mercoledì 29 febbraio 2012

i film 14 - Dove si spara di piú

1967 DOVE SI SPARA DI PIÚ di Gianni Puccini. Con Peter Lee Lawrence, Cristina Galbó, Andrés Mejuto, Piero Lulli, Pietro Martellanza.



L'unico, folle western di Gianni Puccini, come Lizzani, Vancini e Questi regista con velleità autoriali trovatosi per i casi della vita a dirigere uno spaghetti. Il film è nient'altro che una rivisitazione di Romeo e Giulietta in chiave western ma, paradossalmente, i momenti migliori sono proprio quelli in cui il copione si discosta dal capolavoro shakespeariano; l'intera prima parte, divertentissima, va di diritto tra le cose piú bizzarre che abbia visto all'interno del genere, con un vero e proprio campionario di frasi fatte, personaggi ultra-caricaturali, sequenze deliranti. Il debito nei confronti del fumetto è qui forse ancor piú evidente che nel successivo Yankee di Tinto Brass - e nel 1967 uscì anche Se sei vivo spara, altro film che con le nuvole parlanti ha piú di qualche conto in sospeso.
Riuscito in particolare il personaggio di Left Gun, interpretato dall'ottimo Andrés Mejuto, una specie di incrocio tra Eli Wallach e Jason Robards, attore spagnolo che aveva già lavorato con Puccini in Io uccido, tu uccidi (1965) e che nella sua carriera interpreterà soltanto un altro western, l'interessante Quei disperati che puzzano di sudore e di morte (1969) di Julio Buchs.
La seconda parte purtroppo si prende troppo sul serio e la vicenda diviene stucchevole, scontata; rimane memorabile, in ogni caso, il massacro finale, con la Morte in persona (con tanto di Colt e spolverino nero!) che scende a sancire la «pace nera» tra le due famiglie. Notevolissimi i titoli di testa animati.
Da ricordare anche perché è uno degli otto spaghetti scritti da Maria del Carmen Martínez Román, una delle pochissime donne sceneggiatrici del nostro western.  

Paolo D'Andrea

martedì 28 febbraio 2012

i film 13 - Limonata Joe (Limonadovy Joe)

1964 LIMONATA JOE (Limonadovy Joe Aneb Konska Opera)
di Oldrich Lipský con Karel Fiala, Olga Schoberová, Kveta Fialová, Rudolf Deyl, Milos Kopecký



L'astemio, canterino e un po' scemo Limonata Joe capita nel paesino di Stetson City, dove sono tutti perennemente ubriachi e impegnati in un'interminabile rissa. Grazie al piombo delle sue pistole e ad una bevanda analcolica (la Cola Loca) per un po' ripristinerà la morale, ma dovrà vedersela con un perfido cattivo dai mille trucchi.

Geniale western comico cecoslovacco, ancora molto famoso da quelle parti. Contemporaneo e per molti versi simile a West And Soda, c'è persino un'idea identica: il protagonista vestito di bianco per tutto il film che per il duello finale si veste di nero. La comicità e i personaggi sono da cinema muto, e infatti il film è facilmente seguibile anche in lingua originale (visto che ritrovare la copia italiana è dura). Il susseguirsi di gag è vertiginoso, con trovate degne di Chaplin e Buster Keaton, ma anche vicino allo spirito dei Monty Python. Il tutto è girato in uno stile talmente libero e fuori dagli schemi da sembrare oggi sperimentale. Ogni sequenza ha la sua idea e il suo stile, il montaggio è a tratti caleidoscopico, le inquadrature sono spesso folli e i cambi di tono imprevedibili, tra western, comico, musical, animazione e trovate surreali. Un' ulteriore geniale follia è la scelta di girare il film in bianco e nero, ma virando ogni scena in tonalità violentissime (giallo, rosso, viola, blu, verde), ottendo l'effetto paradossale di farlo sembrare un film coloratissimo.



Sarà stato anche un film per ragazzi, ma l'ironia è spesso perfida e graffiante. Si scherza sul moralismo puritano, su alcolismo e proibizionismo. In una scena il protagonista fredda con assoluta indifferenza quattro banditi che stanno scappando sparandogli alle spalle. In un'altra il cattivo conquista l'ammirazione della brava gente della comunità per la destrezza dimostrata uccidendo a sangue freddo lo sceriffo. Il finale mortifero si risolve con una straniante trovata pubblicitaria, che stravolge ogni aspettativa di un tipico finale western, sia pure in versione comica.

Notevolissimi anche i vaghi ammiccamenti erotici. Anche perché, giusto per smentire un luogo comune sull'Europa dell'est, le due donne del film che si contendono il cuore del protagonista sono di una bellezza spaventosa: la biondina che fa la puritana (Olga Schoberová) e la mora che fa la "ballerina" del saloon (Kveta Fialová).



Tommaso Sega

lunedì 27 febbraio 2012

nuovi western - 2003

Western del 2003

Annata parecchio interessante, che dopo secoli rivede in scena finalmente una banda di ferocissimi indiani, due pellicole dedicate alla dura ma romantica vita dei cowboys, un solido western di serie B con due vecchie glorie e una curiosa rievocazione della rivoluzione messicana.


THE MISSING di Ron Howard
con Tommy Lee Jones, Cate Blanchett, Evan Rachel Wood, Jenna Boyd, Aaron Eckhart, Val Kilmer

Miracolo nel vecchio West. Un film che snocciola alcuni dei più insopportabili e ossessivi tic narrativi del cinema hollywoodiano degli ultimi decenni, diretto da un regista noto per la sua alta professionalità messa quasi sempre al servizio della più avvilente banalità, che però incredibilmente funziona. Non mancherebbe nulla per detestarlo. C'è lo scontro generazionale tra genitori e figli adolescenti, che secondo gli sceneggiatori hollywoodiani sarebbe una dinamica famigliare irriducibile anche di fronte alle peggiori sciagure, e risolvibile solo ritrovando la reciproca fiducia dopo sovrumane prove fisiche. C'è anche, come in tre quarti buoni dei film con ambizioni psicologiche degli ultimi vent'anni, il logoro metaforone sulla società senza padri, servito dal conflitto tra i due protagonisti. C'è il solito realismo fasullo della ricostruzione storica, ci sono le sequenze ridondanti, le forzature spettacolari, le strizzate d'occhio ad uno spiritualismo d'accatto. Eppure funziona.

Funziona perché Ron Howard e Thomas Eidson - autore del romanzo da cui il film è tratto, “The Last Ride” del 1995 - danno vita ad un West dal fascino funereo, dove anche i più abusati espedienti narrativi finiscono per essere proposti in una luce diversa dal solito, più sinistra, meno accomodante. Raramente si è visto infatti un West tanto claustrofobico e inospitale, con i personaggi positivi che si aggirano smarriti in uno scenario irreale e apocalittico, dove sembra non esistere rifugio e dove la morte si può manifestare ad ogni passo. Si arriva anche a sfiorare il confine del cinema horror con l'inserimento di destabilizzanti tematiche magiche estranee al genere. Dal punto di vista iconografico ad una delle più crudeli bande di indiani viste in un western (soprattutto nel cinema politicamente corretto degli ultimi anni) fa da contraltare un non meno inquietante squadrone di giacche blu, assolutamente marcio e cencioso. È insomma un West visto attraverso uno specchio deformato, capovolto fin dalla fotografia, che propone un West dalle cupe e livide tinte grigio-blu in contrasto con i toni caldi tipici del genere.

L'aggressività di alcune sequenze è davvero notevole, soprattutto considerando la natura comunque hollywoodiana e commerciale del film. I pugni allo stomaco dello spettatore non sono pochi: dal ritrovamento di quello che inizialmente sembrava potesse essere il protagonista maschile del film orribilmente torturato, all'agonia di una ragazza e il suo neonato, passando per un considerevole numero di ammazzamenti di vario tipo. Tutto ciò sarebbe però solo superficiale sensazionalismo, se il film non agisse anche ad un livello più sofisticato, con continui slittamenti di senso delle situazioni che confondono le idee e le aspettative dello spettatore. Magistrale in questo senso la sequenza in cui la ragazzina rapita provoca senza volerlo l'uccisione di uno dei suoi salvatori, fraintendendone le intenzioni: dalla lineare suspense riguardante il salvataggio si passa all'inquietante situazione in cui gli innocenti diventano involontari complici dei loro carnefici. In rete per altro si trovano stroncature del film dove scene come queste vengono definite sbagliate e irritanti.

Tra i tanti successi che costellano la sua carriera è uno dei pochi film di Ron Howard ad essere passato quasi sotto silenzio, ignorato dal pubblico e poco considerato anche dalla critica. Probabilmente non è il tipo di western che ci si poteva aspettare da un regista come lui. Un motivo in più per considerarlo un'opera riuscita.

Dicono di lui...

“Buon western diretto da Ron Howard, che dai tempi del Richie Cunningham di Happy Days è imprevedibilmente diventato un regista di un certo successo (addirittura premiato con l’Oscar), anche se di non eccelse capacità. Il suo approccio al genere è piuttosto ondivago: il film comincia, infatti, come una roba ultrarealistica, ma del tutto priva di estetica western, stile Ritorno a Cold Mountain, prosegue come un classicissimo western avventuroso, con l’inseguimento alla Sentieri selvaggi delle fanciulle rapite (e tanto per non farsi mancare niente anche con l’inserimento, abbastanza fuori luogo, della magia indiana), e si conclude con l’immancabile finalone hollywoodiano roboante e tirato per le lunghissime (i bei finali asciutti come si usava nei western di una volta purtroppo ormai sono irrimediabilmente fuori moda). Comunque molto buona la parte centrale – quella più prettamente western – tutta a base di inseguimenti, cavalcate, sparatorie, deserti assolati e serpenti a sonagli. Il brujo indiano, però, che più che un apache sembra un aborigeno australiano dei film di Peter Weir, è uno dei più ridicoli cattivoni mai visti in un western e ovviamente, in ossequio alla nuova regola lombrosiana sui villains hollywoodiani, oltre che cattivissimo è anche bruttissimo (magari avevano paura che altrimenti il pubblico non capisse che era lui il cattivo…).
Tanto insopportabile è Cate Blanchett, per me l’attrice più sovrastimata e detestabile sulla scena mondiale (semplicemente da denuncia la sua interpretazione dylaniana di I’m not there), quanto immenso Tommy Lee Jones, grande attore western fuori tempo massimo. La fanciulla rapita è l'ancora giovanissima, ma già carinissima, Evan Rachel Wood di The Wrestler.”
(Mauro Mihich)

