domenica 29 aprile 2012

i film 25 - L'ultimo fuorilegge


1993 L'ultimo fuorilegge (The Last Outlaw) di Geoff Murphy
con Mickey Rourke, Dermot Mulroney, Steve Buscemi, Ted Levine, John C. McGinley, Keith David

Un film scritto da Eric Red. Un dato che oggi per molti significherà poco o nulla, ma c’è stata un’epoca, a cavallo degli anni 80 e 90, in cui il nome dello sceneggiatore e regista significava qualcosa, almeno tra gli appassionati di un certo cinema, diciamo di genere con qualche ambizione. Oggi il suo nome è legato soprattutto ad una sinistra faccenda di cronaca nera che gli ha stroncato la carriera e probabilmente anche la vita privata.

Ma andiamo con ordine.

Eric Red aveva esordito come meglio non poteva nel 1986 scrivendo uno dei migliori thriller del decennio, The Hitcher, capolavoro di suspense e ambiguità diretto da Robert Harmon (altro personaggio che poi si è perso). In seguito aveva legato due volte il suo nome all’emergente Kathryn Bigelow, firmando le sceneggiature dell'inquietante Il buio si avvicina e dell'interessante Blue Steel. Tra i due film con la regista aveva scritto e anche diretto Le strade della paura, un altro notevole thriller on the road di grande impatto.  
Una manciata di titoli da cui emergono già alcune costanti delle storie di Red: il viaggio senza meta, la strada come ambientazione quasi metafisica e soprattutto la presenza costante di personaggi malvagi larger than life, sulfuree incarnazione di un male irrazionale, che perseguitano sia fisicamente che psicologicamente le loro vittime, con cui creano un ambiguo rapporto di odio e attrazione.
Per quanto abbastanza deludente la sua seconda prova come regista, Body Parts un truculento horror del 1991, aveva confermato queste coordinate tematiche. 


Le stesse caratteristiche le ritroviamo puntuali anche in questo western per la TV del 1993: dopo una rapina in banca finita nel sangue (in un inizio che rimanda nientemeno che a quello de "Il mucchio selvaggio"), un banda di fuorilegge si sbarazza dell’ormai scomodo capobanda, uno squinternato ex ufficiale dell’esercito confederato, il quale però non muore, riesce addirittura a mettersi a capo dei vigilantes che li braccano e diventa un implacabile vendicatore, uccidendo ad uno ad uno gli uomini che lo hanno tradito.

Il film può risultare piacevole o indigeribile a seconda di quanto si riesce ad accettare la figura del villain fornita da uno sconcertante Mickey Rourke, qui al suo primo film dopo il folle e autodistruttivo tentativo di riprendere la carriera pugilistica che gli devasterà il fisico. Occhi a mandorla, assurdi baffi alla Fu Manchu e costume da pirata dei Caraibi, il suo personaggio è una specie di freak, la cui presenza in un contesto western può essere a seconda dei gusti il tocco originale che intriga o la stramberia che rende tutto improbabile.
Degno di nota anche il resto del cast: il protagonista di Dermot Mulroney, raro caso di belloccio con carisma, un ancora poco noto Steve Buscemi e altre facce d’effetto, come Ted Levine (il serial killer de “Il silenzio degli innocenti”), Keith David (caratterista nero caro a John Carpenter) e John C. McGinley (tra i protagonisti della sitcom ospedaliera "Scrubs").



C’erano tutti gli ingredienti per un bel film, violento e onirico. Purtroppo però a dirigere il tutto non ci sono talenti come Mark Harmon, la Bigelow o lo stesso Red, ma il decisamente più modesto Geoff Murphy, regista neozelandese che aveva già dimostrato la propria estraneità al genere dirigendo tre anni prima "Young Guns II". Anche qui non sembra avere le idee molte chiare su come andrebbe diretto un western, visto che insiste su un tono grottesco poco congeniale al racconto, difetto già era presente in "Young Guns II", e soprattutto dimostra uno scarso senso del paesaggio, difetto non da poco per un film interamente ambientato in esterni desertici. Così il film non sfrutta le belle potenzialità della sceneggiatura di Red, finendo per sottolinearne piuttosto alcuni difetti, come alcune svolte narrative tagliate con l’accetta.

Al di là dei suoi evidenti limiti la pellicola riesce comunque ad essere un divertente filmaccio vecchio stile, a cui la grossolanità della regia e la povertà del budget donano una sua brusca efficacia e una probabilmente involontaria sobrietà. Pian piano il gioco al massacro acquista un suo fascino violento, con l'alternarsi ironico di alcuni dei più triti luoghi comuni (ad esempio una pallottola fermata da una fiaschetta di metallo o un personaggio che viene ucciso mentre fa progetti sul futuro) e scene abbastanza sorprendenti nella loro crudezza, almeno considerando l'autocensura del panorama televisivo dei primi anni 90. Se il personaggio di Rourke non ha certo la statura dell’autostoppista assassino di Rutger Hauer in The Hitcher, nelle ultime scene riesce comunque a diventare una presenza inquietante e ambigua. Ottima la resa dei conti finale, di un'asciuttezza ammirabile per questo genere di film, dai finali spesso inutilmente ridondanti.


