venerdì 9 dicembre 2016

The Homesman



2014 The Homesman
di Tommy Lee Jones con Tommy Lee Jones, Hilary Swank, Meryl Streep, Grace Gummer, Miranda Otto, Sonja Richter, David Dencik, John Lithgow, Tim Blake Nelson, James Spader; William Fichtner, Jesse Plemons, Evan Jones, Hailee Steinfeld 

Non ce ne vogliano Tarantino e i Coen, ma, come già undici anni fa con Le tre sepolture, anche in questi anni 10 Tommy Lee Jones è salito in cattedra (con gli stivali da cowboy) e ha sfoderato un'opera per cui potremmo riciclare le stesse identiche parole usate per descrivere il suo capolavoro del 2005: "Non solo il probabile capolavoro western del decennio, [...] ma uno dei più preziosi e solitari film americani degli ultimi anni."
Tutto questo almeno agli occhi dei non molti che hanno avuto la possibilità di vederlo. Circostanza particolarmente difficoltosa in Italia, dove la solita distribuzione demente ha provveduto a distribuirlo con due anni di ritardo e solo per il mercato home video.

Il quarto titolo da regista di Tommy Lee Jones - contando i due tv-movie The Good Old Boys del '95 e Sunset Limited del 2011, adattamento di un testo teatrale del molto affine Cormac McCarthy - è tratto dall'omonimo e ultimo romanzo di Glendon Swarthout, che negli anni 70 aveva già regalato al cinema western la storia per l'addio di John Wayne, Il Pistolero di Don Siegel.

The Homesman è un racconto di viaggio e di follia. Tre donne impazziscono per le impossibili condizioni di vita della frontiera. Per una sorta di riscatto personale una ranchera senza famiglia (Hilary Swank) si assume l'incarico di trasportarle con un carro all'est, dove potranno essere almeno accudite. Un vagabondo a cui la donna salva la vita (Tommy Lee Jones) diventerà il suo ispido e poco motivato compagno di viaggio.

Curiosamente nel 2008 era uscito un fiacchissimo filmetto per la tv con una trama molto simile, La febbre della prateria (Prairie Fever) di Stephen Bridgewater e David S. Cass, dove a dover trasportare nella prateria con un carro tre donne impazzite era Kevin Sorbo, l'Hercules televisivo degli anni 90. E già solo questo fa intuire la differenza di tono tra le due pellicole.



Come già ne Le tre sepolture l'attore-regista dimostra di possedere una sensibilità unica, sia come narratore laconico di personaggi indimenticabili e umanissimi, sia nel saper catturare su uno schermo la gelida e indifferente bellezza della natura, riuscendo a creare atmosfere sature e nitide, di un profondità allusiva che rimanda al miglior cinema americano degli anni 70. Un altro racconto di viaggio attraverso paesaggi splendidamente desolati, che diventano lo specchio crudele in cui i due protagonisti saranno costretti a specchiarsi.

The Homesman è anche un film sulla follia, raramente sbattuta in faccia allo spettatore in modo così diretto e brutale in un film di finzione, soprattutto americano. Non si fanno molti sconti allo spettatore nel mostrare cause ed effetti della malattia mentale delle tre donne. Nella prima mezz'ora di film Tommy Lee Jones usa delle sconnessioni temporali per creare un accavallarsi imprevedibile di brevi sequenze, in cui si mescolano pugni nello stomaco (un neonato gettato in una latrina) e episodi di ambiguità fantasmatica, in cui lo spettatore non sempre comprende se quel che vede è la realtà o sono situazioni filtrate dalla mente allucinata delle tre donne impazzite.



Come in altri titoli di questi ultimi anni è un film che mette in scena un punto di vista femminile sul West. Quello distorto delle tre donne malate, che fuggono attraverso la follia da una vita di una durezza insopportabile. E quello dispertamente solitario della protagonista, condannata a restare una "signorina" perché la sua ipersensibilità e il suo bisogno di calore umano sono scambiati per smania zitellesca di trovare "l'uomo di casa" del titolo. L'immagine di Hilary Swank che finge di suonare un piano ricamato su un tappetino è una folgorante metafora del labile confine tra sanità e malattia mentale, differenza spesso stabilita solo dal contesto. Ma pur mostrando simpatia per le sue anti-eroine Tommy Lee Jones non concede letture consolanti. Se il suo è un cinema che ritrae un mondo di perdenti e di esistenze al margine, le donne in quel mondo sono destinate alle sconfitte più feroci e totali. Nessuna cura attende le tre malate alla fine del viaggio e anche il tentativo della protagonista di trovare una dignità per se stessa e per le tre poverette verrà ripagato dalla realtà nel più spietato dei modi.

Allo stesso tempo è impossibile non provare simpatia per il personaggio interpretato dallo stesso Tommy Lee Jones, nonostante sia un concentrato di tutti i peggiori vizi che si possono attribuire ad un maschio adulto: vagabondo, perditempo, sporco, rozzo, insensibile, egoista, all'occorrenza assassino spietato. L'incontro con le quattro donne lo costringe per un momento ad uscire dalla sua vita stordita e senza scopo, ma è una crescita umana da cui ricaverà solo rimorsi e il realizzare della sua irrimediabile solitudine.

La presenza di Hailee Steinfeld, nella parte della ragazzina a cui il protagonista fa una tragicomica proposta di matrimonio, suggerisce un accostamento con la recente versione de Il grinta. Se il film dei Coen descriveva un mondo in cui il paradosso e l'irrazionale erano dentro la realtà stessa delle cose, Tommy Lee Jones si spinge un po' più in là descrivendo un mondo in cui è la follia ad essere insita in ogni cosa, nella crudeltà inconcepibile della natura, nella violenza irrazionale che sembra governare il comportamento di tutti i personaggi che i protagonisti incontrano durante il viaggio.



Quello che Tommy Lee Jones ricava dal romanzo di Swarthout è anche un affondo politico nerissimo e spietato nei confronti dell'America dei giorni nostri. La metafora non potrebbe essere più esplicita e potente quando si assiste ad una delle rese dei conti finali più nichiliste e casuali mai viste. Resa dei conti non gratuita, però. Con la stessa rabbia senza speranza con cui il suo personaggio porta a compimento una vendetta che non porta alcun sollievo o senso di giustizia, così l'autore descrive una grande nazione fondata sul sangue e il sacrificio di pionieri poveracci e disperati, dove alla fine però a stabilire chi possiede cosa, a spartirsi la torta e a banchettare (letteralmente) sono solo i più ricchi e avidi. Una visione del tutto simile a quella del Cimino de I cancelli del cielo (significativa la presenza di un cameo di Meryl Streep, scoperta proprio da Cimino ne Il cacciatore), probabilmente meno scandalosa solo perché quello di Tommy Lee Jones è un film a basso costo, non un kolossal eretico che "spreca" una montagna di dollari per attaccare una società fondata sul dollaro.