“C'è un ruolo che Cate Blanchett non può interpretare in maniera convincente? Qui è la colonna che regge l'impalcatura di tutto questo interminabile thriller storico di Ron Howard […] Se solo Howard e lo sceneggiatore Ken Kaufman avessero tirato fuori una storia degna degli sforzi di Cate. Kaufman ha scritto su di un caso di rapimento che si sviluppa lungo un percorso sorprendentemente lineare. Ogni volta che tentata di delineare una sottotrama - esplorando l'inefficacia dell'autorità nel selvaggio West, o mettendo in scena una delle tante drammatiche sequenze di fuga - lo fa senza fiducia. “The Missing” a volte ci illude di star per imboccare una rilevante deviazione dalla trama, ma poi torna rapidamente sui suoi passi e torniamo a seguire lo svolgimento della storia centrale, una narrazione troppo esile per tener desto il nostro interesse per tutti 147 minuti di durata del film. [...] “The Missing” è una sfida cinematografica che non mette in discussione lo spettatore. Il risultato è il meno interessante dei film di Howard di questi anni. Il film elimina le zone d'ombra che nascondono il dramma umano, dividendo nettamente gli eroi dai cattivi. [...] Sarà ricordato tutt'al più come uno sguardo sul lato più oscuro di Howard.”
(Sean O'Connell, “Filmcritic.com” 24/11/2003)


TERRA DI CONFINE (OPEN RANGE) di Kevin Costner
con Robert Duvall, Kevin Costner, Annette Bening, Michael Gambon, Michael Jeter

Secondo western anche come regista di Kevin Costner, a tredici anni dal trionfo di “Balla coi Lupi” (a tutt'oggi in America il film western di maggior successo di ogni tempo) e a dieci anni dall'assoluto fallimento di “Wyatt Earp” che gli ha parzialmente stroncato la carriera.

Come in “Balla coi Lupi” Costner mescola con abilità e furbizia classicismo e rivisitazione. “Terra di confine” si presenta apparentemente come una pellicola iperclassica nello sviluppo della trama, nel disegno dei personaggi, nei dialoghi puliti e virili. L'unica ma assolutamente sostanziale differenza con un western degli anni 40 o 50 è che dura un'ora di più. E Costner utilizza questo abbondante minutaggio in più per inserire nelle scene classiche tutta una serie di dettagli, particolari e rifiniture che approfondiscono, amplificano e trasformano il senso delle sequenze, i significati dei gesti, ridefinendo i caratteri dei personaggi. Tra gli esempi più lampanti, l'ironico dialogo tra i due protagonisti durante la lunga attesa della sparatoria finale con annotazioni sociali che arricchiscono in modo imprevisto la situazione, la classica confessione di un passato di sangue da parte di un personaggio a cui fa da contrappunto un bellissimo cielo stellato, il banale attraversamento di una strada cittadina resa un fiume di fango dalla pioggia che diventa un’impresa goffamente epica. Il tempo atmosferico è quasi un altro protagonista all'interno del film. Anche se a rischio di effetto pastello, parecchio originale anche la visione di un West fiorito e primaverile, apparentemente "gentile".

Come già aveva dimostrato in "Balla coi lupi", ma in parte anche nel disastroso apocalittico "L'uomo del giorno dopo", Costner è un regista tutt'altro che banale. Il suo pregio maggiore è la capacità di smontare e poi rimontare i luoghi comuni, riproponendoli come se fossero cose nuove. In questo senso notevolissimo il caotico massacro finale, dove riesce a restare in equilibrio tra eccitazione spettacolare e realismo destabilizzante, con ad esempio il classico risveglio morale degli onesti cittadini che è messo in scena senza nasconderne la natura meschina e tardiva. Altro gran pezzo di regia è quello in cui il suo personaggio ha un'allucinazione in casa del dottore, pochi secondi in cui Costner riesce a confondere le idee agli spettatori quanto quelle del suo personaggio. Senz’altro meno originale il lavoro sugli attori, comunque generalmente buoni, con i veterani Robert Duvall e Michael Gambon, il caratterista irlandese che fa il cattivo, che prevedibilmente surclassano tutti di parecchie spanne.

Non tutto funziona a dovere. Ad esempio il rallenty con cui si conclude la resa dei conti è fastidioso e incongruo con lo stile del resto del film. Ma soprattutto fastidiosi tutti gli sdilinquimenti finali tra Costner e Annette Bening, che, a parte far emergere una banalità sentimentale fino ad allora tenuta a freno, stonerebbero per eccessi zuccherosi in una commedia, figuriamoci in un western. Disguido sintomatico di quel sempre malcelato narcisismo con cui il Costner attore ha forse frenato la carriera e il talento del Costner regista.

Dicono di lui...

“A parte la scena della sparatoria, il film mi è sembrato uno spreco di celluloide. Robert Duvall, Kevin Costner, Annette Bening avrebbero potuto recitare quei ruoli dormendo. I dialoghi sono quasi intollerabili (e ce ne sono un sacco - nessuno sta seduto e zitto in questo film), la trama è tutta un ventaglio di opzioni come se non avessero saputo decidere quali temi stipare nella storia, non c'è alcuna sottigliezza. [...] L'importanza dei singoli eventi è diluita da tutte le "profonde e significative" conversazioni che dominano la maggior parte del film. Questi tipi hanno lavorato insieme per dieci anni e stanno parlando proprio adesso di quella roba? L'unica volta che non c'è molto dialogo è durante la sparatoria - che è il probabile motivo per cui mi è piaciuta."
(Ceyanna, "IMDb" 24/9/2005)

“A volte, lento è meglio. “Open range” è uno dei migliori film del 2003 e la prova innegabile che Kevin Costner è ancora un talento come lo era più di dieci anni fa, ai tempi di “Balla coi lupi”. [...] Ha ritrovato la giusta strada con “Open Range” tirando fuori un solido, vecchio stile da western. L'intero film procede come una mandria procede lenta e costante. […] In poche parole: in un momento in cui il cinema è governato da film muscolosi, veloci e prodotti col computer c'è ancora un posto per la classe di un film al servizio di una storia. Spero sarà sempre così. ”
(Coventry, “IMDb” 1/4/2004)


MONTE WALSH di Simon Wincer
con Tom Selleck, Isabella Rossellini, Keith Carradine

Più che un remake di "Monty Walsh un uomo duro a morire", con Lee Marvin del 1970, è un nuovo adattamento dell'omonimo romanzo di Jack Schaefer, coerente con la vena “letteraria” degli altri western interpretati da Tom Selleck. È un bel film televisivo sulla dura vita del cowboy Monte Walsh, ennesimo esempio come un certo cinema di genere dal respiro ampio e meditativo ormai trovi più facilmente asilo sul piccolo schermo che non al cinema. La confezione d'altra parte non ha nulla di televisivo nel senso negativo del termine, ma anzi sembra un film pensato per il grande formato, con campi lunghi e vasti paesaggi.

Un film in cui sono evidenti l'amore e la competenza che la coppia Selleck e Wincer nutrono e mettono nel western. È anche il più curato e ambizioso dei loro film dedicati al genere. Se gli altri film con protagonista Selleck si rifacevano al western classico, questo si rifà decisamente al western crepuscolare. E questo è forse l'unico vero problema del film. Perché mentre la formula del western classico nella sua atemporalità risulta sempre felicemente riproponibile, il western crepuscolare è invece un filone legato ad una precisa stagione del cinema americano. In sostanza quella dozzina di pellicole realizzate tra gli anni 60 e 70 che avevano svelato lo squallore e l'abbrutimento della vita dei cowboys avevano probabilmente già abbondantemente sviscerato ed esaurito l'argomento. Infatti se nel 1970 del film con Lee Marvin la demistificazione del mito del cowboy aveva ancora un senso ed era ancora una novità, nel 2003 riproporre quasi lo stesso punto di vista rischia di apparire una scelta ovvia e tardiva.

Detto questo il film è comunque notevole e regge bene il confronto con il film del '70. La casualità degli avvenimenti che portano al drammatico finale è ben resa, come anche la durezza della vita dei cowboys e la precarietà di ogni loro scelta di vita. L'amaro esito della storia sentimentale tra il protagonista e una dolce prostituta (Isabella Rossellini) è gestito senza nessuna concessione al sentimentalismo. La prosciugata regia di Wincer è ammirabile nella sua secchezza e laconicità, anche nelle poche ma efficacissime scene d'azione. Nonostante la profonda malinconia dell'insieme in controluce si intravede l'elegia nostalgia di un mondo comunque più semplice e virile, dove il protagonista accetta le crudeli casualità della vita con rassegnata dignità.

Dicono di lui...