Tornando ad Eric Red, nel 1996 scrive e dirige due modesti film TV, l’horror licantropo Luna Mortale e il thriller Preso in trappola, opere che certo non fanno bene alla sua carriera, che però sta per essere stroncata da motivi ben più gravi. Infatti, in una davvero sinistra coincidenza tra arte e vita, nel 2000 Eric Red causa un terribile incidente stradale in cui rimangono uccise due persone. Red tenta inizialmente il suicidio tagliandosi la gola con un bicchiere rotto, in seguito si da alla latitanza, viene processato in contumacia e condannato a pagare un milione di dollari di risarcimento alle famiglie delle vittime. Durante il processo l'accusa tenta di dimostrare l’indegnità di Red come persona portando ad esempio le sue storie violente e morbose. Nel 2008 torna alla regia con Perimetro di paura, un altro horror di serie B abbastanza trascurabile, ma con qualche idea non male.

giovedì 26 aprile 2012

i film 24 - Dollar for the Dead



1998 Dollar for the Dead di Gene Quintano
con Emilio Estévez, William Forsythe, Joaquim de Almeida,  Ed Lauter, Jonathan Banks 

Forse l’ultima, di sicuro l’ennesima, follia cinematografica del mai troppo sia lodato Tony Anthony, che nel 1998 evidentemente pensava che avesse ancora un senso produrre un folle (appunto) tentativo di girare uno spaghetti western americano in Almeria. 

Un titolo del 1998 si direbbe roba recente, eppure parliamo di un'epoca in cui Emilio Estevez poteva essere ancora considerato un quasi-divetto del cinema americano (e proprio dopo questo film si dedicherà soprattutto alla carriera di regista), un'epoca in cui capitava spesso di imbattersi in caratteristi come il simpatico William Forsythe (che era stato un ricercato: ufficialmente morto per Walter Hill, tra le tante cose di culto della sua carriera) e il meno simpatico Joaquim de Almeida (il cattivo del "Desperado" di Rodriguez con Banderas), e dove se già allora faceva un certo effetto rivedere le facce invecchiate e mitologiche di attori come Ed Lauter e Jonathan Banks, "i" cattivi di centinaia di film e telefilm degli anni 70 e 80, non era niente in confronto alla profonda nostalgia che quelle facce evocano oggi.


Cosa combinavano dunque in quei sorprendentemente remoti anni 90 il produttore Tony Anthony e il suo amico, regista e sceneggiatore Gene Quintano? Mettevano in piedi un film per la tv che portava alle estreme conseguenze le coreografie di morte, acrobatiche e surreali, di film come "Ancora vivo" di Walter Hill (flop commerciale già di suo... tanto per andare sul sicuro) e il cinema d'azione orientale, con naturalmente un occhio di particolare riguardo ai film di John Woo. Assistiamo quindi a sparatorie interminabili e deliranti, dove i morti cadano a grappoli, le pistole non finiscono mai i colpi e le leggi della fisica sono abolite insieme a quelle della statistica, con i protagonisti fanno centro ogni volta che sparano, mentre i cattivi sparano come forsennati ma non beccano mai nessuno, e se beccano uno dei protagonisti al massimo lo feriscono. Il tutto commentato da una colonna sonora a base di citazioni morriconiane, pezzi d'opera e musica sacra.
Ovviamente i confini della parodia sono spesso e volentieri superati, con un gusto dell'eccesso che può anche infastidire e respingere. Ma se si sta al gioco c'è da divertirsi, con gli stuntman che danno grande spettacolo (saranno gli stessi di 800 Balas?), esagerazioni da cartone animato, ma pure una certa eleganza nella messa in scena. 

Divertente anche cogliere il profluvio di citazioni dai classici più o meno noti, anche se a volte il confronto con gli originali può risultare controproducente. Come nella scena in cui i protagonisti salvano un tizio dalla fucilazione usando della dinamite, sequenza ovviamente ripresa da "Giù la testa", ma che senza le atmosfere rarefatte di Leone non può che risultare grossolana. O soprattutto la gran sparatoria finale, che vede tutte le fazioni del film (protagonisti vs rurales vs giubbe blu vs guerriglieri confederati) accopparsi a vicenda, in una sequenza che rimanda ovviamente al massacro de "Il mucchio selvaggio", confronto inevitabilmente micidiale, anche perché fa emergere gli evidenti limiti produttivi di "Dollar for the Dead".


Ciò che fa da contorno alla sparatorie è meno interessante e divertente. La solita storiella di una mappa del tesoro divisa tra vari personaggi che va ricomposta, e un accumulo eccessivo di personaggi e linee narrative. A livello di trama tira aria di certe cose del primo Castellari, stile "Vado... l'ammazzo e torno" (per altro esplicitamente citato in una scena in una chiesa), con meno ironia nella caratterizzazione dei personaggi (che potrebbe essere un bene), ma anche molto meno cinismo (che invece è sicuramente un male). Soprattutto, rispetto ai magnificamente laconici film con Tony Anthony dei 60 e 70, in questo i personaggi parlano e discutono troppo, in scene di dialogo la cui piattezza fa saltare all'occhio la committenza televisiva. 

Si potrebbe anche discutere dei buchi nella trama o dell'inadeguatezza di Estevez come protagonista, ma ha poco senso continuare ad elencare i difetti di un film simile, uno di quelli da pigliare o lasciare senza mezze misure. Se lo si piglia, è da accettare con tutti i suoi difetti da b-movie fuori dal tempo, orgoglioso di non avere un pubblico a cui rivolgersi, cialtronamente entusiasta di essere arrivato con trent'anni di ritardo e messo insieme con sgangherata vitalità. Ennesimo omaggio al genere di un americano innamorato dei western all'italiana come davvero pochi italiani lo sono stati.

martedì 24 aprile 2012

le monografie 6 - Silver

SILVER
Il detective assassino



Forse per via del nome poco evocativo, che per altro non compare in nessuno dei titoli dei suoi film, Silver è un dimenticato personaggio degli spaghetti western, precursore nell'abbigliamento, nel carattere e persino nell'iniziale del nome dei molto più celebri Sartana e Sabata. Personaggio non trascurabile però, anzi protagonista di una trilogia di tutto rispetto, pur dall’andamento qualitativo in calando. I suoi tre film sono un’originale e divertente miscela di western, noir e giallo, con una particolare attenzione per quest’ultimo genere, con l’identità dell’assassino che ogni volta viene svelata solo nel finale.

