzionario, anche se non viene mai citato tra i film del filone.)  


C'è molta ironia in "Requiescant", soprattutto riguardante la figura del bizzarro protagonista, ma Lizzani non commette l’errore di molti registi impegnati che, alle prese con il cinema di genere, spesso calcano la mano con il sarcasmo per sottolineare il proprio distacco dalla materia tratta. Semmai in questo caso, soprattutto nel finale, ci si prende anche un po’ troppo sul serio, con due o tre sermoni politici di troppo, soprattutto in quel paio di momenti in cui il pubblico magari avrebbe preferito veder gente che sparava. Ma nonostante qualche isolata tirata terzomondista nei dialoghi, in effetti decisamente mal invecchiata, è fortunatamente più un film di atmosfere e personaggi che non di ideologie. Significativo, ad esempio, che i campesinos che combattono contro lo yankee aristocratico e schiavista sono per quasi tutto il film lasciati fuori campo, quasi una presenza spettrale. E anche nel finale vagamente shakespeariano funzionano più come incarnazione dei fantasmi psicologici dei due protagonisti, che non come soggetti politici.


Lou Castel "è" il film. L’attore svedese crea uno dei personaggi più originali e strampalati mai visti in un western, esatto opposto del ruolo gelido e calcolatore che interpreterà l’anno dopo in Quien Sabe?. Specie di San Francesco con la colt o Candido volterriano nel Far West, Requiescant attraversa il film con la sua aria lunare, maldestro quanto imprevedibilmente letale, incapace di cavalcare (guida il suo cavallo con una padella), perde continuamente cappello e pistola, che è costantemente costretto a inseguire e raccattare. Con la sua recitazione fuori dagli schemi, sottilmente nevrotica e svagata Castel riesce nell’impresa di rendere  un personaggio simile coerente e credibile. Un personaggio tanto eccentrico che ancora oggi è incompreso e rifiutato da molti appassionati, pur capaci di digerire le caratterizzazioni più inverosimili e anodine della fase comicarola del genere. Suo contraltare perfetto un Mark Damon spiritato e teatrale, che crea un cattivo davvero inquietante e affascinante, un nobile decadente, tormentato e omosessuale che sembra uscito da uno dei film di Corman ispirati a Poe.

Pasolini nei panni di un prete rivoluzionario è una specie di totem vivente, la cui presenza risulta ancor più straniante per il fatto che viene doppiato. Proveniente dal suo cinema risulta rilevante la presenza di Franco Citti. Si vede poco invece Ninetto Davoli nella strampalata parte di un trombettiere.


Parecchie le scene dall'impatto notevole: tutte le uccisioni e i laconici sermoni di Requiescant, una gara di tiro a bersaglio tra ubriachi con una donna che regge i bersagli, Castel che si aggira nel tempio tra le ossa dei suoi famigliari, il duello tra “impiccati”, la morte di Damon. Peccato invece per due scene di tortura malamente sforbiciate già all’epoca.

Se è vero che per molti anni in Italia sul cinema di genere nostrano è gravata una cappa di disprezzo e (peggio) di indifferenza, è anche vero che da anni si è affermato un luogo comune uguale e contrario riguardante il cinema e gli autori “impegnati”, bollati come noiosi e pesanti per partito preso. Tanto è vero che un fama simile aleggia da sempre anche su “Requiescant”. A conti fatti, nonostante i suoi difetti e squilibri, si tratta invece di un ottimo film di genere, originale, bizzarro e soprattutto piuttosto divertente.