"Deludente remake di un classico. La delusione maggiore deriva dall'aver visto l'originale "Monty Walsh" del 1970 con Lee Marvin, e dal conseguente confronto. Il film originale era davvero triste, ti dava la sensazione di un modo di vivere che stava scomparendo e che le cose non sarebbe davvero più state le stessa. Lee Marvin faceva percepire la delusione e l'angoscia del doversi lasciare la sua vita e i suoi amici alle spalle. Alla fine si percepiva anche un senso di sollievo e ottimismo, con la scena finale in cui sembrava dimenticare quel che ormai era alle spalle e guardava al futuro. Al contrario, l'attuale versione di "Monte Walsh" pur seguendo la stessa trama di base, citando e parafrasando il film originale, non sembra riuscire a trasmettere le emozioni delle situazioni, ma è più che altro l'esposizione di una storia di tempi grami. Le relazioni tra Monte e i suoi amici e la sua donna erano più sentite e genuine nell'originale che non nell'interpretazione di Tom Selleck. Il finale sembra voler essere più una fuga dal passato che uno sguardo sul futuro, senza riuscire a trasmettere la sensazione che la vita va comunque avanti.”
(Barrie Hiern, “IMDb” 18/1/2003)

“Meglio conosciuto per il romanzo "Il cavaliere della valle solitaria (Shane)", Jack Schaefer ha anche scritto il romanzo "Monte Walsh", una rappresentazione della vita del mandriano itinerante. Non c'è molta trama, ma una fetta estremamente dettagliata e meravigliosamente descritta di vita, dura, tenera e comica. Il primo film di Monte Walsh era un grande piccolo ritratto, con un ruolo insolito per un buon Jack Palance come Chet, l'amico di Monte. Ma questo remake TV potrebbe persino essere un film migliore. Tom Selleck è semplicemente grandioso come Monte - giusto solo un po' vecchio per fare il cowboy da rodeo, ma ancora parecchio in gamba. Keith Carradine si esalta come Chet, il cowboy che dà via tutto per sposare la vedova del ferramenta. [...] il film mi ha lasciato la sensazione che mi piacerebbe davvero trascorrere alcuni mesi con un gruppo di mandriani. La trama è realistica, per nulla artificiosa e sempre in movimento. "Monte Walsh" si guadagna davvero i suoi speroni, mostrando al pubblico del ventunesimo secolo come poteva essere la vita meravigliosa ed orribile del diciannovesimo secolo.”
(JimB-4, "IMDb" 3/2/2003)



Hard Ground - La vendetta di McKay (Hard Ground)
di Frank Q. Dobbs, con Burt Reynolds, Bruce Dern, Martin Kove, Amy Jo Johnson, Seth Peterson

Un feroce bandito compie una serie di rapine per finanziarsi un piccolo esercito e mettere così a ferro e fuoco il confine tra Stati Uniti e Messico. Visto che sulle tracce della spietata banda c'è solo un giovane vicesceriffo inesperto, l' anziano sceriffo, suo zio (Bruce Dern), chiede aiuto ad un vecchio pistolero (Burt Reynolds) che sta scontando vent’anni di carcere, e che è il padre del ragazzo. Alla caccia si unirà una ragazza, unica sopravvissuta ad una strage della banda e venduta come prostituta.

Tipico western televisivo, dai molti stereotipi e dal ritmo indugiante, ma con uno suo fascino demodé. Questo tipo di tv-movie sembrano fatti per mettere comodi gli spettatori. Quindi, nonostante un’insolita dose di violenza per un prodotto di questo tipo, è un film che bada bene di restare in superficie delle cose che racconta. Il viaggio dei protagonisti verso la resa dei conti con la banda non ha nulla di catartico e non ci sono particolari complicazioni psicologiche. Quel che conta sono i dialoghi attorno al fuoco, le cavalcate contro cieli ben fotografati, i rimbrotti e gli attestati di stima reciproci. Tutto è costruito per mettere in mostra l’esperienza di vita e la concretezza dei due protagonisti anziani, cui fa contrappunto l'inesperienza dei due personaggi giovani. I due vegliardi sono ovviamente l’incarnazione di un'America violenta, ma dagli incrollabili principi di lealtà e di rispetto dei ruoli sociali. È lo sceriffo ad aver arrestato il pistolero, nonostante fosse il marito della sorella, ma il pistolero non serba alcun rancore verso il cognato. Al contrario gli avversari sono un concentrato di pura malvagità (uccidono anche una bambina), sempre pronti al tradimento reciproco. Il capobanda in particolare sembra agire più per piacere di scatenare il caos e compiere azioni crudeli che per un reale tornaconto. Per tutto il film gira persino con il cappello di un soldato che ha ucciso, con tanto di foro di proiettile insanguinato in corrispondenza della fronte.

Film tanto lineari e schematici funzionano se funzionano gli attori. E in questo caso Burt Reynolds e Bruce Dern fanno la differenza rispetto a molti prodotti analoghi votati alla fiacchezza senile. Va da sé che non stiamo parlando di un film che sprizza freschezza giovanile, ma almeno non c'è il triste effetto di vedere vecchi attori hollywoodiani spompati costretti a fingere di essere ancora in gamba per ragione di copione, magari traditi da facce gonfie e doppi menti. Nonostante qualche traccia di lifting, una brutta parrucca e un pizzico di narcisismo, il sessantasettenne Reynolds è in buona forma e ha ancora un grande carisma, peccato che dopo i grandi successi degli anni 70 sia stato così poco e male utilizzato. Anche se sembra più vecchio di vent’anni Bruce Dern è suo coetaneo, ma è il classico immenso caratterista americano che saprebbe interpretare con classe anche un palo del telefono. Sono loro che danno fascino, carisma e burbera simpatia a personaggi che con altre facce sarebbero stati solo due vecchi tromboni. Efficaci anche i lombrosiani cattivi. Al solito invece inefficace il reparto giovanile, con le solite due belle facce in libera uscita da qualche telefilm adolescenziale, ma purtroppo questo è ormai un problema cronico per il western alle prese con le nuove generazioni di attori.

Una confezione povera ma di classe e una buona colonna sonora nobilitano una regia anonima, per quanto non priva di mestiere. È per altro l'unica regia western di Frank Q. Dobbs (morto nel 2006), che nella sua carriera ha però lavorato tantissimo nel western televisivo, come produttore, sceneggiatore (suo il pilot del telefilm anni 90 tratto da “I magnifici sette”), operatore, attrezzista, aiuto regista.

Dicono di lui…

“Il film sembra essere un'altra, ennesima, produzione di Robert Halmi Jr, sulla falsariga del suo lavoro per la leggendaria serie "Lonesome Dove", e, di fatto, questo film ha molti punti di contatto con quel celebre telefilm. [...] Anche se non direttamente collegato alle finalità della storia, il film mostra come gli individui di  quel periodo della storia americana, uomini simili a McKay e allo sceriffo Hutchinson, scoprirono solo da anziani che i loro sentimenti per l'ovest americano erano diventatati ironicamente simili a quelli dei nativi americani che contribuirono a scacciare. Quando il paesaggio libero e selvaggio cominciò a scomparire dalla Storia, iniziarono a provare rabbia e frustrazione. Gli spettatori che hanno eventualmente deciso di non seguire gli ultimi minuti di questo film (dopo che lo scontro a fuoco è finito) hanno, purtroppo per loro, perso le parole conclusive di McKay su questo argomento. Parole in cui potrebbero riconoscersi molti americani anziani che si sentono allo stesso modo, cento anni di vita più tardi, all'inizio di un altro secolo...”
(Glades, “IMDb” 16/11/ 2007)

“Se si ha familiarità con i film che produce e distribuisce la Hallmark Entertainment, già si intuisce che questo film non può che essere un bersaglio mancato. Ad essere onesti, non tutto il film è brutto. È sempre un piacere vedere Burt Reynolds o Bruce Dern, e in questo film ci sono entrambi. Danno al film un certo fascino e funzionano bene insieme. Ma non c'è molto altro in quest’opera. L'atmosfera non è quella giusta, dalla poco verosimiglianza della ricostruzione storica alle scenografie naturali troppo generiche. I cattivi sono sorprendentemente noiosi, non fanno molto di più che sparare alla gente sghignazzando. Il più grande difetto del film è che è molto quieto, procede a un ritmo lentissimo. Ci si sente come davanti ad un episodio western di mezzora allungato a 88 minuti.”
(Wizard, “IMDb” 7/11/2010)


PANCHO VILLA, LA LEGGENDA (AND STARRING PANCHO VILLA AS HIMSELF) di Bruce Beresford
con Antonio Banderas, Eion Bailey, Alan Arkin, Michael McKean, Jim Broadbent

Incaricato di girare un film dal vero su Pancho Villa (il realmente esistito e perduto “The Life of General Villa”, che davvero mescolava riprese di studio con riprese da documentario), un giovane cineasta americano finisce nel bel mezzo della rivoluzione messicana (1910 - 1917). Sperimenterà il fascino e le contraddizioni della rivoluzione, di un personaggio come Villa e di un mezzo illusorio come il cinema.

Film-tv anche troppo ambizioso, ma di egregia fattura. Tutta la parte riguardante il cinema nel cinema è troppo insistita e va a spezzare continuamente la parte rivoluzionaria e picaresca, che invece funziona piuttosto bene; è l'ennesima replica del celebre ma un po' logoro assunto fordiano della leggenda che vince sulla realtà. Più interessante il contrasto tra un Messico colorato e chiassoso, dove la gente vive la realtà sulla propria pelle combattendo e morendo in prima persona, e un'America fredda e grigia, dove la realtà è continuamente filtrata dai mezzi di informazione e le esperienze di vita sono solo quelle virtuali e manipolatorie del cinema. In questo senso notevole una delle prime sequenze del film, ambientata sulle sponde del Rio Grande che fa da confine tra le due nazioni: da una parte si vedono i messicani impegnati in una battaglia, mentre sull'altra sponda si vedono gli americani che assistono comodi e divertiti al combattimento come fosse uno spettacolo. La visione della rivoluzione è romanticamente positiva, nonostante se ne mostri anche il lato più truce, benché ovviamente gli ideali che la muovevano siano ridotto ad un'ottica genericamente umanitaria con ben poco di politico. Bizzarro il cupo pessimismo con cui viene dipinto invece il mezzo cinematografico, descritto come un'arte incapace di catturare la vita, ma capace solo di spacciare ad un pubblico affamato di rassicuranti banalità solo altra banalità. (Ci sarebbe da notare che tutto questo venga mostrato in un film che a sua volta romanza e semplifica fatti storici realmente accaduti.)

Sempre piacevole la rievocazione folcloristica di un Messico dove la rivoluzione è una specie di festa sanguinaria. Belle ed epiche le scene di battaglia, girate con tante comparse come si faceva una volta e gli effetti digitali ridotti al minimo. Una bella sorpresa considerato lo stile leccato e calligrafico per cui è conosciuto il regista Beresford (“A spasso con Daisy”), ben riconoscibile d'altra parte nelle parti americane del film.
Banderas si riconferma un attore monocorde e portato alla macchietta latina, ma in questo caso non privo di un certo carisma, anche se è forse più merito del fascino del personaggio storico che dell'interprete. Anonimi ma efficaci gli altri attori, tra cui spicca solo un canagliesco Alan Arkin nella parte di un avventuriero, ebreo e di Brooklin, esperto di mitragliatrici (spassosa la sequenza in cui lo ritroviamo alle prese con la vecchia madre). L'amico del protagonista è il reporter John Reed, protagonista nel 1981 del film biografico “Reds” diretto e interpretato da Warren Beatty. Tra i molti personaggi realmente esistiti c'è anche il futuro maestro (anche) del western Raoul Walsh, che interpretò davvero Pancho Villa in “The Life of General Villa”.

Dicono di lui...