Non molto più ricordato del suo personaggio è l’attore tedesco Peter Lee Lawrence, piccola star di serie B dell’epoca, biondino dall’aria gelida e inquieta, dotato di fascino, carisma e di una notevole presenza scenica, scomparso molto giovane a causa di un tumore al cervello.


1967 KILLER CALIBRO 32
di Alfonso Brescia con Peter Lee Lawrence, Hélène Chanel, Agnès Spaak, Alberto Dell'Acqua, Jenny Slade, Andrea Bosic, Nello Pazzafini

All’inizio del film dei poveri minatori sfruttati pagano Silver per uccidere il loro padrone. Nel resto del film deve invece scoprire l’identità dei componenti di una misteriosa banda di rapinatori che ha massacrato i passeggeri di una diligenza, per poi poterli ammazzare uno ad uno. Silver è insomma un vero e proprio killer prezzolato, che alla bisogna si improvvisa detective per scoprire chi deve uccidere.
Film molto divertente, colorato e ritmato, serie B di classe. Probabilmente la miglior prova di Peter Lee Lawrence (ottimamente doppiato) nel genere western e presumibilmente il miglior film del famigerato tuttofare Antonio Brescia, che aveva già diretto Lawrence nel precedente "I giorni della vendetta" e che qui, con a disposizione un budget meno miserabile dei suoi soliti, dimostra che forse una certa verve ce l’avrebbe anche avuta.
La storia, scritta dallo sceneggiatore e inventore del personaggio Enzo Gicca Palli, mescola piuttosto abilmente i meccanismi del giallo con l’ironia da commedia e la violenza del noir, in una girandola di tradimenti, doppi e tripli giochi. Il punto di forza del film è il fascino cinico e imperturbabile di Silver, capace di farsi pestare a sangue con il sorriso sulle labbra o di freddare senza pietà un ragazzo dopo aver scoperto che lo ha tradito. Il calibro 32 del titolo è quello della sua pistola, che lui dice di prediligere rispetto al classico calibro 45 perché fa ferite “dignitose, nette, una vera gioia per gli occhi!”. Ad ogni buon conto lo vediamo far fuori metà dei nemici piantandogli un coltello in gola.
Cast di caratteristi anonimi, ma efficaci e un notevole reparto femminile, con la bella francesona Hélène Chanel che fa la sciantosa e la sempre molto caruccia Agnès Spaak (sorella della più celebre Catherine) che fa la candida ingenua. Bella la colonna sonora con caratteristico pezzo fischiato e qualche furtarello al Morricone de “Le pistole non discutono”.


1967 KILLER, ADIÒS (Winchester uno su mille)
di Primo Zeglio con Peter Lee Lawrence, Marisa Solinas, Eduardo Fajardo, Rosalba Neri, Nello Pazzafini, Victor Israel

Stavolta il nostro (anti)eroe torna al paesino natio, da dove in gioventù era stato scacciato per la cattiva abitudine di accoppare la gente prima di farla parlare; vizietto che non ha per nulla perso e lo metterà ancora nei guai. Il paese è un covo di serpi, dove agisce un misterioso assassino, che tiene in pugno mezza città con il ricatto e tenta di intorbidare le acque usando per i suoi delitti un winchester speciale (il “Winchester uno su mille”, un altro titolo con cui è conosciuto il film), un indizio che accuserebbe il bullo del paese che lo possedeva.
Meno spigliato del precedente, anche per via della regia più classicheggiante dell’anziano Primo Zeglio, ma il mix tra giallo, noir e western funziona ancora benissimo e il film è un altro piccolo gioiellino. Non ci si annoia tra omicidi, misteri, attentati, sospetti, indizi e improbabili ma efficaci colpi di scena. Decisamente originale, soprattutto, la presenza del mefistofelico e invisibile assassino, specie di Keyser Söze ante litteram, la cui identità per quanto abbastanza assurda non rappresenta comunque una grande sorpresa per lo smaliziato spettatore moderno.
Il protagonista, tra uno scampato attentato e l’altro, si divide tra un’antica fiamma diventata un po’ puttana (Rosalba Neri con monumentale parruccona rossa - al suo solito farà una bruttissima fine) e la figlia dello sceriffo (Marisa Solinas). I brividi sexi vengono imprevedibilmente da quest’ultima, che è sì verginella, ma decisamente poco innocente visto che tenta di sedurlo per tutto il film, anche con il classico espediente del bagno nello stagno. E purtroppo nel finale riesce pure a strappargli una proposta di matrimonio.
Anche se ha un nome diverso, Jesse, il protagonista è palesemente sempre Silver: stesso attore, stesso doppiatore, stesso modo di fare, stesso identico look, stesso cappello con nascosta un’ arma, giusto solo un po’ meno strafottente e un po' più coinvolto. Probabilmente il nome Silver non fu usato per evitare di pagare i diritti al creatore del personaggio Gicca Palli, esromesso dalla produzione, o per chissà quale altra losca ragione.


1971 IL VENDITORE DI MORTE
di Enzo Gicca Palli. Con Gianni Garko, Klaus Kinski, Franco Abbina, Gely Genka, Giancarlo Prete, Luciano Lorcas, Alfredo Rizzo.