Una visione che a poche settimane dalla grottesca vittoria di Trump acquista ulteriore lucidità e si illumina di luce ancora più sinistra, ma che non è ottusamente manichea. Il film si guarda bene infatti dallo scadere nella retorica inversa e non idealizza in nessun modo la figura del povero colono e dell'America provinciale, di cui anzi mostra la violenza, la grettezza, l'egoismo, l'insensibilità e soprattutto la profonda ipocrisia morale.

I tentativi di ristabilire un po' di giustizia nelle cose o anche solo i semplici atti di gentilezza sono sterili e spesso postumi: la vendetta senza catarsi del protagonista, il tentativo di dare alle tre donne impazzite un'esistenza più dignitosa da cui probabilmente non trarranno comunque beneficio, il tema delle sepultura come ultimo ed estremo atto di rispetto della dignità umana. Tema quest'ultimo che riporta a Le tre sepolture, film che nella sua cupezza necrofila lasciava nel finale uno spiraglio alla speranza, una possibilità di riscatto attraverso l'assunzione (pur coercitiva) di un senso di responsabilità verso il prossimo. Spiraglio di speranza negato in The Homesman.

Il finale è solo oblio, solitudine e disperazione affogata nell'alcool. Le uniche paradossali testimoni della vicenda sono tre donne, rese virtualmente cieche e mute della loro follia. Il tempo cancellerà ogni cosa, come la corrente del fiume porta via la lapide di legno, in una delle immagini finali più potenti e sconsolate del cinema recente.



Nel ruolo potenzialmente scivoloso delle tre malati mentali se la cavano con classe e intensità Grace Gummer, figlia di Meryl Streep, la collaudata caratterista Miranda Otto e l'attrice danese Sonja Richter.

Hilary Swank aggiunge un altro indimenticabile personaggio nella sua galleria di beautiful loser al femminile. Riesce a commuovere senza essere lacrimosa, rendendo in pieno le sfaccettature di un personaggio tanto apparentemente spigoloso e prosaico quanto alla fine fragile e poetico.

Tommy Lee Jones sembra uno dei pochi veri sopravvissuti della New Hollywood, stagione che per altro lo vide come attore di seconda fila. Mentre molti divi di quell'epoca sono tristemente decaduti, il suo carisma e la sua figura sono invece cresciuti, rendendolo oggi una specie di Clint Eastwood alternativo, meno glamour e ancora più fuori dalle mode.
Tempo fa fece molto ridere l'immagine di lui unico serio in mezzo a una ridanciana folla hollywoodiana. Anche si fosse trattato di una posa o di una gag preparata, è un'immagine che ci sembra rappresentare alla perfezione i suoi film da autore completo, un cinema adulto e serio in un panorama cinematografico sempre più infantile e scemo.

Del resto, in confronto a un film complesso, profondo e esemplare come The Homesman, anche alcuni film recenti trattati bene e benino in questo blog ci fanno un po' la figura di film per bambini.

venerdì 2 dicembre 2016

Kill Or Be Killed



2015 Kill Or Be Killed
di Duane Graves, Justin Meeks con Justin Meeks, Paul McCarthy-Boyington, Gregory Kelly, Deon Lucas, Bridger Zadina, Larry Grant Harbin, Arianne Martin, Luce Rains, Timothy T. McKinney, Edwin Neal, Michael Berryman

Una banda di tagliagole, dopo aver fatto evadere un loro complice, si mette in viaggio per andare a recuperare il bottino di una rapina. Durante il tragitto si lasceranno dietro una scia di sangue. Oltre agli sceriffi qualcosa di ben più temibile si metterà alle loro calcagna.

Bella sorpresina, che riconcilia con la spesso frustrante abitudine di rovistare nel cinema più marginale e arrabattato in cerca di perle misconosciute. Weird western, a conti fatti più western che weird, con una componente thriller al limite dell'horror, omaggiando il cinema più cinico e sensazionalista degli anni 70.

Mettiamo in chiaro la natura del film: trattasi di pellicola dignitosamente guardabile, ma assolutamente e implacabilmente low budget. Le scene d'azione sono girate al risparmio, con spari e incendi visibilmente aggiunti in post-produzione, e gli attori sembrano per lo più non-professionisti. Dice tutto che il maggior valore produttivo del film sia il fulmineo cameo di Michael Berryman, caratterista lombrosiano dal distintivo testone a cono visto in decine di b-movie dagli anni 70 ad oggi. Per altro utilizzato in una particina in cui potrebbe esserci stato chiunque altro al suo posto. Berryman è anche produttore associato del film; a naso potrebbe significare che ha lavorato gratis o per un tozzo di pane e che gli è stato promessa una parte degli (improbabili) incassi del film.

Insomma, se cercate un film fatto come dio comanda, professionale e rifinito, rivolgete la vostra attenzione pure ad altro. Se invece siete in vena di godervi lo spettacolino di un luciferino e ghignante gran-guignol allestito nel vecchio West, accomodatevi. Non è detto che ne resterete soddisfatti, ma troverete pane per i vostri denti.



Come altri western a basso budget, ma con una certa ambizione, di questi anni, Kill Or Be Killed racconta di un percorso verso il nulla e la morte. Intuizione visiva felice che il punto di arrivo del viaggio dei personaggi, il nascondiglio del bottino, sia segnato da un buco su una mappa. La storia inizia come una commedia violenta e picaresca, ma ben presto diventa un piccolo viaggio all'inferno, con un accumularsi di nefandezze che crea un clima malato di totale amoralità. Poi si trasforma ancora in uno slasher stralunato, privo di una suspense tradizionale, dove gli omicidi sembrano punizioni bibliche. Il finale, onirico e agghiacciante, è uno di quelli capaci di far venire la bava alla bocca agli appassionati della verosimiglianza, ma per chi scrive è il colpo di coda finale che eleva il tutto da filmetto interessante a operina compiuta, con una sua poetica e una sua ragione di esistere.

Lo sviluppo narrativo è quanto meno sgangherato, con almeno un paio di personaggi interessanti che si perdono per strada (tra cui un prete bellicoso), ma Kill Or Be Killed è anche un film a suo modo ben calibrato, non una pellicola che si limita a spingere biecamente il tasto della violenza. Violenza che infatti più che mostrata viene fatta intuire, esibendone più spesso le conseguenze. Le scene più crudeli vengono sempre lasciate fuori campo, con l'effetto di risultare più inquietanti, mentre abbondano invece i particolari più grotteschi (uno dei protagonisti quasi in ogni scena subisce una qualche mutilazione). Una probabile costrizione dovuta alla ristrettezza del budget trasformata in una scelta stile.

Soprattutto è un film coerente che sa creare un suo piccolo mondo allucinato. Il west messo in scena è un posto grottesco e squallido, popolato solo da prede e predatori, dove si uccide casualmente e in genere per i motivi più meschini e stupidi. Nel cervello di quasi tutti personaggi del film non alberga troppa intelligenza. A cominciare dai protagonisti. Una banda di mezzi freak i cui delitti vanno dall'omicidio a sangue freddo allo stupro, che vediamo anche commettere piccoli crimini miserabili, di solito furbamente evitati nel cinema che mette in scena dei fuorilegge. Tipo compiere una mezza strage per rubare le offerte di una chiesa o rapinare poveracci come prostitute e barcaioli.