“Non è un tipico film TV su un dramma storico fatto di sagome di cartone. Che il cinema sia un modo perfetto per fare propaganda non è una novità. I tedeschi lo hanno utilizzato molto durante la seconda guerra mondiale e anche in tempi più recenti è stato utilizzato per fare pubblicità all'esercito (ricordate il boom di giovani che volevano arruolarsi nell'aeronautica, dopo aver visto "Top Gun"?). Ma che Pancho Villa lo avesse già utilizzato nel corso della sua rivoluzione, tra il 1912-1916, è qualcosa di inedito. E non pensate che sia l'idea di qualche furbo tizio di Hollywood, bravo ad immaginare una bella storia che potrebbe diventare un buon modo per fare un sacco di soldi. No, è tutto realmente accaduto. Se non mi credete è sufficiente digitare “Pancho Villa” nella ricerca di IMDb e controllare la sua filmografia. Vedrete che ci sono stati diversi film realizzati con lui come attore protagonista. Peccato siano tutti andati persi. Ma nessun problema, abbiamo l'HBO, una canale televisivo noto per i suoi lavori di buona qualità riguardanti i soggetti (si pensi all'esempio di "Band of Brothers"). [...] Non spaventatevi dall'etichetta “TV” che si trova dopo il titolo. Non è il tipico drammone televisivo, ma un dramma dignitoso e robustamente storico.”
(Philip Van der Veken, “IMDb” 19/5/2005)

“Soggetto troppo duro e complesso per lo sceneggiatore medio Hollywood. Il grosso problema è che la storia è incentrata sull'esperienza durata un paio di settimane di una troupe cinematografica al seguito di Pancho Villa, ma il film non si limita a parlare semplicemente di Villa o solo della Rivoluzione. È una storia troppo imponente, con troppi personaggi, molti inganni e molti intrighi. Si doveva farne una serie o un film molto più approfondito per renderla più interessante. L'interpretazione di Banderas è simpatica ma stereotipata, e resta avvilente l'atteggiamento tradizionale di Hollywood nei confronti dei messicani delle epoche passate. Villa nel film è per lo più mal vestito, con la barba lunga, generalmente sporco e unto, si esprime come una persona greve ed ignorante. Si poetva evitare, il film ne avrebbe guadagnato.”
(A. Steve, "IMDb" 2/3/2007)


GANG OF ROSES (inedito in Italia) di Jean-Claude La Marre
con Monica Calhoun, Lil' Kim, Stacey, Marie Matiko, Lisa Raye, Bobby Brown, Mario Van Peebles

Le ex componenti di una banda di fuorilegge tutta al femminile e all-black (più un'asiatica), si rimettono insieme per vendicare l'omicidio della sorella di una di loro, assassinata da una donna appartenente ad un'altra gang, sempre di colore.

Connubio in odor di vecchia blaxploitation tra due non certo memorabili western degli anni 90: “Bad Girls”, per l'idea della banda tutta al femminile di ex prostitute, e “Posse”, omaggiato con un cameo del protagonista Jessie Lee interpretato sempre da Mario Van Peebles. “Gang Of Roses” è un western intriso di cultura hip hop, dove tutti gli anacronismi sono voluti e sfrontatamente ricercati. I personaggi di colore parlano e si atteggiano come dei gangster urbani, la colonna sonora ha i ritmi sintetici della black music odierna, gli assurdi costumi delle cowgirls sembrano usciti da un video di MTV di pessimo gusto.

L'insieme è un tale delirio che poteva anche essere divertente, se il risultato fosse stato all'altezza di un materiale tanto folle. Invece il film non è per nulla folle o delirante, neanche sotto il profilo della violenza e del sesso, ma è solo un bolso e inerte filmaccio senza stile. Difficile stabilire se l'haitiano La Marre è peggio come regista o come sceneggiatore. Nel primo ruolo si rivela totalmente inetto, probabilmente convinto che per dare un'aria “pulp” ad un film basti abbondare di primi piani di facce e pistole deformati dall'obiettivo. E dirige malissimo le scene d'azione, che per un western è un difetto madornale. Come sceneggiatore non ha una sola idea decente, sformando la solita trama anodina e cervellotica, tipica dei prodotti di serie Z che devono allungare il brodo. A cominciare da una sotto-trama di mappe del tesoro tatuate di interesse nullo. Particolarmente insensate le derive melodrammatiche del finale, con personaggi che muoiono in modo illogico e patetico, in netto contrasto con la patina cinica che il film aveva ostentato fino ad allora.

Dicono di lui...

“Penso che un gran numero di spettatori non abbia semplicemente capito che si tratta di una evidente parodia dei film western. Non è un brutto film, è un'intelligente versione di western con dentro delle belle figliole. Non credo che questo film si prenda mai sul serio, neanche per un momento. Ciò che rende questo film unico è il fatto di essere incentrato su quattro toste e belle donne, due delle quali di colore, un'asiatica e un'ispano/messicana. Non sono le solite donnette dei western, sono delle dure, che estraggono veloci e sparano dritto. La trama è quella tipica dei film western, del tipo "Hai sparato a mio fratello? Vengo a prenderti!" Solo che in questo western è il turno della sorella di una donna ed è lei è che parte per la vendetta con la sua banda. […]. È un film ben fatto, che non è riuscito a trovare un pubblico che lo riconoscesse per quello che è. La mia unica delusione è che la sola lesbica del film debba per forza essere una cattiva - delle "eroine", a parte una, non vengono invece mai resi noti gli orientamenti sessuali.”
(Starfire, “IMDb” 2/2/2007)

“Un mucchio fumante di sterco di vacca. Non mi raccapezzo nel tentativo di capire il perché questo film è stato fatto. Hip-Hop e vecchio western non sono fatti per mescolarsi. Che target di riferimento avevano in mente le persone che hanno avuto la bella pensata di progettare questa catastrofe? [...] Preferisco guardare la TV spenta che rivedere questa pellicola.”
(Lilmac, “IMDb” 1/12/2009)

“Questo film è la peggiore rappresentazione della popolazione nera che io abbia mai visto!”
(ActionScene “IMDb” 15/3/2007)

Scusi, dov'è il West?


Gods and Generals (inedito in Italia) di Ronald F. Maxwell
con Jeff Daniels, Stephen Lang, Robert Duvall, Mira Sorvino, Kevin Conway

Colossale produzione televisiva sulla Guerra di Secessione. Dieci anni prima lo stesso regista aveva diretto l'analogo “Gettysburg”, di cui questo nuovo film racconta gli antecedenti. Questa doveva essere la prima parte di una trilogia, ma è stata un gigantesco flop, anche a causa delle grosse difficoltà produttive che ne hanno tardato la messa in onda per tre anni. Per quello che chi scrive può capirne è probabilmente la ricostruzione storica più accurata e realistica di quell'evento storico (quindi lontanissima dall'iconografia western), almeno per il realismo dei costumi, delle scenografie e per l'attendibilità dei luoghi. Ma lo spirito con cui tutto è mostrato è quello ridicolo e inamidato che può piacere solo agli appassionati di Storia, illusi che eventi come le guerre possano essere spiegati attraverso isolati aneddoti strategici dovuti all'ispirazione dei condottieri, tanto consapevoli di star facendo la Storia che ogni due per tre se ne escono con frasi fatte apposta per essere tramandate ai posteri. Piuttosto che simili tromboni, meglio i poveri capitani alcolizzati che sognano di far saltare in aria i ponti che devono conquistare....

Tommaso Sega

venerdì 24 febbraio 2012

i film 12 - Cimitero senza croci

1969 CIMITERO SENZA CROCI (Une corde, un Colt...) di Robert Hossein. Con Robert Hossein, Michèle Mercier, Guido Lollobrigida, Daniele Vargas, Serge Marquand.


Il tempo è stato galantuomo con questo bellissimo film di Hossein: letteralmente invisibile per decenni, è stato riscoperto negli ultimi tempi grazie al proliferare di siti specializzati e pubblicazioni dedicate al western europeo, per poi diventare in breve uno dei titoli piú amati dagli appassionati, tanto da finire stabilmente incluso nella Top 20 dell'autorevole Spaghetti Western Database. E la fama postuma a dire il vero è tutt'altro che immeritata, visto che ci troviamo di fronte ad un film assolutamente unico, una specie di western d'autore che sembra estraneo a qualsiasi moda, lontano allo stesso modo sia dal riprendere i modelli classici che dall'incorporare gli stilemi dell'imperante spaghetti.
Profondamente "francese" nel puntare piú sulle suggestioni d'atmosfera che sulle coreografie violente, potrebbe essere considerato la versione western dei polar di Melville: anche qui ci sono l'eroe stanco e disilluso, la fuga impossibile e il nichilismo che porta ad accettare la morte come unica soluzione, messi in scena da Hossein con uno stile ricercatissimo che, lasciando ampia autonomia alle immagini e alle musiche, produce un andamento «lento e ipnotico, spesso anti-narrativo, alternato ad improvvisi scoppi di violenza» [M. M.]. In alcuni momenti pare quasi di trovarsi in uno dei rarefatti ed allucinati western che Monte Hellman diresse pochi anni prima.
«Un film sulla solitudine» secondo lo stesso Hossein: ne è la perfetta sintesi la splendida città-fantasma dove abita il protagonista, che farà da sfondo ai momenti piú significativi ed emozionanti della pellicola, culminante in un finale di sconsolante tristezza. Altrettanto notevoli sono la fotografia, che in alcune scene recupera tonalità cariche da gotico della Hammer in altre desatura i colori per aggiungere desolazione e malinconia ai paesaggi, e la bellissima colonna sonora composta dal padre di Hossein, André.
Da recenti dichiarazioni del regista si è appreso che Sergio Leone (cui il film è dedicato) diresse per intero la sequenza della cena dei cow-boys con sorpresa finale al ranch dei Rogers - invero una delle piú memorabili dell'intera pellicola - e che Dario Argento non collaborò in nessun modo alla stesura della sceneggiatura, contrariamente a quanto indica la versione italiana.