Silver torna in scena per la terza e ultima volta qualche anno più tardi, interpretato da un sornione e bondiano Gianni Garko e diretto proprio dal suo creatore Gicca Palli. Ancora una volta un film gustosamente “pulp”, anche se un po’ inferiore ai due precedenti con Peter Lee Lawrence.

"Del tutto immeritata per quanto mi riguarda la cattiva fama che circonda questo curioso spaghetti di Gicca Palli: io l'ho trovato uno spassosissimo frullato di western, giallo, commedia e thriller (il cruento incipit è girato interamente in soggettiva) diretto con brio e gusto, capace di divertire ed intrattenere lo spettatore per novanta minuti senza cedimenti. Tutto quello che si chiede ad un buon film di genere, insomma. [...]
Con l'ingresso di Garko si attua ovviamente una sostanziale fusione tra i personaggi di Sartana e Silver, che finiscono per identificarsi: il Silver de "Il venditore di morte" è sostanzialmente un Sartana meno serioso e più aristocratico, ma che non ha perso il gusto per i trucchi da prestigiatore ed i gadget da 007 ed ha mantenuto intatto il cinismo di fondo. Al di là delle sottili distinzioni comunque Garko funziona benissimo alla pari del resto del cast, con la solita citazione di merito per Kinski che, seppur poco presente, ruba la scena ogni qual volta è inquadrato.
Bella l'ambientazione cittadina, spesso notturna, e la descrizione dei cittadini ipocriti e pieni di scheletri nell'armadio che si affannano nella ricerca di un colpevole tocca punti di sana e pungente cattiveria. Certo, non ci vuole un genio per arrivare alla soluzione dell'intrigo ma la sceneggiatura è svelta e spumeggiante al punto da far dimenticare banalità e incongruenze, puntando tutto sulla verve dei personaggi, tutti ben delineati e coerenti. La comicità non mi è parsa mai becera, anzi sempre misurata e ben inserita nel contesto. Unica concessione all'ormai dilagante fagioli è l'enorme scazzottata tra un gruppo di cercatori d'oro, ma è talmente improvvisa ed ingiustificata da risultare quasi surreale. Gran merito per la costruzione dell'atmosfera ambigua e corrotta che ammanta la cittadina va dato alla bellissima fotografia di Franco Villa.
Tutto sommato ha le carte in regola per diventare un piccolo cult." (Paolo D'Andrea)

domenica 22 aprile 2012

i film 23 - Yankee (L'americano)

1966 YANKEE (L’AMERICANO) di Tinto Brass, con Philippe Leroy, Adolfo Celi, Mirella Martin, Tomas Torres, Vàctor Israel, Valentino Macchi



Il più pop e situazionista dei western italiani, diretto come fosse un fumetto da Tinto Brass – al suo primo e unico western – nel periodo in cui era in gran vena di sperimentazioni e rivoluzioni sul linguaggio, prima di perdersi dietro i suoi famosi culi.
Capito intelligentemente e in anticipo sui tempi che gli spaghetti leoniani altro non erano che esagerazioni fumettistiche dei classici americani, di cui esasperavano e ingigantivano personaggi e situazioni, Brass decise di percorrere questa strada fino in fondo, realizzando un film strutturato con inquadrature come fossero vignette disegnate, con primi piani ravvicinatissimi, particolari ingranditi a dismisura, personaggi stilizzati, bidimensionali e quasi caricaturali (a cominciare dai nomi: lo Yankee e Il grande Concho) e dialoghi fittissimi, implausibili e in forma di sentenza (pieni di esclamazioni alla Tex Willer tipo sangre y muerte!), il tutto mescolato da un montaggio serratissimo e d’avanguardia.



Una pellicola professionalmente e tecnicamente ineccepibile, grazie alla regia raffinata e di gran classe di Brass, che si sbizzarrisce in angolazioni di ripresa assurde e inusuali, alle scenografie ispirate alla pittura surrealista, alla bella fotografia di Alfio Contini e alla musica con fischio di Nini Rosso.
Peccato che l’opera sia stata manomessa dal produttore, che spaventato dal risultato troppo bizzarro tolse il film al regista in sala di montaggio – e per un cinema fatto di puro stile e linguaggio come quello di Brass il montaggio è forse la cosa più importante, infatti il regista veneziano se ne è occupato personalmente in tutti i suoi film – rendendolo molto più classico e aggiungendo diversi campi totali, che non dovevano esserci nelle intenzioni del regista (che cercò senza riuscirci di togliere il suo nome dal film finito, e lo ha sempre disconosciuto). La cosa in effetti si nota perché a fronte di sequenze suggestive e innovative ce ne sono altre più convenzionali in cui il film scende di tono.



Il risultato, ad ogni modo, è un film curiosissimo, un connubio – non sempre completamente riuscito – tra il western leoniano e il film d’autore, con improvvisi guizzi di crudeltà sadica e scene di sottinteso e ambiguo erotismo, che già prefigurano il Brass che verrà.
Da vedere assolutamente, se non altro per capire la genialità e la libertà creativa del cinema italiano del tempo.

venerdì 20 aprile 2012

le monografie 5 - Ringo

RINGO
...è una questione di principio!