I due registi, Duane Graves e Justin Meeks (il secondo anche attore protagonista non male, che qui mostra una vaga somiglianza con Oliver Reed, anche per via della stazza), sono una coppia di sinceri appassionati del vecchio cinema da drive in e dei grindhouse. Tra i molti emuli dunque dei soliti Tarantino / Rodriguez / Rob Zombie, ma meglio della maggior parte di quei molti. I loro due precedenti lungometraggi sono due horror che, dai trailer, sembrerebbero interessanti: The Wild Man of the Navidad del 2008, dall'originale e pittoresca ambientazione redneck, e Butcher Boys del 2012, che pare una specie di versione suburbana di "Non aprite quella porta". Sembrerebbero particolarmente ispirati nel trovare l'orrore in contesti tipicamente americani, intrisi di folklore e disagio sociale, cosa che accade anche in questa loro terza prova .

lunedì 28 novembre 2016

Westworld / Il Mondo dei Robot



1973 Westworld / Il Mondo dei Robot
di Michael Crichton con James Brolin, Yul Brynner, Richard Benjamin, Victoria Shaw

All'alba degli anni Settanta, Michael Crichton è ad un bivio. Joan, sposata in fretta e furia appena terminati gli studi ad Harvard, lo vuole stabile a La Jolla e possibilmente padre di uno o due marmocchi. Lui pretende tempo e spazio, vagheggia Los Angeles, il posto ideale per chi ha intenzione di guadagnarsi da vivere con i libri. Con i libri e con i film. Sì, perché Michael ha in mano anche un copione per il cinema e sogna di tramutarlo quanto prima in pellicola, nell'aspirazione di lanciarsi come regista. Gli sarà sufficiente sfogliarlo ancora qualche volta e dare altre due occhiate annoiate alla tradizionalista Joan perché quel bivio si trasformi in un'autostrada a corsia unica per la Città degli Angeli.

Il 1973 non è un anno facile per l'America. La galoppante crisi economica interna sembra senza via d'uscita. Il prezzo della benzina è alle stelle, la disoccupazione pure. A livello di società civile si registra un numero senza precedenti di divorzi, mentre dieci milioni di americani si rispecchiano nella lenta disgregazione della famiglia Loud, protagonista del primo reality show della storia, An American Family della PBS. Le spese folli per il mantenimento delle truppe in Vietnam, i bombardamenti criminali in terra cambogiana, le sanzioni internazionali derivate dall'appoggio militare ad Israele durante la Guerra del Kippur sono soltanto alcuni dei fattori che portano ad una sfiducia totale nelle istituzioni da parte dei cittadini. Sfiducia che sfocia in pessimismo cosmico quando, quello stesso anno, diventa definitivamente di dominio pubblico lo scandalo politico americano per eccellenza: il Watergate.

Il cinema risponde con straordinaria immediatezza allo sconfortante clima generale. Gli antagonisti dei thriller e dei crime movies diventano improvvisamente, da schegge impazzite in qualche modo "altre" rispetto all'ordine costituito che erano, membri di quelle stesse istituzioni che l'ordine dovrebbero garantirlo. Non è un caso se nel primo Dirty Harry (1971) il nemico è lo psicopatico solitario, mentre nel seguito del '73 Callahan se la deve vedere con una cricca di poliziotti corrotti. Serpico di Lumet, sempre del '73, mette al centro della narrazione, allo stesso modo, una cellula criminale interna alla polizia newyorkese. In Un duro per la legge di Phil Karlson, altro film estremamente esemplificativo del periodo, seguiamo le vicende di un reduce del Vietnam che, fatto ritorno al paese natio, lo scopre in balia di un racket che perpetra le proprie azioni illegali in connivenza con il locale distretto di polizia. È curioso ma ben comprensibile, d'altra parte, che molti successi di quella stagione siano ambientati negli anni Trenta, il periodo della Grande Depressione, in un tentativo di esorcizzazione della crisi attraverso il ricordo di un'altra crisi: si pensi a Paper Moon di Bogdanovich, alla Stangata di Roy Hill, ma anche a Come eravamo di Pollack. Hollywood, come si può ben capire, o traspone o amplifica o prova a calmierare il livore nei confronti delle istituzioni che è di un'intera Nazione. Un livore che viaggia di pari passi con una perdita di fiducia nel futuro che non è solo politica, ma addirittura esistenziale, capace di mettere in discussione la stessa retorica illuministica del Progresso, vero e proprio caposaldo della cultura a stelle e strisce.

Progresso, dicevamo. Se è innegabile che a partire dal Ventesimo secolo il Progresso vada di pari passo con l'ampliamento smisurato dell'apparato tecnologico, è altrettanto pacifico che, tra tutti i generi cinematografici, sia quello della fantascienza a rendere al meglio il senso ambiguo di fascino e terrore che il connubio Tecnica-Progresso suscita nell'uomo occidentale. In quei tempi di sperimentazioni su sistemi di controllo satellitare e ipotesi sempre meglio argomentate sulla possibilità della clonazione genetica, accolte dall'opinione pubblica nel clima di ansia socio-politico-esistenziale di cui sopra, è così inevitabile che escano sci-fi distopiche sul fallimento della tecnoscienza (Il giorno del delfino di Mike Nichols), metafore di instabilità governativa e militare (con riferimenti alla realtà dei colpi di stato in Afghanistan e Cile di quell'anno: Anno 2670 - Ultimo Atto di Jack Lee Thompson), proiezioni disperate sull'America del futuro, martoriata da crisi energetica e sovrappopolazione (2022: I Sopravvissuti, capolavoro di Richard Fleischer). In questo gruppo potremmo tranquillamente inserire, di primo acchito, anche il nostro Westworld. E lo faremo, in parte. Non fosse che il film di Crichton si rivelerà essere qualcosa di più irregolare, sottilmente ambizioso e larvatamente epocale di tutti i film suddetti.



Abbiamo lasciato Crichton alle porte di Los Angeles. Quello con gli studios hollywoodiani non è un incontro subito idilliaco: ci impiegherà tre anni a trovare i finanziamenti per il suo Westworld, un progetto giudicato inizialmente da tutti troppo costoso. Il definitivo sì della Metro-Goldwyn-Mayer verrà pronunciato ad un prezzo: rinunciare ad ambientare la storia in un mondo "troppo" futuristico e, soprattutto, attenersi ad un tempo di lavorazione tassativamente non superiore ai sei mesi. Crichton accetterà e vincerà la sfida, ripagata poi da un inaspettato successo al botteghino.