Paolo D'Andrea, con interventi di Mauro Mihich

giovedì 23 febbraio 2012

i film 11- Una donna chiamata Apache

1976 UNA DONNA CHIAMATA APACHE di Giorgio Mariuzzo, con Al Cliver, Yara Kewa, Corrado Olmi, Ely Galleani, Peter McSwing, Roque Oppedisano, Mario Maranzana, Rick Boyd, Marie France Boyer, Venantino Venantini, Henry Kalter


Questo tardo e poverissimo western gode di una fama assolutamente tremenda, in realtà non del tutto meritata.
Certo, l'estrema miseria della messa in scena si vede tutta e un Far West ricostruito alla buona nella pineta di Viareggio tra la ginestra e i pini mediterranei non può che far sorridere, però Giorgio Mariuzzo (autore anche del soggetto e della sceneggiatura e famoso come scrittore dei maggiori horror di Lucio Fulci) ci mette impegno e buona volontà e anche se la sua regia è quel che è (piena di fastidiosissimi carrelli circolari) il risultato non è per nulla vergognoso.
Il problema maggiore del film è il ritmo esageratamente monotono, dovuto sicuramente alla scarsità dei mezzi e al ristretto numero di attori a disposizione, con il regista che cerca di fare di necessità virtù facendo girare in tondo i protagonisti per la campagna toscana con una romantica ballata country in sottofondo.


Anche se è famigerato per la sua componente exploitation il film non è poi così spinto, né sotto il punto di vista del sesso né della violenza, anche se l’intenzione del regista di puntare sul sensazionalismo per attirare gli spettatori con tutta evidenza c’era tutta (purtroppo per lui non sembra ci sia riuscito).
Ovvia l’ispirazione al Soldato blu di Ralph Nelson, ma anche al misconosciuto Apache di William Graham (a cui dedicheremo prossimamente una recensione), con una contiguità di vedute più prossima ai western revisionisti americani degli anni settanta che non agli spaghetti western, con cui ha poco a che spartire, se non la disinvolta messa in scena di violenze e crudeltà d’ogni genere - soprattutto stupri e scotennamenti - mentre l’erotismo è molto più accentuato rispetto alla media italiana, con la protagonista femminile quasi sempre nuda.


Piuttosto efficace Al Cliver (doppiato da Ferruccio Amendola) che fa né più né meno lo stesso ruolo di Peter Strauss in Soldato blu e niente male – in tutti i sensi – la tedesca Yara Kewa (alias Clara Hopf) nella parte dell’indiana. In un piccolo ruolo c’è anche la bellissima Ely Galleani.
Sicuramente non uno dei titoli indispensabili del filone, ma senza dubbio interessante come una delle ultime testimonianze della nostra scomparsa cinematografia western.

Mauro Mihich

mercoledì 22 febbraio 2012

nuovi western - 2002

Western del 2002

Anno che conta solo un paio di titoli piuttosto eccentrici, per altro inediti in Italia, anche se il primo titolo riguarda molto da vicino l'Italia e il suo western.


800 BALAS (inedito in Italia) di Álex de la Iglesia
con Sancho Gracia, Carmen Maura, Angel de Andrés López, Eusebio Poncela, Luis Castro, Manuel Tallafé, Enrique Martinez, Eduardo Gómez, Luciano Federico, Yoima Valdés

Gli 800 proiettili del titolo sono le pallottole che mette insieme il protagonista, un vecchio stuntman degli spaghetti western, per organizzare con i suoi colleghi una resistenza armata contro la speculazione edilizia che sta per abbattersi sul loro paesino turistico, ex set dei western all'italiana. Testimone delle vicenda il nipote di dieci anni dell'uomo.

Ambientato nell’Almerìa contemporanea, tra gli stuntman del villaggio western Texas Hollywood che campano alla giornata ricreando sparatorie per i turisti, e che non sono un'invenzione del regista, come sostiene anche Marco Giusti nel suo “Dizionario del western all'italiana”, ma esistono realmente e sono molto simili a quelli descritti nel film.
Nostalgico, commovente, bellissimo omaggio al genere da parte del regista basco di culto Álex de la Iglesia, grande appassionato della serie B cinematografica.
Più che Tarantino, a cui viene spesso accostato per la comune matrice cinefila, ricorda molto il cinema di Steven Spielberg, oltre che per la storia vista dal punto di vista di un bambino, anche per la capacità di coinvolgere ed emozionare lo spettatore, usando a volte anche stratagemmi un po’ subdoli e ricattatori per farlo parteggiare per la “parte giusta”, e per la grande sicurezza e padronanza di regia, quasi hollywoodiana (che differenza imbarazzante con l’attuale dilettantismo italiano!).
Il regista svaria con sicurezza e bravura tra diversi registri, avvicendando balli e cavalcate, bevute e sparatorie (fittizie e reali) e mescolando comico e grottesco, dramma e commedia, ironia e tragedia, risate e commozione, ma tenendo sempre sotto controllo il filo della narrazione. E anche a livello tematico, oltre ad una appassionata dichiarazione d’amore per il genere, il film è molte altre cose: una sentita arringa sulla difesa del proprio lavoro, una impietosa analisi sul mondo del cinema e su quello che nasconde dietro i lustrini e le paillettes, una triste considerazione sull’impossibilità di superare il passato, un’amara riflessione se sia preferibile vivere nel proprio piccolo - e spesso fasullo - mondo immaginario oppure affrontare la realtà. Il geniale cortocircuito tra cinema e vita reale viene rimarcato dallo straordinario attore protagonista (che in pratica interpreta se stesso): Sancho Gracia, che è stato veramente la controfigura di Clint Eastwood in “Per un pugno di dollar”i (bellissimo il suo discorso sulla diversa fortuna che arride alle star e agli stuntman) e che ha realmente incontrato Raquel Welch sul set di “El Verdugo” come racconta nel film (senza che nessuno gli creda).

È uno di quei film che ti fa amare i suoi personaggi. Sancho Gracia è titanico, si mangia tutto il film. Ma è irresistibile tutta la galleria di piccoli e grandi personaggi che il film fa scorrere sullo schermo, anche quelli minori: dalla simpatica e conturbante “guerrigliera” di Yoima Valdés che si esibisce in un paio di audaci spogliarelli, alla comparsa italiana che che impreca solo in italiano, dallo specializzato nelle parti da impiccato, a quello specializzato nel farsi trascinare dai cavalli, da quello che fa sempre la parte dello sceriffo, a quelli che fanno sempre gli indiani, fino a quello rintronato dalle troppe cadute spettacolari. Una specie di allegra Spoon River della manovalanza dei fu spaghetti western.

Bellissimo il prologo (che poi si scoprirà essere una clamorosa finzione) e formidabili i titoli di apertura e di chiusura. Allegre e appassionanti le parti più picaresche e chiassose, come tutto lo strepitoso assedio del finto villaggio. Forse troppo convenzionale la parte sentimentale e melodrammatica, ma comunque in linea con l'affetto nostalgico che il film vuole trasmettere, non solo per il western italo-iberico ma per tutto il mito western in generale.

Nella patria degli Spaghetti Western scandalosamente non è mai stato distribuito.

Dicono di lui...

 “[...] In “800 Bullets” lo stile di De la Iglesia ha troppo poco margine di manovra: quel senso di bizzarro e surreale, per cui è generalmente conosciuto, è incanalato in un intreccio intelligente ma soffocante, che esplode di vera stranezza solo verso la fine. È chiaro che l'autore in “800 Bullets” si è divertito con il materiale a sua disposizione, ma senza in realtà avere una salda presa su di esso. […] Un tocco divertente che piacerà agli spettatori spagnoli (e passerà inosservato ai telespettatori americani) è l'utilizzo, ad un certo punto verso la fine del film, del doppiatore spagnolo che ha fornito la voce di Clint Eastwood nei suoi film […] Non si può negare a “800 Bullets” di essere intrigante, per come riesce confondere i confini tra realtà e finzione, tra le vite dei personaggi e le trame dei B-movies in cui erano abituati a lavorare. Se il film fosse stato molto più corto e meglio costruito, o se De la Iglesia fosse riuscito ad imporre un maggior ordine al suo caos, sarebbe potuto essere ancora più affascinante. Così com'è, gli si può riconoscere energia e fantasia, ma non è abbastanza per mettere insieme un film di successo.”
(Holly E. Ordway, “DVDtalk” 27/3/2005)

“[...] Scritto dal duo inseparabile Jorge Guerricaechevarría e il regista Álex de la Iglesia, "800 Balas" è una storia che utilizza il semplice e tipico espediente di un ragazzo alla scoperta del passato del padre defunto per creare una storia a più strati sull'onore, la lealtà, e la sottile linea tra realtà e finzione, il tutto condito da innumerevoli riferimenti al genere western (sia americano che spaghetti) e una grande dose di umorismo nero e sovversivo. Anche se non è esattamente un western, De la Iglesia gioca con il genere e lo descrive come l'ultimo e più perfetto genere cinematografico del cinema come fabbrica dei sogni, tanto che Julián e la sua banda di disadattati non hanno mai accettato il fatto che il sogno che avevano contribuito a creare sia finito. È un omaggio affettuoso all'Almería, alla sua gente e ai suoi western. [...] Certo, "800 Balas" è più un film d'azione e uno studio di caratteri che un onesto e regolare film western, ma De la Iglesia dimostra una tale e profonda conoscenza del western all'italiana, che i fan del genere lo troveranno sicuramentre gratificante. Con una fotografia straordinaria (da Flavio Martínez Labiano) che imita i classici Leone classici, e uno score (di Baños Roque) che accenna più di una volta a Morricone [...] Nonostante i suoi evidenti difetti, "800 Balas" è un omaggio straordinario ad un lungo periodo perduto, e un altro notevole lavoro di uno dei registi più originali della Spagna. Una lettera d'amore al cinema che è una visione doverosa per gli appassionati di western, specialmente per quelli che si sono divertiti a vedere Clint Eastwood che andava a spasso per l'Almería, lo spirito di quei film leggendari sembra rivivere per un ultimo viaggio attraverso il deserto.”
(commento di José Luis Rivera Mendoza, "IMDb" 28/11/2006)


THE OUTSIDER (inedito in Italia) di Randa Haines
con Naomi Watts, Tim Daly, David Carradine, Keith Carradine

I western diretti da donne sono una rarità. Tra quei pochi quasi nessuno rispetta le regole tipiche del genere, come nel caso degli affascinanti e intimisti “A Thousand Pieces of Gold” di Nancy Kelly del 1991 e “Meek's Cutoff” di Kelly Reichardt del 2011, entrambi colpevolmente inediti in Italia. Piacerebbe quindi scrivere bene di un caso quasi unico come “The Outsider”, tradizionale western per la TV diretto da una donna, sceneggiato da una donna (Jenny Wingfield) e tratto dall'omonimo romanzo scritto sempre da una donna (Penelope Williamson). Il guaio è che il film sembra far di tutto per dar credito ai peggiori pregiudizi maschilisti che una squadra del genere potrebbe far nascere. Trattasi infatti di un western “romantico” nel senso più deteriore del termine. Situazioni, dialoghi e personaggi sono quelli della letteratura rosa usa e getta, con i due protagonisti che sembrano provenire da una di quelle illustrazioni color confetto tipiche di quelle pubblicazioni. 