Non molto tempo fa, nella monografia dedicata ai film di Sartana, si lamentava la poca avvedutezza dei produttori di western nostrani che, non curandosi di registrare legalmente il nome dei personaggi-simbolo del genere, diedero il via libera alla realizzazione di uno sproposito di sottoprodotti spuri miranti a cavalcare l'onda lunga del successo dei prototipi. Il discorso è quanto mai valido anche per Ringo, il primo grande nome-icona del western italiano; dopo le due pellicole "ufficiali" dirette da Duccio Tessari, interpretate da Giuliano Gemma e prodotte dal terzetto Ercoli-Pugliese-Balcázar - di cui ci occupiamo in questo articolo - i film con un "Ringo" piazzato alla bell'e meglio nel titolo sono una diecina abbondante, senza contare gli innumerevoli casi in cui il sunnominato appellativo veniva magari evitato in sede di locandina ma puntalmente affibbiato dagli sceneggiatori, come un ammiccante epiteto, ai vari protagonisti dei propri copioni.


Il Ringo vero è però, a ben vedere e stringendo al massimo, soltanto quello scanzonato, furbesco e bambinescamente violento del primo film. Anzi, il vero Ringo è in fin dei conti semplicemente un volto, quello di Giuliano Gemma. Innanzitutto perché già il dittico originario presenta forti contraddizioni interne, ed è difficile pensare a due film piú diversi fra loro di Una pistola per Ringo e Il ritorno di Ringo: tanto il primo è scattante e allegramente amorale quanto il secondo è grave e pomposamente tragico. In secondo luogo perché quello di Gemma e Ringo è uno dei casi di identificazione attore-personaggio piú fortunati del cinema italiano: nella sua carriera western, a parte qualche caso isolato, il romano non farà che ripetere, sotto altre spoglie, l'inconfondibile atteggiamento del suo primo grande ruolo.


«Ringo è un personaggio formidabile, non meno innovativo del pistolero senza nome di Eastwood. Chiacchierone e faccia tosta, cinico e beffardo, uccide piú per gioco e divertimento che per altri scopi: dice tutto del personaggio la sua memorabile entrata in scena, una sequenza in cui, mentre gioca alla campana con dei bambini, uccide quattro uomini per una sorta di dispetto infantile. È il discendente dei ruoli piú canaglieschi di Kirk Douglas e Burt Lancaster, ma con una leggerezza, un'imperturbabilità e un'aria giovanile che quei personaggi non avevano.» (T. S.)


***


1965 UNA PISTOLA PER RINGO di Duccio Tessari. Con Giuliano Gemma, Fernando Sancho, Lorella De Luca, Nieves Navarro, Antonio Casas.


«Anche se gli preferivo il piú serio Il ritorno di Ringo, da ragazzino mi piaceva, poi chissà perché con gli anni l'avevo svalutato, ricordandomelo come uno spaghetti troppo classico e frivolo in confronto ai film di Leone. Invece è una pellicola modernissima, tutto giocata sulla rapidità e l'agilità delle scene. Non ricordavo assolutamente l'allegra ecatombe cui si assiste: alla fine ci saranno come minimo una cinquantina di morti. Anche le scene piú atroci sono intinte in uno humour nerissimo: gli autori trasformano in gag anche l'uccisione di ostaggi innocenti, donne comprese. Notevole anche il contrasto tra la violenza del racconto e l'ambientazione natalizia. Spassosissimi i dialoghi, con i tormentoni d'antologia di Ringo: "È una questione di principio!", "Poi ti spiego...", "Se c'è una cosa che non sopporto..." e tutta la serie di citazioni e proverbi storpiati. Gemma è assolutamente perfetto, nella parte della sua vita. Perfetta anche la voce del suo doppiatore, il grande Adalberto Maria Merli. Azzeccatissimo anche il resto del cast: da un incontenibile Fernando Sancho a tutti i banditi ottimamente caratterizzati. Nieves Navarro è piú simpatica e sexy della bambolina Lorella De Luca, che però aveva un personaggio meno melenso di quel che ricordavo. L'onesto e coraggioso sceriffo di George Martin, che in un western americano sarebbe stato il protagonista, qui è un personaggio assolutamente secondario. Poi, per capire la modernità e l'enorme successo di questo film basta confrontarlo con la coeva produzione americana. Non tanto con i pochissimi western seri di un certo rilievo prodotti in quell'anno (Sierra Charriba, Doringo!, I quattro figli di Katie Elder), ma con il trionfo (solo sul suolo americano, però) delle commedie western. Il 1965 è infatti l'anno del successo strepitoso del puerile Cat Ballou, con Jane Fonda e Lee Marvin (premiato anche con l'Oscar), dei bolsi Rancho Bravo e La carovana dell'Alleluja, dell'appena piú vispo Gli indomabili dell'Arizona di Burt Kennedy. Western brillanti che di realmente brillante non avevano nulla, invecchiati malissimo, opachi e pesanti, infarciti di un'ironia senile e melensa. La differenza che passa tra Una pistola per Ringo e quei film è la stessa che passava all'epoca tra un disco dei Rolling Stones e il dischi di Pat Boone.» (T. S.)


1965 IL RITORNO DI RINGO di Duccio Tessari. Con Giuliano Gemma, Lorella De Luca, Fernando Sancho, Antonio Casas, Nieves Navarro.