Westworld ha a che fare innanzitutto con un tema che ritorna in maniera quasi ossessiva lungo l'opera di Crichton, quello che potremmo definire del "parco a tema con sorpresa". Lo troviamo già in un romanzo del '70, Sua eccellenza la droga, quando ancora si firmava con lo pseudonimo John Lange, ma l'esempio più celebre è chiaramente Jurassic Park. Riassumendo: in un futuro prossimo il progresso informatico ha permesso la creazione di un enorme centro vacanze suddiviso in tre zone corrispondenti ad altrettante epoche storiche, Ovest americano dell'Ottocento, antica Roma e Medioevo. I tre mondi sono abitati da androidi dotati di una sviluppatissima intelligenza artificiale, tale da consentire un'interazione totale con gli ospiti umani. Non fosse che, ad un certo punto, per un non meglio precisato guasto tecnico, le macchine si ribellano all'uomo e da vittime designate (è infatti possibile, ad esempio, "uccidere" in duello il pistolero o il cavaliere teutonico di turno) si trasformano in fredde e spietate assassine. L'antagonista principale sarà un pistolero vestito come il Chris Adams dei Magnifici sette, interpretato non a caso dallo stesso Yul Brynner.

Che cosa e quanto c'entra Westworld con il western? La risposta non è delle più semplici. Formalmente stiamo parlando di un film di fantascienza. È giusto allora dire che Il mondo dei robot è un film sul western, inteso nel senso più ampio possibile di immaginario e di apparato mitologico. In un modo bizzarro, tutto suo, è uno dei capitoli più esemplificativi di tutto il western revisionista, uscito per una strana coincidenza in corrispondenza con la chiusura di una delle serie televisive più longeve e amate del genere, Bonanza. Il West, la grande sede del Mito americano, è ridotto ad attrazione estiva per turisti in cerca di emozioni forti. Esiste metafora più chiara, in particolar modo se collegata allo spirito dei tempi su cui ci siamo volutamente soffermati sopra? Il tema del fallimento della tecnologia si unisce immediatamente a quello del fallimento dei principi che hanno definito simbolicamente un'intera Nazione. Siamo proprio nel '73: Westworld, se ci pensiamo, non è soltanto il mondo del West, ma anche il mondo occidentale. Da un punto di vista interno al cinema, il film non si limita ad una revisione ironicamente pessimistica sullo stato di un genere, il western, e dei valori in esso contenuti. Sembra anzi andare a toccare in maniera parodistica le stesse basi storiche della mitopoiesi cinematografica americana: nella strutturazione "per epoche storiche" riecheggia addirittura Intolerance di Griffith, trasformando però in gioco infantile quella che nella pietra miliare del '16 era epica morale.



Tutto quanto detto, è bene ricordarlo, avviene sotto l'egida dell'intrattenimento e dello spasso puro. È un film che funziona benissimo tuttora a livello di ritmo e presa. Yul Brynner, perfetto, preconizza la funzionale inespressività robotica che farà la fortuna di Schwarzenegger e James Cameron. Crichton dirige con la semplicità e la sicurezza di un veterano. Westworld è insomma un piccolo gioiello che racconta come pochi altri la capacità del cinema di genere di confrontarsi con il proprio tempo, permettendosi di affrontare temi cruciali senza perdere mai la comunicatività spiccia con lo spettatore.

Paolo A. d'Andrea


Per le note biografiche su Crichton ho consultato M. Cialani, Il cinema di Michael Crichton, Aracne Editrice, 2015.

martedì 22 novembre 2016

Forsaken / Il fuoco della giustizia



2016 Forsaken / Il fuoco della giustizia
di Jon Cassar con Kiefer Sutherland, Donald Sutherland, Demi Moore, Brian Cox, Michael Wincott

Modello figliol prodigo, pistolero ammazzasette torna a casina dal babbo predicatore, al quale promette di appendere la pistola al chiodo e di rinunciare per sempre alla violenza. Ma visto che il paese è sotto il tallone della solita banda di mascalzoni dovrà cambiare idea. Ma con tutta calma, che il film non può finire dopo mezz'ora.

Quante volte abbiamo visto messo in scena il canovaccio dell'eroe che per tutto il film non può reagire a qualche angheria, che subisce e sopporta, fino a quando nel finale esplode e fa fuori tutti?
Tante. E quasi sempre in infimi filmetti di serie C.
Proprio perché è un'idea infima e di terza categoria.
Il ricatto emotivo che dovrebbe innescare questo tipo di situazioni si scontra quasi sempre con la difficoltà di creare una motivazione sensata e non umiliante che giustifichi la prolungata passività del protagonista. Così finisce quasi sempre che i protagonisti di questi film, più che degli eroi con la pazienza di Giobbe, sembrino degli idioti masochisti. Esattamente quel succede anche in questo caso, con gli sceneggiatori che per allungare il brodino si dilungano in noiosi intrecci sentimentali e arzigogolate strategie dei cattivi, pur di rimandare l'inevitabile scontro decisivo alla fine del film.



Dopo anni di carriera in cui lo si ricordava generalmente solo come cattivo in due cult degli anni 80 come "Stand By Me" e "Ragazzi perduti", Kiefer Sutherland è diventato famoso e apprezzato nel nuovo millennio come protagonista della fortunata serie televisiva "24", nella parte del mastino federale Jack Bauer. Al di fuori fuori di quella serie, ci sembra però essere rimasto un attore normale, non molto carismatico, sicuramente poco portato per il western (genere che aveva per altro già frequentato), dato che sembra uno di quelli parecchio impacciati quando devono indossare un cappello e uno spolverino da cowboy.
Come se non bastasse qui si confronta con il leggendario padre Donald che, pur servito malissimo da una sceneggiatura che gli appioppa un personaggio monocorde e piuttosto stupido, sovrasta il figlio tanto a livello recitativio che fisico (quasi venti centimetri di dislivello tra padre e figlio).
Se Brian Cox nella parte del solito intrallazzatore cattivo è sprecato, l'unico personaggio potenzialmente interessante è quello affidato all'ottimo caratterista Michael Wincott, che qui incredibilmente non fa il solito personaggio laido a cui da anni è abbonato, ma un pistolero prezzolato con un suo codice d'onore. Peccato che non entri praticamente mai nella storia.



C'è davvero poco da aggiungere su un film che non si può dire brutto o particolarmente fatto male, ma irrimediabilmente mediocre, tedioso e totalmente insapore. Una robetta talmente innocua e banale che, c'è da scommettere, ci sarà sicuramente più di uno in giro che ne parlerà bene descrivendolo come un "buon vecchio classico western". Che può anche andare come definizione, se il termine di paragone per definire un "classico western", piuttosto che l'opera di un Anthony Mann, è La signora del west.

venerdì 18 novembre 2016

In a Valley of Violence



2016 In a Valley of Violence
di Ti West con Ethan Hawke, John Travolta, Taissa Farmiga, James Ransone, Karen Gillan, Burn Gorman, Toby Huss, Larry Fessenden

Che ci fa un giovane hipster nel vecchio far west? Nonostante il cognome non era facile immaginare un regista come Ti West alle prese con un genere come il western. Classe 1980, West è il più teorico, minimalista e se vogliamo furbo esponente della generazione di registi horror emersa dalla seconda metà dello scorso decennio. Il suo manifesto programmatico è "The HouseOf The Devil" del 2009, diventato meritatamente un piccolo cult di questi anni. Un film che per quasi tutta la sua durata mostra semplicemente una bella figliola che si aggira in una sinistra dimora, giocando così con divertita intelligenza sulle aspettative che un determinato genere di situazioni crea nello spettatore. Formula poi ripetuta praticamente identica anche nel successivo e narrativamente ancor più basico "The Innkeepers".