La storia è praticamente quella solita de “Il cavaliere della valle solitaria”, ambientata però in una comunità di Amish, l'inflessibile confessione religiosa resa famosa dal celebre thriller “Witness - Il testimone” di Peter Weir. Peccato che i conflitti che erano il sale di quei modelli siano qui proposti in una versione troppo accomodante e zuccherosa. Il marito incomodo viene fatto fuori all'inizio del film, i cattivi mandriani fanno capolino solo nei momenti funzionali al progredire della trama, lo scontro tra la relazione proibita dei due protagonisti e la rigidità della cultura Amish passa per situazioni improbabili (che nell'ottocento una bella vedovella potesse tranquillamente convivere per mesi in casa da sola con un uomo, per altro noto “peccatore”, senza che nessuno trovasse granché da ridire è inverosimile in generale non solo in una comunità Amish) e si risolve in modo troppo facile e plateale. Infine il cavaliere solitario fonde la sua pistola in una fornace e abbraccia la fede pacifista dell'amata solo dopo che ha sterminato tutti i suoi avversari. In un'analoga situazione, il John Wayne de “L'ultima conquista” (1947) aveva avuto il coraggio e il buon gusto di convertirsi prima.

Fatta la tara sul tipo di film che vuole essere, bisogna però dire che “The Ousider” si lascia guardare con una certa gradevolezza. Merito di una confezione di alto livello, con una bella e poetica colonna sonora e una splendida fotografia che esalta le atmosfere naturali e climatiche, con belle immagini di atmosfere piovose, paesaggi innevati, boschi autunnali. Merito anche della classe degli attori, tra cui i due più noti fratelli Carradine, con David che si ritaglia la bella parte di un dottore dai modi spicci. Convincenti anche i due protagonisti, capaci di dare concretezza fisica all'attrazione tra i loro personaggi. Intensa soprattutto la prova di Naomi Watts, che salva più di una sequenza dal ridicolo involontario e riesce a risultare sexi anche se praticamente sempre infagottata nel costume da vedova Amish. Anche se c'è da sospettare che nella realtà tali costumi non mettessero così ben in evidenza la linea e le forme delle donne che li dovevano indossare. 

Dicono di lui...

“The Outsider è un film meraviglioso e una vera gioia per lo sguardo principalmente grazie a Tim Daly e Naomi Watts. [...] Voglio raccomandare questo film a tutte quelle che vorrebbero un diverso tipo di western. Che si concentri sulle storie d'amore, piuttosto che sulla violenza. Davvero una boccata d'aria fresca.”
(Roxanna-Hartman, "IMDb" 27/5/2004)

“[...] è una storia bella e commovente di amore, passione e pregiudizio. […] la musica e il lavoro con la cinepresa trasmettono un'atmosfera molto intensa e sensuale in certi momenti, serena e sognante in altri.”
(Cleodeo, “IMDb” 25/1/2006)

“No, non è un western con Clint Eastwood. Niente storie con profondi tormenti morali o stoici eroismi. Ma è meglio rispetto alla media dozzinale dei racconti romantici. Prima di tutto, sono state evitate le distraenti sottotrame che costellano il romanzo di Penelope Williamson. In secondo luogo, questa trasposizione è soprattutto una poema visivo. [...] Se siete in vena di una storia semplice, ben recitata e bella da guardare, questa fa al caso vostro.” 
(MoonShdo, "IMDb" 25/1/2005) 

"Quanti luoghi comuni si riescono a contare in questo film? Non credo ci sia un cliché che questo film si dimentichi di includere. [...] Naomi Watts è particolarmente concentrata, tuttavia, come vedova giovane e carina, utilizza una gamma di emozioni che va dalla A alla ... uh, A. È un film abbastanza innocuo... se avete un po di tempo da sprecare e realmente “amate” i western, sedetevi e probabilmente vi passerà via bene. Ma non lo ricorderete dopo una settimana.”
(Hokeybutt, "IMDb" 19/12/2004) 

"Che razza di merda fumante di film. Quando la tendenza è riempire letteralmente ogni secondo di dialogo e ogni singolo punto della trama di ogni consunto e logoro cliché, questo è il risultato che si ottiene. [...]"
(Quinnmass, "IMDb" 16/12/2004)

Tommaso Sega, con inserti di Mauro Mihich

lunedì 20 febbraio 2012

i film 10 - Il mio nome è Shanghai Joe

1973 IL MIO NOME È SHANGHAI JOE di Mario Caiano, con Chen Lee, Klaus Kinski, Robert Hundar, Gordon Mitchell, Giacomo Rossi-Stuart, Piero Lulli, Carla Romanelli, Katsutoshi Mikuriya, Rick Boyd, Tito Garcia


Curioso ed interessante ibrido tra lo spaghetti western e il film cinese di kung-fu, genere che dopo l’uscita di Cinque dita di violenza e Dalla Cina con furore godeva anche in Italia all’epoca di grande popolarità.
Il regista, un ispirato Mario Caiano, amalgama il tutto con momenti truci e scene splatter. Il film, infatti, è violentissimo: occhi cavati dalle orbite, mani mozzate, teste scoperchiate, in un accumulo di atrocità che raggiunge il parossismo con i quattro deliranti e mostruosi cattivi da film horror che il sadico possidente interpretato da Piero Lulli (uno che per divertimento fa il tirassegno sui peones legati) mette sulle tracce dell'immigrato cinese interpretato da Chen Lee, e cioè Pedro il cannibale (un grande Robert Hundar, dalle desumibili abitudini alimentari), Sam il becchino (Gordon Mitchell, che seppellisce la gente ancora viva intonandogli nel mentre una canzoncina), Tricky il baro (Giacomo Rossi-Stuart) e Scalper Jack (il solito eccezionale Klaus Kinski, che va in giro con la giacca foderata di coltelli di diverse dimensioni a seconda degli scalpi da strappare alle sue vittime, che applica poi a delle bamboline che tiene in casa sua).


Un mix davvero curioso, e sorprendentemente riuscito, di atmosfere quasi horror, momenti feroci alla Se sei vivo spara, sparatorie sanguinarie alla Peckinpah, toni più pop e leggeri (c’è pure una storia d’amore), istanze sociali antirazziste e anticapitaliste (un classico del western italiano, queste, in aperta controtendenza con quello americano) e ovviamente calci volanti e combattimenti a mani nude (anche se non si capisce bene quale sia lo stile di arti marziali usato da Lee...).
La regia di Caiano è in qualche momento persino raffinata, con un efficace uso dello zoom e del ralenty, e riesce intelligentemente ad evitare l’auto-parodia, realizzando una convincente contaminazione di generi (ora si chiamerebbe cross-over).
Belle sono anche la fotografia di Guglielmo Mancori e la musica di Bruno Nicolai (anche se riciclata da una sua precedente colonna sonora, quella per Buon funerale amigos... paga Sartana). Ottime, anche se a volte un po’ esagerate dal montaggio, le numerose sequenze acrobatiche (con gran lavoro da parte degli stuntman).


I limiti del film sono il suo protagonista, che – nonostante il doppiaggio di Ferruccio Amendola – non è un attore professionista e si vede (venne reclutato in una palestra di arti marziali di Roma) e che è pure giapponese anziché cinese, il contrasto troppo evidente tra le scene girate in Almeria e quelle invece a Roma e la sceneggiatura un po’ sconclusionata che manca clamorosamente di un finale: Shanghai Joe, infatti, se ne va via a cavallo verso il tramonto, come il più classico degli eroi, ma Piero Lulli e i suoi accoliti non si capisce bene che fine facciano.
È comunque la dimostrazione di come anche nel periodo farsesco del genere, cioè quello post Trinità, si potessero ancora realizzare western seri ed inventivi, con ottime trovate, capacità tecniche, bravi attori e validi caratteristi.

Mauro Mihich

domenica 19 febbraio 2012

nuovi western - 2001

Western del 2001

Annata purtroppo segnata da un paio di tentativi di aggiornare il western per avvicinarlo ai presunti gusti del pubblico giovanile. Ma alla fine è solo un classicissimo e onesto tv-movie a funzionare veramente.


FUOCO INCROCIATO (CROSSFIRE TRAIL) di Simon Wincer
con Tom Selleck, Mark Harmon, Virginia Madsen, Brad Johnson, Barry Corbin, Christian Kane

In Italia è sempre e solo Magnum P.I., ma da anni Tom Selleck si è costruito una buona reputazione come attore e produttore di pregevoli produzioni televisive, all'interno delle quali con dedizione e caparbietà si è costruito una sua piccola filmografia western, che conta una manciata di pregevoli film-TV come questo e anche una divertente uscita cinematografica: l'outback western - ovvero la versione australiana del genere - "Carabina Quigley" del 1990. Suo fedele pard è quasi sempre il regista australiano Simon Wincer, anonimo ma solido artigiano, con un'ottima mano per le scene d'azione.

L'amore di Selleck per il western più classico è lampante in questo "Fuoco incrociato", che sembra una pellicola uscita direttamente degli anni '50, non a caso del resto è tratta da un romanzo dello specialista Louis L'Amour datato 1954. Uniche concessioni alla modernità sono il realismo dei costumi e la fotografia dai colori spenti. Ma guardando a tutto il resto - dialoghi, personaggi e situazioni - non si faticherebbe troppo ad immaginare un James Stewart al posto di Tom Selleck nella parte del cowboy solitario, un Robert Ryan al posto di Mark Harmon nella parte del dispotico signorotto locale, e una Janet Leigh al posto di Virginia Madsen nella parte della bella vedova in pericolo. Certo Wincer non è Anthony Mann, ma si difende bene, soprattutto quando dirige con classe le ottime e divertenti scene d'azione che movimentano tutta la seconda parte del film.