Passato poco piú di un mese dall'uscita di Una pistola per Ringo, già nel frattempo arrivato a quota 320 milioni di lire d'incasso, i produttori Luciano Ercoli e Alberto Pugliese, decisi a sfruttare al massimo l'ormai dilagante "ringomania", affidarono a Tessari il compito di dirigerne l'inevitabile sequel, dal programmatico titolo Il ritorno di Ringo. I set sono gli stessi del prototipo, il cast praticamente anche: oltre a Giuliano Gemma ritroviamo, seppur in ruoli diversi, Fernando Sancho, Lorella De Luca, Antonio Casas, George Martin e il mitico Pajarito. Il tono e l'impostazione, invece, sono radicalmente differenti - il film infatti nel progetto originale di Tessari avrebbe dovuto intitolarsi L'Odissea dei lunghi fucili, dunque niente a che fare con Ringo. Il ritorno di Ringo è un film serissimo, cupo, violento, dall'andamento lento e solenne, in cui i pochi momenti leggeri sono affidati all'estro di Pajarito: niente a che vedere con il brio, l'agilità e l'ironia del precedente. Lo stesso protagonista, lungi dall'essere il simpatico e temerario scavezzacollo de prototipo, è un uomo maturo, che ha visto gli orrori della guerra* ed è completamente assorbito dalla sua ansia vendicativa, continuamente sottolineata dall'inquietante tic alla guancia sinistra. Il plot - del regista e Fernando Di Leo - è chiaramente ispirato all'Odissea ma sono altrettanto evidenti i richiami al western classico americano - lo sceriffo di Antonio Casas è costruito sul borracho di Dean Martin in Rio Bravo. Confezione di lusso, regia di raffinata eleganza, interpreti adeguati. Continuo tuttavia a preferigli Una pistola per Ringo, forse meno solido ma di certo piú originale e scattante. Bellissime sia la mite Lorella De Luca, moglie di Tessari, che la conturbante Nieves Navarro, fidanzata di Luciano Ercoli. Dopo questo film Tessari dichiarò: "Basta con i film western. Non ne farò più neanche uno". In realtà ne dirigerà altri due.

* In Una pistola per Ringo Ringo sostiene di aver combattuto nella guerra civile, prima per il Sud e poi, visto come si mettevano le cose, con il Nord. Questo configurerebbe Il ritorno di Ringo come un prequel, ma in realtà è soltanto la prova che i due film tra di loro non hanno nulla a che fare e che il titolo ammiccante è soltanto un'abile trovata commerciale dei produttori.


Paolo d'Andrea

giovedì 19 aprile 2012

le monografie 4 - Il Weird Western 3

I western stramboidi usciti negli ultimi anni. Parecchi titoli come si può notare. Anche se da quel che si è potuto vedere e da quel che si può capire la qualità media è tutt’altro che entusiasmante. È evidente che in un blog come questo c'è tutta la simpatia possibile per i film poveri di mezzi e ricchi d’inventiva, ma la deriva amatoriale e dilettantesca verificatasi nel cinema a basso costo degli ultimi anni è abbastanza sconcertante. D’altra parte le poche grosse produzioni, come "Jonah Hex" e "Cowboys & Aliens", nonostante le camionate di dollari spesi, non si può dire abbiano ottenuto risultati molto più brillanti.

Le due puntate precedenti:

Il Weird Western, parte 3


2006 After Sundown
di Michael W. Brown con Susana Gibb, Reece Rios, Natalie Jones, Christopher Abram

Pellicola poverissima, ai limiti dell’amatoriale, come sempre più spesso capita per i film nati direttamente per il mercato video. Prodotti spesso girati da volenterosi dilettanti e in seguito acquistati da qualche casa di produzione in vena di risparmiare. Questo è un tipico film di zombi ambientato nel west moderno (a parte un flashback in bianco e nero ambientato un secolo prima). A dare il via al solito contagio è però una vampira trovata in un cimitero dai soliti incauti e c’è di mezzo pure un vampirone cowboy suo amante. Probabilmente, oltre che come film di zombi, sono più godibili anche come western gli ultimi film di Romero, soprattutto “Survival of the dead”, che è un vero e proprio western travestito.


2006 The Quick and the Undead
di Gerald Nott con Clint Glenn, Toar Campbell, Dion Day, Nicola Giacobbe

Un altro zombie-movie in salsa western. Ai limiti dell’amatoriale pure questo, anche se, rispetto al precedente, girato con relativa maggior professionalità e una virgola più di mezzi. Stavolta l’ambientazione sarebbe quella di un selvaggio west situato in un ipotetico futuro, con la terra dominata dagli zombi, le moto al posto dei cavalli e il protagonista che è una specie di bounty killer uscito da uno spaghetti western, ovviamente specializzato nel far fuori cadaveri deambulanti. Potabile filmetto, che ha il merito di non prendersi troppo sul serio, ma anche quello di non sbracare nel trash più fastidioso. L’idea di fondo anticipa il decisamente più divertente e riuscito “Benvenuti a Zombieland” con Woody Harrelson, del 2009: a volte, forse più spesso di quanto si voglia ammettere, che un film sia un ricco prodotto hollywoodiano non è un demerito.


2007 Shiloh Falls
di Adrian Fulle con John Bader, Steve Bannos

Se per i film precedenti c’era il dubbio, per questo si può tranquillamente parlare di una pellicola realizzata con un budget amatoriale, sempre a favore del mercato dei dvd in affitto. Nel 1892, dei fuorilegge in fuga, inseguiti da uno sceriffo e il suo vice (padre e figlio), capitano in una strana città semi-abbandonata, abitata da cittadini zombie e governata da un’entità soprannaturale che si nutre di anime. Da quel che si legge in giro, lo spunto è simile a quello del già soporifero "Purgatory" e anche qui pare si chiacchieri troppo, inoltre la trasandatezza dilettantesca della messa in scena dovrebbe essere oltre i limiti del sopportabile. Dal trailer che si trova in rete non sembrerebbe così terribile, ma non sembra comunque molto interessante in generale, anche al di là dei limiti produttivi. 