Alle prese con la polvere e il sole del western West resta fedele al suo stile narrativo ridotto all'osso, ma cambia registro, adottando un passo più classico e adulto. Se si diverte anche in questo caso ad aprire e mostrare gli ingranaggi del giocattolo lo fa in modo più sottile e meno apertamente sarcastico. Un approccio chiamiamolo più maturo comunque inevitabile, trattandosi del suo primo film di un certo rilievo produttivo, con attori non solo noti ma decisamente famosi come John Travolta e Ethan Hawke.



Il film ha le sembianze di un povero ma dignitoso b-movie di altri tempi, con pochi attori in scena e quattro case e un paio di anfratti come scenografie. La storia, semplicissima e lineare, sarebbe piaciuta ad un Budd Boetticher o a Elmore Leonard: un uomo arriva in una classica cittadina sperduta nel nulla, subisce un terribile sopruso e si vendica. Quasi tutto qui. Ma l'aderenza a un meccanismo narrativo basato su uno dei più semplici ed efficaci meccanismi di azione e reazione è solo apparente.

All'inizio pare infatti di trovarsi davanti ad una versione moderna di una di quelle commedie western anni 60 e 70 in cui era specializzato (ahinoi e ahilui) l'altrimenti talentuoso Burt Kennedy, con tanto di protagonista che si porta appresso una cagnetta intelligente e umanamente interattiva che sembra presa di peso da un qualche antico telefilm per ragazzi alla Rin Tin Tin. West lavora però sotto la superficie del mostrato, facendo intuire fin dalle prime scene la presenza di una violenza sotterranea che attende solo di esplodere. Quando poi ciò accade, e tutto sembra incanalarsi negli schemi prefissati di un truce e sanguinario revenge movie, West spiazza ulteriormente lo spettatore disattendendo quasi tutte le aspettative e frustrando ogni possibile catarsi.

Il risultato è un film non del tutto risolto, a tratti vistosamente difettoso, ma felicemente obliquo e ambiguo. Ambiguità riscontrabile già a livello visivo, visto che è un film dai temi e dall'anima molto americani, ma anche un chiaro omaggio ad una certi colori e suoni dei western all'italiana. I titoli di testa sono corredati da disegni pop come nei primi anni degli spaghetti western, c'è una bella colonna sonora fischiata (in cui si intromettono moderati accenni elettronici carpenteriani) e la fotografia ha toni spenti e cieli verdognoli come si trattasse di una pellicola degli anni 60 ingiallita dal tempo. Un filtro finto-vintage applicato con abbastanza buon gusto da non diventare quella patina monotona e posticcia di tanti prodotti nati sulla scia di "Grindhouse" di Tarantino e Rodriguez. A livello di storia e personaggi il film di West ha però poco o nulla da spartire con i prodotti nostrani, ricordando piuttosto certi dirty western americani degli anni 70.



Interessante il lavoro che West compie sui personaggi. Molti di loro nel corso del film si rivelano diversi da quello che appaiono in un primo momento, svelando spesso lati e motivazioni inaspettate. Lo sceriffo di John Travolta, che all'inizio sembra replicare per l'ennesima volta la figura del violento finto-sonnacchioso in cui si è specializzato dall'epoca di "Pulp Fiction", pur nella sua ambiguità si rivelerà il personaggio più umano della situazione. Invece il protagonista, a cui inizialmente va tutta la simpatia dello spettatore, farà emergere lati sempre più meschini e sgradevoli.

Ma soprattutto, esattamente come nei film del già citato Tarantino, quasi tutti i personaggi quando aprono la bocca si prodigano in dialoghi e monologhi estenuanti e torrenziali, che dilatano i tempi delle sequenze e ridefiniscono il ritmo dell'azione. L'unico privo di eloquio è proprio il taciturno protagonista. Tanto è vero che il torto maggiore di cui sembra volersi vendicare è quello di essere stato privato della sua unica opportunità di comunicare col mondo.



Se come stile West si riconferma regista di impeccabile sobrietà, pecca ogni tanto di mancanza della stessa nella scrittura. L'ambizione gli prende a volte la mano, alcune scene di introspezione scivolano nel melodramma e nel finale c'è qualche scena madre di troppo. Anche il livello politico della storia è reso in modo eccessivamente didascalico in alcuni dialoghi. Non c'era bisogno di sottolineare esplicitamente in un dialogo quanto il personaggio di Hawke sia il risultato della cattiva coscienza della Storia degli USA. Bastavano da sole le sue azioni o la bella sequenza onirica, un incubo che è l'unica scena a richiamare l'estetica dei film precedenti di West, per capire che ci troviamo davanti alla tipica "macchina da guerra" inceppata, il reduce alla Rambo o alla Travis Bickle che una volta privato di una guerra ne scatena una sua privata.

Nota conclusiva con avvertenza di SPOILER, se così vi piace (anche se bisogna essere spettatori ben ingenui per non immaginare fin dal trailer e dalle premesse iniziali cosa accadrà a metà film per scatenare la violenza del protagonista): "In a Valley of Violence" si aggiunge alla lista di storie degli ultimi anni che mettono in scena una storia di vendetta scatenata dalla morte violenta di un cane.

giovedì 3 novembre 2016

The Duel / By Way of Helena



2016 The Duel o By Way of Helena
di Kieran Darcy-Smith con Liam Hemsworth, Emory Cohen, Woody Harrelson, Alice Braga, William Sadler, Christopher Berry, Raphael Sbarge, José Zúñiga

C'è un Cuore di Tenebra nel Texas ai confini col Messico. Dal Rio Grande affiorano cadaveri di peones messicani che qualcuno ha ucciso e scalpato. I giustificati sospetti cadono sulla piccola e blindata comunità religiosa fondata dal luciferino Abraham (Harrelson). Quando sparisce anche la nipote di un generale messicano viene mandato ad indagare sotto copertura il giovane ranger David Kingston (Hemsworth), che ha la pessima idea di portarsi dietro la bella moglie messicana (Braga).

Ambientato in un West superstizioso e pentecostale, The Duel o By Way of Helena è un film narrativamente sfilacciato, ma interessante e affascinante, che ha il suo punto di forza in un'atmosfera da horror - thriller esoterico degli anni 70, pur per fortuna restando a tutti gli effetti un western e mantenendo gli eventi sempre su un piano realistico, anche se spesso ambiguo.