Curioso il prologo marittimo con echi quasi alla Conrad, con Selleck marinaio che, dopo un giustificato ammutinamento, promette ad un amico morente di vegliare sulla vedova. Andrà a vivere nel ranch della donna come cowboy, dove viene raggiunto da due sue compagni di mare. Ovviamente si innamorerà della sua datrice di lavoro e dovrà affrontare i cattivi della zona che vogliono impossessarsi del ranch. In sintonia con i modi calmi dei loro protagonisti, gli autori mostrano con calma e affetto i personaggi che si muovono tra i più classici paesaggi del genere -boschi, fiumi, cittadine di frontiera - mentre scortano mandrie, seguono traccie, incontrano indiani o semplicemente chiacchierano al lume di candela in un ranch o accanto ad un falò. I dialoghi ricchi di ironia virile e compassata e altre scenette gustosamente divertenti creano un clima cameratesco tra i personaggi che coinvolge anche lo spettatore. Cosa ben diversa dall'ironia distruttiva e respingente dei due altri film qui sotto...

Dicono di lui...

"Tom Selleck porta sul piccolo schermo un altro atto d'amore per il western. [...] Selleck, che incontrò per la prima volta L'Amour durante le riprese di "The Sackets", nel 1979, dimostra la sua incrollabile riverenza per l'autore, con questo luminoso adattamento, diretto con grande sensibilità da Simon Wincer ("Lonesome Dove"). Girato in esterni a Calgary, Alberta, Canada. "Fuoco incrociato" segna il secondo abbinamento tra Tom Selleck e il produttore esecutivo Michael Brandman, che avevano già collaborato nel 1997 per il sobrio "Ultima fermata Saber River", che al momento della prima visione fu il film nato per il via cavo più visto di sempre. E' notoriamente difficile aggiudicarsi i diritti di un romanzo di Louis L'Amour, è stata l'amicizia di Selleck con l'autore e con sua moglie che ha reso possibile il dar vita sullo schermo a "Trail Crossfire".”
(Christian Kane,"Cd Universe")

"Sono sorpreso dell'alto gradimento ottenuto da questo film. [...] L'inizio del film è confuso e inutile. Poi le cose migliorano e si fanno interessanti. Poi il film lentamente e inesorabilmente diventa sempre peggio. Si sviluppa in maniera incredibilmente pasticciata con varie sequenze che ricordano film migliori (la principessa indiana da salvare, il famoso assassino nerovestito da assumere fuori città, la gente del paese che insorge alla fine per difendere la giustizia, il bestiame mandato in città durante uno scontro a fuoco... bah)! [...] Tutto è poco credibile e scarsamente motivato: gli uomini che lavoravano in un ranch che non è loro, l'ipoteca sul medesimo, il "corteggiamento" della Madsen, la morte del marito. Le tattiche e i movimenti nelle sparatorie sono sciocche e poco convincenti."
(commento di Chipe, "IMDb" 1/11/2009)

"I western come racconti morali hanno una lunga tradizione. La classica storia del bene contro il male è tanto più efficace quanto i personaggi risultano ben disegnati e tridimensionali. [...] Okay, per come è impostata la storia manca di reale sostanza, ma quel che si ottiene da una impostazione così lineare è lo stile di un classico western che segue il copione più tradizionale, che lentamente e inesorabilmente riunisce il destino del cattivo e dell'eroe."
(Denis Bernicky, "The Reviews Page")


GLI ULTIMI FUORILEGGE (AMERICAN OUTLAWS) di Les Mayfield
Con Colin Farrell, Scott Caan, Ali Larter, Gabriel Macht, Timothy Dalton

Tentativo di riproporre il western in salsa giovanilista e modaiola che fa sembrare "Young Guns" il più serio dei film di Peckinpah. Aggiornamenti all'estetica moderna (colonna sonora rock, sparatorie alla John Woo con Colin Farrell che spara con due pistole), attori bellocci negli improbabili panni di personaggi storici e verosimiglianza storica sacrificata allo spettacolo. Quest'ultimo potrebbe anche essere un pregio, non si scegliesse sempre la via più stupida. In questo caso ad esempio è probabilmente l'unico film mai fatto ispirato alle gesta di Jesse James che finisce con un lieto fine che più lieto non si può. Nella sua ricercata vacuità inquieta un po' la glorificazione delle armi e di un qualunquismo ribellista che sfocia nel terrorismo. D'altra parte, più che guerriglieri o gangster, in questo film Jessie e la sua banda sembrano un gruppo rock, con tanto di rivalità interne legate alla fama dei singoli componenti e litigi sul nome da dare alla band(a).

Vale la pensa soffermarsi sulla demenzialità della trama. Dopo un prologo che ci mostra la Guerra di Secessione come scanzonata avventura tra amiconi, i fratelli James (Jesse/Colin Farrell il superuomo d'azione, Frank la mente e spalla ironica) se ne tornano con la loro allegra banda nel Missouri. Si tirano dietro anche il compare indiano, giusto per chiarire che pur essendo sudisti non badano al colore della pelle. A casa trovano però i cattivissimi nordisti, che espropriano i contadini a suon di bombe per far passare la ferrovia. A causa del suo orgoglio sudista ci resta secca pure mamma James (Kathy Bates). Jesse riforma quindi la banda e inizia una guerra personale contro la ferrovia. Le rapine sono scanzonate come commedie, le fughe rocambolesche e divertenti. La splendida vita del fuorilegge, insomma. Almeno fino a quando Pinkerton (Timothy Dalton) non riesce a far fuori uno della banda. Allora Jesse capisce che non è un gioco (le decine e decine di morti visti fino a quel punto evidentemente non contano), molla la carriera da brigante e va a sposarsi con una bella bionda (la meritevole Ali Larter). Ma quando Pinkerton lo arresta pure la dolce mogliettina diventa una guerrigliera, tanto da guidare il resto della banda all'assalto del treno su cui stavano portando via il marito. Non che ce ne fosse bisogno, il nostro Jessie nel frattempo si era già liberato da solo massacrando decine di soldati. E così Jesse e la sua bella possono vivere felici, contenti e armati fino ai denti.

Dicono di lui...

“Quando andavo all'università nel Giurassico, da matricole la nostra idea di divertimento era quella di chiamare tutte le persone nell'elenco telefonico che di nome facevano Frank James per dirgli "Pronto, Frank? Sono Jesse. Si cavalca stasera!" Non capivamo - dopo tutto non eravamo neanche al secondo anno - che dovevano aver ricevuto chiamate come quelle centinaia di volte, ma è così che ci passava mezzo trimestre ed è quello che contava. Non eravamo gli unici che si divertivano con i fratelli James. Altri hanno avuto la stessa idea e per giunta ci hanno fatto dei soldi, per di più facendo divertire un sacco di altra gente. In effetti la fama di Jessie James nella mitologia americana è tale che mi meraviglia che nessuno (che io sappia) abbia più affrontato il tema dai tempi in cui Walter Hill licenziò "I cavalieri dalle lunghe ombre", ventun anni fa [...] "Gli ultimi fuorilegge" è un film riuscito, nonostante il rimaneggiamento della leggenda dei James, perché evita di riscoprire l'acqua calda. Invece di frugare nello stesso materiale già sviscerato da Walter Hill nel film del 1980, Mayfield mantiene il film sui toni del buon umore.”
(Harvey Karten, “IMDb” 2001)

“È questo ciò che è diventato nel nuovo secolo un genere un tempo potente come il western? Non molto tempo fa western e musical erano i film più popolari, ora, all'alba del 21° secolo, sono completamente dimenticati, e nelle rare occasioni in cui cose come “American Outlaws” tentano di far risorgere il western vorremmo che gli autori lasciassero il genere a riposare in pace sulla collina degli stivali. Lo spettatore casuale etichetterà un film come questo come "pessimo”, e uscendo dalla sala sconsolato mediterà su come sia saggio che non vengano più fatti dei western. [...] Suppongo che il modo migliore di guardare questo film, se proprio ci si sente costretti a guardarlo a causa di una tendenza masochistica che non sappiamo controllare, è quello di considerarlo come una commedia, non come un western puro o un action avventuroso. Ci sono momenti in cui il film diverte - anche se per il 90% del tempo la farsa non è intenzionale. Invece l'umorismo premeditato è in larga parte troppo stupido per essere divertente."
(James Berardinelli, “Reelviews” 2001)


TEXAS RANGERS di Steve Miner
con James Van Der Beek, Ashton Kutcher, Rachael Leigh Cook, Dylan McDermott, Tom Skerritt, Alfred Molina

Altro disastroso tentativo di aggiornare il western al giovanilismo moderno. Se però almeno “Gli ultimi fuorilegge” ha una sua energica sfrontatezza, qui si scade nel solito equivoco per cui basterebbe mettere degli attori giovani per ringiovanire automaticamente la solita vecchia formula. Il risultato non può essere che un film nato vecchio, pieno di facce da schiaffi televisive che nulla hanno a che vedere con il genere, totalmente incapaci di essere credibili anche solo per un momento come personaggi dell'ottocento o anche solo di indossare un cappello da cowboy. Funzionano molto meglio invece gli attori più maturi usati come caratteristi, dai navigati Tom Skerritt e Alfred Molina, al raramente ben utilizzato Dylan McDermott. Il regista Steve Miner, veterano non certo rinomato dell'horror anni 80, dirige con anonima e impotente competenza, senza mai decidersi sul tono da dare al racconto, che pencola dal realismo da western revisionista dei costumi e della fotografia, ai toni da commedia urbana dei dialoghi, fino alle esagerazione da western all'italiana nella caratterizzazione dei cattivi. Insignificante.

Dicono di lui...