2007 Sugar Creek 
di James Cotten con Dustin Alford, Jeff Bailey, Jackson Burns, James Cotten 

Ennesima pellicola dalla messa in scena sempre pericolosamente al limite dell'amatoriale. Stavolta però niente zombi e vampiri, va di scena invece un racconto oscuro e pentecostale dagli echi addirittura biblici, tra il simbolismo dei racconti Hawthorne e la fiaba crudele alla “Sleepy Hollow” di Washington Irving. Siamo nel periodo della Guerra di Secessione (molto gettonato nel filone) e il protagonista, Adam, viene misteriosamente trascinato in giro in una bara non si da chi. Dopo essere stato liberato dal suo stesso aguzzino scopre di essere minacciato da un’inquietante figura, quella di un misterioso cavaliere mascherato armato di ascia, che lo caccerà per tre giorni e ucciderà chiunque lo aiuterà. Oltre a fuggire Adam dovrà fare i conti con la sua coscienza, scoprendo di dover espirare qualcosa riguardante quello che ha fatto, o non ha fatto, nel suo passato. Chissà… sulla carta sembrerebbe parecchio interessante e dal trailer non sembrerebbe fatto neanche male, nonostante gli evidentissimi limiti di budget. Sicuramente qualcosa di diverso. 


2007 Left for Dead
di Albert Pyun con María Alche, Soledad Arocena and Andres Bagg 

Alla ricerca di suo marito, la pistolera Clementine (sic) incontra un gruppo di prostitute assassine, che hanno addirittura sterminato tutto un paese, compreso un predicatore e sua moglie incinta. Insieme entrano in una città deserta dove ad attenderle c'è lo spettro del predicatore in cerca di vendetta. Dopo una serie di film amatoriali, o quasi, un film girato da un regista professionista. Solo che Albert Pyun è considerato da molti uno dei peggiori registi esistenti. In effetti quando uno gira quasi cinquanta film e l'unico vagamente noto è una comunque poco ricordata pellicola con Jean-Claude Van Damme ("Cyborg"), non lo si può definire un gran talento. Questo film è stato presentato come un "horror spaghetti", un incrocio tra i western di Corbucci e "Saw", girato in notevoli location argentine con attori locali, con lo stile cool di film come "Man on Fire" di Tony Scott (montaggio sincopato, colori desaturati, filtri, sfocature, fermi immagini, rallenty) e più che una storia mette in scena un lungo gioco al massacro per spettatori dallo stomaco forte. Mah, più probabile che sia una porcata sadica e misogina, roba per mistici del trash, che non un western gotico dal fascino malato, ma non si può mai dire. 


2007 Undead or Alive - Mezzi vivi, mezzi morti (Undead or Alive)
di Glasgow Philips con Chris Kattan, James Denton, Navi Rawat, Matt Besser 

Ancora zombi nel vecchio west, in un film il cui tono è facilmente immaginabile dal demenziale sottotitolo italiano. E ancora una produzione a basso budget, cosa che si nota dalla povertà delle scenografie, ma stavolta per fortuna ci troviamo di fronte ad prodotto normale e professionale, infatti giunto anche dalle nostri parti. Un cowboy vagabondo, un disertore e una sexy indianina sul sentiero di guerra (la notevole Navi Rawat) devono far fronte comune ad una maledizione zombesca lanciata contro l’uomo bianco nientemeno che da Geronimo. Esordio alla regia di uno sceneggiatore di South Park, che combina western e horror sulla scia demenziale (e deleteria) de "L'alba dei morti dementi" e il trash consapevole e rivisitato dell’accoppiata Tarantino e Rodriguez. Il risultato della miscela è un film superficiale ma divertente, popolato da simpatiche macchiette. L’ironia e le gag sono di grana grossa, ma è per fortuna evitata la volgarità fine a se stessa di tanti prodotti analoghi. Un sano vecchio b-movie. 


2007 BloodRayne II: Deliverance
di Uwe Boll con Natassia Malthe, Zack Ward, Chris Coppola, Michael Eklund, Michael Parè 

Col cappottone nero di pelle, delle armi da taglio tamarre, l'ombelico in vista e la tipica inespressività da fotomodella dell’attrice che la interpreta, una bonissima dampyr capita nel vecchio West in cerca di vampiri e si imbatte niente poco di meno che in un Billy the Kid vampiro (e pedofilo), a capo di una banda di vampiri che terrorizza il villaggio di Deliverance. Per sconfiggerlo costituirà un suo mucchio selvaggio, comprendente l’immancabile Pat Garrett (un irriconoscibile Michael Paré), un prete cialtrone e un buzzurro. Potrà sembrare incredibile, ma il film è molto meno peggio di quel che si può immaginare. Il primo BloodRayne è un horror transilvanico traboccante cattivo gusto e tratto da un videogame. Questo non c’entra praticamente niente, ha un'attrice protagonista completamente diversa e a conti fatti è proprio un western. Con la sua sobria povertà da filmaccio d'altri tempi sembra roba girata quarantacinque anni fa, magari in Italia. La parte action e vampiresca viene quasi trascurata (anche per ragioni di budget) ed è messo in scena un West innevato, grigio e notturno di una certa efficacia. Certo non si corre il rischio di confonderlo con "Pat Garrett e Billy The Kid", ma non è neppure "Billy the Kid vs. Dracula"


2007 Inferno Bianco
di Emiliano Ferrera e Stefano Jacurti con Emiliano Ferrera, Alessandro Grande, Eleonora De Bono, Stefano Jacurti 