Un dtv con alcuni limiti di budget e visivi del mercato direct-to-video, ma con dentro più cinema di tanti film che arrivano in sala. 


I due titoli con cui circola il film si riferiscono alla medesima cosa. Il duello alla maniera di Helena (intesa come città) è la cruenta usanza di legare insieme due duellanti che si devono uccidere a vicenda con un coltello a lama corta. Così all'inizio del film il protagonista ancora bambino vede morire il padre, proprio per mano dell'uomo su cui da adulto dovrà indagare.
A dispetto di quel che suggeriscono gli strilli di locandina, il protagonista non è però mosso dallo scontato desiderio di vendicare il padre, ma piuttosto sembra voler conoscere meglio l'uomo che lo ha ucciso, andando forse anche in cerca di una figura paterna. Altri personaggi del film, a cominciare da quello della moglie, sono più o meno consciamente in cerca di qualcosa, ma la comunità guidata dal diabolico personaggio di Harrelson si rivelerà per tutti il contesto peggiore in cui risolvere un qualsiasi dubbio esistenziale o soddisfare un qualche inconfessabile desiderio.

Se per le atmosfere profondamente nordiche di Blackway si è sottolineato il fatto che il regista fosse svedese, qui si può notare come il regista Kieran Darcy-Smith sia australiano. Origine geografica a cui non si può fare a meno di ricollegare il senso di disagio e inquietudine che il film riesce a trasmettere, mettendo in scena un West dove il Diavolo e il Male sembrano essere di casa, standoci pure belli comodi. In qualche modo "australiana" pare anche la scelta di filmare una storia piuttosto cupa con una fotografia spoglia e luminosa, che dona al tutto una solarità malata.


La storia da una parte nutre ambizioni quasi da gotico americano, mettendo in scena personaggi dai nomi biblici, con relazioni e dialoghi di conseguenza, dall'altra accumulando idee e situazioni un po' da western spaghetti squinternato (come ad esempio la soluzione del mistero sulle morti dei messicani).
La regia di Darcy-Smith, pur tentata qui e là da qualche lirismo malickiano (come nel bel duello iniziale, esageratamente commentato con della musica sacra), è solida e con i piedi per terra come si conviene ad un film di genere. Usa la lentezza e un certo sguardo anti-hollywoodiano per creare un clima di incertezza e soprattutto di grande tensione, che esplode in efficaci momenti di violenza. Su tutti, l'inaspettata e originale modalità con cui si svolge la cruenta resa dei conti finale.

Harrelson, ottimo come quasi sempre, costruisce un personaggio che è una specie di ragno umano, allo stesso tempo repulsivo e magnetico. Gran parte della riuscita del film è giocata sulla capacità ammaliatrici del suo personaggio (e quindi dell'attore), la cui capacità di sedurre e condizionare gli altri potrebbe dipendere tanto da un qualche reale potere esoterico, quanto dalla capacità psicologica di scrutare nell'animo altrui. La pelata e l'eloquio richiamano nientemeno che il Marlon Brando di "Apocalypse Now!", mentre il lato più sadico e spiritato del personaggio sarebbe piaciuto a un Klaus Kinski.
Contro di lui il fisicamente imponente, ma fondamentalmente ingenuo, personaggio di Liam Hemsworth (fratello del più celebre Chris), praticamente l'unico bianco che si vede nel film che non sia un sadico o un fanatico imbevuto di razzismo e religiosità apocalittica. Con la barba lunga sembra una specie di Jim Morrison nel West.
A chiudere il triangolo attoriale e narrativo c'è Alice Braga, intensa e bellissima come sempre, alle prese con il personaggio più tormentato, ma alla fine forse anche quello non del tutto risolto.


A margine da notare come il film di Darcy-Smith unisca due tematiche molto sentite nel cinema americano di questi anni: quella dello scottante e mai risolto rapporto tra gli americani e gli scomodi vicini messicani, e quella delle sette religiose o comunque di una religiosità vissuta in maniera chiusa e fanatica. Tematica quest'ultima molto presente nel recente cinema horror di questi anni, ma affiorata qui e là anche in alcuni western recenti come Sweetwater, The Mountie, Meek's Cutoff e l'austriaco The Dark Valley.

giovedì 27 ottobre 2016

Blackway | Go With Me



2015 Blackway o Go With Me 
di Daniel Alfredson con Anthony Hopkins, Julia Stiles, Alexander Ludwig, Ray Liotta, Hal Holbrook

Come si fa a spiegare lo strano entusiasmo che può suscitare un film come Blackway?
Non assomiglia neanche lontanamente a un capolavoro, perché non lo è. Anzi, ha tutte le sembianze di un film americano qualunque, dove una certa ricercatezza di regia cede il passo in alcuni punti a stereotipi visivi e sonori abusati. Ad esempio nelle scene d'azione, per altro pochissime, dove la convenzionalità della confezione stride con il carattere volutamente dimesso e casuale che gli autori volevano dare alle azioni. Non è difficile quindi incappare in internet in stroncature impietose, con alcuni che parlano di un thriller totalmente fallito, altri di un'americanata impersonale, altri ancora di un patetico tentativo di noir alla "Fargo" affogato in un'estetica da dtv.

E allora? E allora il "segreto" per apprezzare il film è evidente fin dal fatto che se ne parla in questo blog: Blackway è un western. Un bel film western. E non solo: è anche uno dei pochi veri western visti al cinema quest'anno. Blackway non è un western solo perché c'è gente coi fucili (meno comunque di quanti ne impugnino i personaggi in uno dei poster) o perché c'è un viaggio di ricerca tra splendidi paesaggi selvaggi. Queste sì sono cose assolutamente generiche che si trovano anche in tanti polizieschi, noir, action che affollano una qualsiasi videoteca.
Quel che rende Blackway un vero western è il tono piano del racconto, una narrazione soffice e calma come una nevicata. È la tranquillità hawksiana con cui i personaggi accettano i loro ruoli, i loro laconici scambi di battute la trasparenza delle loro azioni. È la descrizione affettuosa di un'America sì lugubre, violenta e desolata, ma vista anche come un meraviglioso contenitore di storie umane, senza il cipiglio da fustigatore delle contraddizioni della patria del capitalismo.
Anche l'ironia sotterranea che attraversa tutto il film, il livello forse più incompreso dai detrattori, non è mai un sarcasmo demolitore, è piuttosto l'ironia di chi racconta una storia in modo intelligente, sentendosi complice dei personaggi e degli spettatori, ma lontanissimo da qualsiasi strizzata d'occhio post-moderna.