“Bella gente nella prateria - È un film accettabile, ma non un grande film. Non è "Tombstone" o "Il texano dagli occhi di ghiaccio”... ma le star hanno davvero un bell'aspetto. "Attraenti star televisive si uniscono ai Rangers del Texas per portare il diritto nel West”. Il cattivo è davvero cattivo, il buon e giovane idealista è davvero buono, e il cacciatore, il cinico mentore del giovane idealista buono, è un po' un misto. [...] Il motivo per cui credo di non aver valutato con più favore questo film sono gli elementi di correttezza politica, infiltrazioni estranee nel west del 1870: la giovane idealista che vuole sapere dal Ranger del Texas se ha raccolto testimonianze e ha un mandato di arresto prima di passare all'uso della forza, il ranger nero che fa lo spiritoso imitando l'Eddie Murphy di "Beverly Hills Cop" mentre viene trascinato in un campo di fuorilegge depravati... in quei momenti ho perso la mia "sospensione d'incredulità" e mi sono detto "nessuno in quella situazione avrebbe detto o agito così"... sono cose che distraggono. Benvenuti nel 2001.”
(commento di Dr. Mike, “IMDb”, 2 dicembre 2001)

“Se "Gli ultimi fuorilegge" non ha fatto nulla per aiutare il western a riaffermarsi, "Texas Rangers", rimasto in un cassetto per quasi due anni, è anche peggio. Dire­tto senza bussola da Steve Miner ("Halloween: H20"), il film è una ricostruzione frettolosa di vecchi cliché del West, con personaggi che sono sagome di cartone e in più qualche stella della televisione [...] Penosamente montato e privo di consequenzialità (risultato evidente di ritocchi in post-produzione), "Texas Rangers" non è un film che si possa definire totalmente imbarazzante, ma va molto vicino ad esserlo quando i personaggi sono costretti a recitare gli stupidi dialoghi. [...] Alla fine, quel che ci lascia un prodotto come "Texas Rangers", è un fluire di belle immagini, gentilmente concesse dal direttore della fotografia Daryn Okada.”
(Dustin Putman, “All-Reviews.com”, 2001)

Scusi, dov'è il west?



Le bianche tracce della vita (The Claim) di Michael Winterbottom con Peter Mullan, Wes Bentley, Milla Jovovich, Nastassja Kinski, Sarah Polley

Lo citiamo per la suggestiva e nevosa ambientazione nella California della febbre dell'oro, ma non ha nulla di western. Sulla carta spesso interessanti, i film dell'inglese Winterbottom si rivelano quasi sempre dei seriosi polpettoni senz'anima. Anche in questo caso il probabile tentativo di rifarsi ad un classico sull'avidità umana come “Greed” di Von Stroheim si risolve in un ovvio melodramma. Peccato per lo spreco del bel cast, soprattutto femminile. Tratto da un racconto di Thomas Hardy.

Tommaso Sega

sabato 18 febbraio 2012

i film 9 - Per 100.000 dollari t'ammazzo

1967 PER 100.000 DOLLARI T'AMMAZZO di Giovanni Fago. Con Gianni Garko, Claudio Camaso, Claudie Lange, Susana Martinkova, Fernando Sancho.


«Un western di prim'ordine» [M. M.], che in quanto a violenza e pessimismo può tranquillamente rivaleggiare con i capolavori di Corbucci. È il film "gemello" di 10.000 dollari per un massacro di Romolo Guerrieri, con il quale condivide i produttori, gli attori, gli sceneggiatori e l'intero comparto tecnico. A cambiare è praticamente soltanto il regista: dall'ottimo Guerrieri si passa al comunque valido e professionale Giovanni Fago, qui all'esordio nel genere. La comunanza fra i due film la si nota anche dal taglio romantico e dall'atmosfera mélo, che raggiungono qui picchi di autentica tragicità, con personaggi tormentati e umanissimi che vanno incontro al proprio destino fra ghost-town, saloon trasformati in ospedali da campo, capannoni adibiti a rifugio per gli sfollati, mentre sullo sfondo imperversa la Guerra di Secessione. La cura per la ricostruzione storica è insolita per uno spaghetti a basso budget, cosí com'è anomala, in un genere che fa del cinismo uno dei suoi punti fermi, la delicatezza con cui vengono sbozzati alcuni personaggi: difficile dimenticarsi il vecchio sceriffo che si sacrifica per salvare i due fratelli, o la ballerina costretta dalle circostanze ad improvvisarsi prostituta. Ed è notevole anche la descrizione del rapporto che lega i due protagonisti, incapaci di convivere ma legati al contempo indissolubilmente l'uno all'altro. È in fondo, come il precedente Mille dollari sul nero di Alberto Cardone, «la storia di Caino e Abele a rovescio, con il fratello buono e di onesti princìpi che deve uccidere quello folle e sociopatico» [M. M.]. La regia di Fago è corretta, anche se non evita qua e là una certa ridondanza, specie quando eccede in flashback e ralenti estemporanei. Riesce però a restituire in modo convincente la sensazione di un mondo alla sbando, dove i rapporti umani sono basati sul tradimento e i pochi sentimenti nobili o non sono ricambiati o portano alla morte. E il finale nerissimo e senza speranza, ambientato nell'ennesima cittadina abbandonata e spazzata dal vento, è fra i piú emozionanti di tutto il western italiano. Grande colonna sonora di Nora Orlandi.

Paolo D'Andrea, con interventi di Mauro Mihich

giovedì 16 febbraio 2012

gli attori 2 - Frank Braña

L’ultima morte di FRANK BRAÑA



Il suo nome probabilmente lo conoscevano in pochi, ma il suo volto non può che essere rimasto scolpito nella memoria di tutti gli appassionati di spaghetti-western, che a partire da Un pugno di dollari hanno avuto occasione di vederlo in innumerevoli altre pellicole, tutte girate in Spagna, paese nel quale era nato nel 1934 e dove, dopo un’infanzia trascorsa come pastore di pecore e un’adolescenza passata tra miniera ed esercito, trovò come altri colleghi iberici – Fernando Sancho, Aldo Sambrell, Lorenzo Robledo… – uno sbocco professionale nei western che venivano allora girati in Almería – dei quali fu partecipe di tutto il tragitto, dalla nascita, al boom, alla decadenza – inventandosi una carriera come cowboy cinematografico e come attore che alla fine conterà più di 170 pellicole.

Il fisico massiccio, gli occhi cerulei, il volto dai tratti marcati e scolpiti facevano si che gli toccassero praticamente sempre ruoli di cattivi – era nella banda dei Baxter e in quella dell’Indio con Sergio Leone – che inevitabilmente facevano una brutta fine, tanto da farlo competere per il record di attore morto più volte al cinema e decidere di intitolare la sua autobiografia Morir con dignidad en el cine.

Stavolta però Frank Braña è morto sul serio, il 13 febbraio 2012 a Madrid, e con questo articolo oltre a salutare lui intendiamo omaggiare tutti quei caratteristi che quasi mai hanno trovato spazio tra i primi nomi dei titoli di testa dei film, ma che con la loro bravura e professionalità hanno contribuito al successo e alla popolarità del cinema western europeo.



Filmografia western:
1964- Watabanga! di Ramón Torrado
1964- Per un pugno di dollari di Sergio Leone
1964- Cavalca e uccidi di José Louis Borau e Mario Caiano
1964- La furia degli Apache di José María Elorrieta
1964- I due violenti di Primo Zeglio
1964- La Tumba del pistolero di Amando de Ossorio
1964- Il segreto di Ringo di Arturo Ruiz Castillo
1965- Django, killer per onore di Maury Dexter
1965- Murieta John di George Stevens
1965- La valle delle ombre rosse di Harald Reinl
1965- Fuerte perdido di José María Elorrieta
1965- Jessy non perdona... uccide di Jaime Jesús Balcázar
1965- Per qualche dollaro in più di Sergio Leone
1965- Adios Gringo di Giorgio Stegani
1965- Una bara per lo sceriffo di Mario Caiano
1966- Sugar colt di Franco Giraldi
1966- Django non perdona di Julio Buchs
1966- The Bounty Killer di Eugenio Martín
1966- Ringo de Nebraska di Antonio Román
1966- Per il gusto di uccidere di Tonino Valerii
1966- La resa dei conti di Sergio Sollima
1966- Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone
1967- E divenne il piu spietato bandito del Sud di Julio Buchs
1967- Se sei vivo spara di Giulio Questi
1967- Dio perdona... Io no! di Giuseppe Colizzi
1967- Faccia a faccia di Sergio Sollima
1967- L’uomo venuto per uccidere di Leon Klimovsky
1968- Quindici forche per un assassino di Nunzio Malasomma
1968- Tutto per tutto di Umberto Lenzi
1968- Un minuto per pregare, un istante per morire di Franco Giraldi
1968- Lo voglio morto di Paolo Bianchini
1968- Una pistola per cento bare di Umberto Lenzi
1968- Il segreto di Ringo di Artur Ruiz Castillo
1968- I Quattro dell'Ave Maria di Giuseppe Colizzi
1968- C'era una volta il West di Sergio Leone
1968- …E per tetto un cielo di stelle di Giulio Petroni
1969- La morte sull’alta collina di Alfredo Medori
1969- Ringo, il cavaliere solitario di Rafael Romero Marchent
1969- Garringo di Rafael Romero Marchent
1969- I vigliacchi non pregano di Mario Siciliano
1969- Il prezzo del potere di Tonino Valerii
1970- Lo irritarono... e Sartana fece piazza pulita di Rafael Romero Marchent
1970- ...e continuavano a chiamarlo figlio di... di Rafael Romero Marchent
1970- Quando Satana impugnò la Colt di Rafael Romero Marchent
1971- Gli fumavano le Colt... lo chiamavano Camposanto di Giuliano Carmineo
1971- Una nuvola di polvere... un grido di morte... arriva Sartana di Giuliano Carmineo
1971- Vamos a matar Sartana di Mario Pinzauti e George Martin
1972- I corvi ti scaveranno la fossa di Juan Bosch
1972- El más fabuloso golpe del Far-West di José Antonio de la Loma
1972- Il mio nome è Scopone e faccio sempre cappotto di Juan Bosch
1972- Dio in cielo... Arizona in terra di Juan Bosch
1972- Hai sbagliato... dovevi uccidermi subito! di Mario Bianchi
1973- Mi chiamavano Requiescat ... ma avevano sbagliato di Mario Bianchi
1973- ...e così divennero i tre supermen del West di George Martin e Italo Martinenghi
1973 - La preda e l'avvoltoio di Rafael Romero Marchent
1973- Yankee Dudler di Volker Vogeler
1974- Whisky e fantasmi di Antonio Margheriti
1975- Si quieres vivir...dispara di José María Elorrieta
1975- In nome del padre, del figlio e della Colt di Mario Bianchi
1981- Duelo a muerte di Rafael Romero Marchent
1981- El lobo negro di Rafael Romero Marchent
1984- Yellow Hair and the Fortress of Gold di Matt Cimber
1985- Tex e il signore degli abissi di Duccio Tessari


Mauro Mihich