Un film tanto e così palesemente americano è stato girato da un regista svedese.
Daniel Alfredson, solido regista di pellicole di genere, conosciuto fino ad ora per aver diretto in patria gran parte della serie Millenium, la trasposizione in film dei celebri romanzi Stieg Larsson. Si avverte per tutto il film uno sguardo molto europeo e soprattutto molto nordico, ma non ne risulta il classico distacco dell'Autore del vecchio mondo che dice la sua su qualche aspetto della realtà americana. Alfredson lavora da artigiano sapiente, usando la sua sensibilità tutta svedese per mostraci con occhi nuovi cose viste e straviste. Si noti come riesce a dare un senso e ad usare in modo persino poetico l'onnipresente filtro blu della fotografia, ormai da anni uno logoro luogo comune estetico dei film che vogliono raccontare di un'America fredda e marginale.

Blackway è il nome di un vicescriffo corrotto, maniaco sessuale, ricattatore, spacciatore, magnaccia e assassino, che i tre protagonisti devono cercare e affrontare. Fin dalla decisione di dedicare alla nemesi dei personaggi il titolo del film siamo quindi di fronte ad una specie di Moby Dick da paesello, una piccola ricerca del Male tra motel, segherie, povere case per arrivare alle incombenti montagne, descritte come luoghi arcani e misteriosi. Ognuno dei tre lo cerca per ragioni personali che vengono mostrate in flashback che si incastrano alla narrazione in modo curioso, con uno stile forse debitore dei film da regista di Tommy Lee Jones. La tensione semplice e implacabile su cui si basa il fascino del film è innescata dal mostrare tre antieroi, umanissimi e fallibili, che si avvicinano gradualmente ad un personaggio che diventa sempre più inquietante man mano che, attraverso i flashback o le testimonianze di altri personaggi, si compone il suo sinistro ritratto.



Un film di questo tipo è fatto in grandissima parte dalle facce degli attori.
Julia Stiles sembra invecchiata tutta di un colpo, ma anche per questo funziona perfettamente, nelle parti di una cameriera dall'aria dimessa e un po' sconfitta, ma ancora abbastanza avvenente da mettere in moto certi avvenimenti. Hopkins azzecca un ruolo e un film dopo non so quanti anni (forse da recuperare "Il caso Freddy Heineken", coevo a questo e sempre diretto da Alfredson). Alexander Ludwig se la cava bene nel potenzialmente scivoloso ruolo del marcantonio balbuziente, poco sveglio ma dal cuore d'oro. Si fa notare anche il grande caratterista Hal Holbrook, novantenne, nella parte del vecchio proprietario della segheria. Infine un luciferino Ray Liotta, come Blackway, divora le poche scene in cui appare.

Uno di quei piccoli grandi film che si fanno voler bene più di tanti capolavori.


Un grazie ai "colleghi" dei 400 Calci per aver segnalato un film che ha dato lo spunto a chi scrive di tornare a scrivere sul blog. 

giovedì 7 luglio 2016

Anthony Mann 6 - Terra lontana

1955 TERRA LONTANA (The Far Country) di Anthony Mann. Con James Stewart, Ruth Roman, Corinne Calvet, Walter Brennan, John McIntire.


 «Quasi mezzo secolo dopo aver diretto il suo primo B-movie a Hollywood - "Dr. Broadway", del 1942 - e ventitré anni dopo la sua morte prematura sul set europeo di Sull'orlo della paura, Anthony Mann (1906-1967) rimane il piú trascurato tra i principali registi americani del sonoro.» (Richard T. Jameson)

Il vantaggio di essere trascurati

Nell'àmbito della filologia e della critica del testo antico si suole attribuire particolare importanza ai manoscritti conservati in centri periferici, isolati. Questo poiché, proprio in quanto dimenticate o trascurate, quelle versioni dei testi risultano spesso scevre da modifiche, interpolazioni, correzioni arbitrarie. Sono insomma caratterizzate da una purezza superiore, da una pulizia primordiale che le differisce profondamente dai corrispettivi "cittadini", molto consultati e conseguentemente molto soggetti ad interventi postumi.

Forse, tramite un parallelismo sin troppo audace, si potrebbe applicare questa stessa considerazione al cinema di Anthony Mann. Un cinema vittima di una strana contraddizione: da un lato ormai unanimemente considerato "classico", dall'altro a tutt'oggi - se si escludono poche ma considerevolissime eccezioni - poco approfondito, quasi negletto dalla nuova generazione di critici. Un destino che non rende il giusto tributo ad un autore immenso e straordinariamente influente, ma che al contempo permette a quello stesso autore di stazionare in una dimensione primigenia ed inviolata. La stessa di quei vecchi e scordati codici. Perché vedere un film di Mann significa recuperare l'innocenza del cinema puro. Significa fare i conti, prendendo in prestito le parole del grande André Bazin, con una «franchezza commovente».


Borden Chase, il moralista ambiguo

 «Sono veramente un illetterato.» (Anthony Mann)

Terra lontana è il sesto western di Anthony Mann. Il quarto con protagonista James Stewart. Il terzo ed ultimo scritto da Borden Chase. Chase è il piú grande sceneggiatore del western americano e, assieme all'altrettanto talentuoso Philip Yordan, il preferito di Mann. I suoi script, sintesi di accurato realismo ed eterogenee influenze culturali, forniscono ai western di Mann la dimensione mitica e quella allegorica. Il continuo ricorso alla simbologia cristiana, gli insistiti rimandi alla tragedia greca e, conseguentemente, alla sua reinterpretazione in chiave psicanalitica trasformano le sue storie di Frontiera in specie di moniti ancestrali, di drammi esemplari e senza tempo. Contemporaneamente, grazie al suo amore per l'ignoto e per l'avventura pura - spesso nei suoi copioni sono centrali le tematiche del viaggio pericoloso e della "conquista" di territori selvaggi ed inesplorati - consente a Mann di esprimere pienamente il suo talento per l'azione e il suo squisito gusto paesaggistico.

Chase è anche e soprattutto un grande scrittore moralista. Sovente nelle sue trame la cupidigia è il motore che innesca i conflitti fra i personaggi: l'oro trasforma uomini onesti in individui violenti e senza scrupoli, tramuta città pacifiche in covi di immoralità e perdizione ("Là dove scende il fiume", "Terra lontana"); il relativismo è ripetutamente condannato in nome di una ribadita "necessità dell'ideale" (lo stesso "Terra lontana", ma anche "Vera Cruz" di Aldrich). Eppure, a margine di cotanto afflato etico - peraltro pienamente condiviso dallo stesso Mann -, emerge costantantemente un'ambiguità di fondo, un pessimismo sotterraneo. Gli eroi che portano alla conquista della stabilità comunitaria e al ripristinarsi della dirittura morale sono quasi sempre uomini che a quella stabilità sono completamente estranei, e da quella dirittura morale li distingue un passato tremendo e un presente «affilato sino all'estrema punta di sé stesso» (P. Demonsablon).

Lo stesso modo in cui Chase reinterpreta gli exempla biblico-tragici è significativo di questo atteggiamento: in "Winchester '73" (1950), primo grande risultato della coppia Mann-Stewart, il conflitto tra fratelli - ovviamente memore del mito veterotestamentario di Caino e Abele - viene risolto con un capovolgimento che vede il "buono" prendere dolorosa coscienza della necessità di eliminare il "cattivo". In "Terra lontana", d'altra parte, l'accettazione da parte del protagonista del precetto evangelico "ama il tuo prossimo come te stesso" avviene non per una precisa volontà personale, piuttosto per un succedersi di eventi che, ponendolo di fronte al pericolo di una solitudine spaventosa, lo costringono a fare quella scelta. Valutare l'apporto di questo strano, ambiguo moralista è indispensabile per capire il cinema di Mann.


La campan(ell)a ha suonato

"Terra lontana" è il risultato piú alto del sodalizio Mann-Chase, nonché la summa delle tematiche cardine del loro cinema. Fondamentalmente, è la storia della nascita di una comunità e di una presa di coscienza sociale.

Ambientato simbolicamente - come bene nota Matteo Pollone nell'ottimo Il western di Anthony Mann - The Man in the Wild, the Wild in the Man, la prima monografia in tema pubblicata in Italia - presso due confini, uno territoriale - l'Alaska e il Canada, propaggini ultime della Frontiera - e uno temporale - il film è ambientato nel 1896, dunque in un'epoca considerata tradizionalmente estranea alla narrazione western classica -, mette al centro un eroe cinico ed individualista fino all'autodistruzione che a quel mito di fondazione partecipa quasi involontariamente, diremmo fatalmente.

Jeff Webster, dei protagonisti del cinema di Mann e Chase, è il piú enigmatico e tragico. Il suo egoismo ottuso non deriva da esperienze precedenti, da torti subìti in passato: pare innato. Proprio per questo la decisione finale di dare il proprio contributo al bene comune sembra ben piú una resa che una conquista: Jeff, uomo in via d'estinzione, deve adattarsi al nuovo mondo se vuole sopravvivere. E, paradossalmente, quell'adattamento passa attraverso la perdita della sua perfetta controparte femminile - la coraggiosa, intraprendente Ronda Castle di Ruth Roman - e l'eliminazione fisica dell'uomo che piú sentiva vicino al suo modo d'essere, l'atipico antagonista di John McIntire. Se Gannon è un morto, Webster è insomma poco piú che un sopravvissuto.  Il germe del western crepuscolare comincia qui a corrodere dall'interno il tessuto della classicità.

Tormentato, come spessissimo accade in Mann, dalla condizione perenne del viaggio, dall'incapacità di concepire una dimensione stanziale, l'eroe di Stewart trascina con sé il simbolo della propria dissolvenza: quella campanella apposta sulla sella che, gli ricorda piú volte il pard Ben Tatum - vera e propria coscienza costruttiva del protagonista -, un giorno dovrà apporre all'uscio della propria casa, segno di una temuta e al contempo agognata pace.


L'incombere delle cose sugli uomini

«Anthony Mann mi piace: le sue inquadrature sono firmate.» (Vincente Minnelli)

Nel caso di Anthony Mann contenuto e forma sono piú che mai inscindibili. Il bisogno violento di movimento dei protagonisti di "Terra lontana" trova il suo corrispettivo nell'ampiezza delle panoramiche, nella fluidità delle carrellate, nella concezione attiva della cinepresa, che sembra anch'essa nervosamente vivere, «vivere di vita propria» (M. Pollone), in aperto contrasto con la grammatica classica che prevede la subordinazione dei movimenti di macchina a quelli dei personaggi. Allo stesso modo la claustrofobia, la difficoltà degli eroi manniani a stare fra quattro mura è straordinariamente resa attraverso riprese in interni «leggermente inclinate, che accentuano l'incombere delle cose sugli uomini» (P. Mereghetti).

Il largo uso di primi piani, contrariamente a quanto si potrebbe pensare per nulla comuni nel cinema di genere dell'epoca, accentua invece la dimensione psicologica della vicenda: il volto di James Stewart, rigato da un'angoscia «assai mal nascosta dalle lunghe braccia penzoloni e dalla testa un po' reclinata» (Lourcelles), i suoi moti di odio e di gentilezza, sono ripresi con piglio naturalistico. La simbiosi dei personaggi con la natura è infine ribadita da immagini altamente simboliche: al momento del primo scontro armato fra Jeff e Gannon presso il confine, vediamo per un attimo la figura intera di Stewart a cavallo posta in controluce su un ammasso di vegetazione del quale il nostro sembra quasi un prolungamento. Prima dello scontro finale, allo stesso modo, un piano americano dal basso di Jeff stagliato contro il cielo rischiarato dalla luna piena segna il momento della presa di coscienza, la comprensione - pure, come abbiamo detto, mai del tutto limpida - del proprio ruolo nel mondo.


Il dramma del visibile e dell'invisibile


«Il western [...] è un dramma del visibile e dell'invisibile, tanto quanto un'epopea d'azione: l'eroe agisce solo perché vede per primo, e trionfa solo perché impone all'azione l'intervallo o quel secondo di ritardo che gli permettono di vedere tutto.» (Gilles Deleuze)

Applicando l'osservazione di Deleuze a "Terra lontana", si potrebbe dire che se Jeff Webster effettivamente  «vede per primo», di certo fatica ad imparare da ciò che vede. Il fatto di prevedere la valanga durante il tragitto per Dawson non lo spinge ad aiutare coloro che, al puntale verificarsi di quanto predetto, da quella stessa valanga vengono travolti. Soltanto l'intervento dell'amico Ben lo convince a ritornare sui suoi passi. Alla stessa maniera, pur abile con la pistola, non riesce ad evitare di essere ripetutamente ferito; il duello finale, lungi dall'essere pulito e alla luce del sole, si svolge di notte e trova il suo epilogo nella posizione più inusuale per i protagonisti di un western classico: Gannon viene colpito a morte mentre striscia a terra, sotto gli assi che fungono da passerella di fronte all'entrata del saloon. L'intervallo che Webster impone all'azione, ancora parafrasando le parole di Deleuze, è sempre ritardato poiché l'indecisione, la lacerazione interna al suo animo - quell'essere, in tutti i sensi, un "uomo sul confine" - non gli consentono mai una lucidità piena, immacolata.

Il western di Mann è questo dramma della scelta, questo stare in bilico, questo riuscire ad essere eroi nonostante sé stessi, nonostante tutto, nonostante troppo.

«Tra ordine e disordine, tra voglia di pacificazione e aspirazione alla marginalità, tra individualismo e valori della comunità, si dipana di film in film l'itinerario schizofrenico di un personaggio che incarna in modo meraviglioso il senso di precarietà e di sacrificio veicolati dall'inevitabile movimento verso l'Ovest, la colonizzazione dei territori vergini, la fine della Frontiera.» (Alberto Morsiani)  


  Paolo A. d'Andrea
(recensione precedentemente pubblicata su Ondacinema)

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Puntate precedenti:

Le Furie (1950)

Prossimo appuntamento: L'uomo di Laramie (1955).