"Western-horror realizzato con pochissimi mezzi ed enorme passione. Va da sé che si tratta di un film amatoriale, senza attori professionisti e senza pretese commerciali (è costato la bellezza di 6.000 euro!), quindi qualsiasi giudizio critico sarebbe ovviamente fuori luogo. Mi limito a dire che la cosa che mi è sembrata più notevole è la bella fotografia in bianco e nero di Cosimo Fiore (che figura anche attore, come tutta l’altra dozzina di persone coinvolte nella realizzazione della pellicola), che riprende benissimo l’ambiente invernale e gli scenari innevati del Gran Sasso d’Italia, che a loro volta trasmettono efficacemente l’idea dell’Oregon della fine dell’ottocento, periodo nel quale il film è ambientato, con un processo non dissimile da quello effettuato da Sergio Corbucci con le Dolomiti ne Il grande silenzio. I riferimenti storici del resto sono curati e precisi, e anche i costumi e le armi sono autentici e d’epoca, anche perché appartengono alla collezione privata dello stesso Jacurti, grande appassionato del genere. Molto interessante anche la sceneggiatura dello stesso Stefano, che mescola il western, realistico e spogliato da ogni connotazione romantica, con l’horror delle leggende indiane e del windigo, con delle atmosfere che ricordano un po' "L’insaziabile"di Antonia Bird. La storia è quella di un eterogeneo gruppo di scout e pistoleri sperduto nelle montagne, guidato da un archeologo alla ricerca di una misteriosa valle piena di fossili, ma dove c’è anche “qualcosa” di pauroso che lo attende. Lo script di Jacurti non lesina sui colpi di scena, che diventano forse addirittura troppi nel convulso finale. Anche certi dialoghi appaiono un po’ forzati e innaturali, quasi volutamente sopra le righe. La cosa che mi ha convinto di meno, invece, è senza dubbio il doppiaggio, o meglio la mancanza dello stesso (credo che il film sia stato girato in presa diretta): le voci di molti degli interpreti sono infatti abbastanza inadeguate e contribuiscono a non togliere, durante la visione, la sensazione del piccolo film indipendente a low budget. La recitazione degli attori, tra cui gli stessi registi Stefano Jacurti e Emiliano Ferrera - quest’ultimo un sosia praticamente perfetto di Clint Eastwood - del resto è molto teatrale (cosa inevitabile visto che quasi tutti gli interpreti provengono appunto dall’ambiente del teatro) e ovviamente un po’ improvvisata, ma un doppiaggio professionale avrebbe senza dubbio contribuito a migliorarla e a dare al film una resa più “cinematografica”, anche perché le facce invece sono quelle giuste. Quasi interamente girato in esterni, nei fine settimana e nei ritagli di tempo e in condizioni proibitive a dieci gradi sotto zero, il film dura quasi un’ora e mezza e in pratica è il primo lungometraggio western realizzato in Italia da parecchi anni a questa parte. Sarebbe da applaudire a scena aperta e a prescindere solo per il grande lavoro e l’enorme passione che lo sottintende." (Mauro Mihich) 


2008 Copperhead di Todor Chapkanov con Brad Johnson, Keith Scaduto, Brad Greenquist, Wendy Carter, Billy Drago

L'abituale cavaliere solitario arriva nell'abituale paesino isolato, dimostrando subito di essere un eroe. Gli toccherà organizzerà la difesa da un'invasione di serpenti assassini. Piacevole l’atmosfera western della prima parte, anche se c’è una tale abbondanza di cliché da sfiorare la parodia. Le produzioni televisive western di questo tipo in genere si distinguono per una certa sciatteria nelle scenografie e nella cura dei dettagli, invece in questa l’ambientazione e i costumi sono credibili e ben curati. Molto meno curata la seconda parte, tutta basata sulla lotta tra i cowboy e i serpenti. I rettili sono in tutta evidenza un dozzinale effetto computerizzato e nel finale compare un terribile serpentone gigante. Comunque, se si sta al gioco, è un tale profluvio di botti e spari che ci si può divertire. Il modello è "Tremors" e come ne "Gli uccelli" di Hitchcock non viene data nessuna spiegazione sul comportamento degli animali. 


2008 Six Reasons Why
di Jeff e Matthew Campagna con Dan Wooster, Colm Feore 

Un altro prodotto praticamente amatoriale, ma con velleità artistiche. Esteticamente si rifà ai western nostrani, ma con suggestioni da opere fantasy come "L'ultimo cavaliere" di Stephen King, da cui forse riprende l’idea di un western ambientato in un futuro post-apocalittico. Un misterioso pistolero, oscuramente legato ad una città in rovina e ad un cavallo bianco di cui sembra schiavo, uccide tutti quelli che cercano di attraversare il deserto, di cui è una sorta di custode. Farà la conoscenza con un uomo nerovestito che lo aiuterà a fuggire dal cavallo e accetterà di guidare attraverso il deserto due viaggiatori. Tutti contro tutti nella sfida finale. Film dalle ambizioni mistiche, dai molti simboli e dai tempi dilati, punteggiato da flashback enigmatici e citazioni importanti (Leone soprattutto). Ambizioni che cozzano contro la miseria del budget, con attori non professionisti piuttosto imbarazzanti e palesemente fuori parte, una regia che alterna raffinatezze d’autore ad espedienti da morti di fame. Mai come in questo caso il giudizio del film dipende tutto dal grado di disponibilità di chi guarda. 


2008 The Burrowers
di J.T. Petty, con Karl Geary, Jocelin Donahue, Clancy Brown 

Dopo tanti filmetti, finalmente un film che meriterebbe di diventare un cult, non solo del filone in preso in esame. Un film di genere intelligente e serio, dalla regia raffinata e sinuosa, che nobilita una trama apparentemente poco interessante, una specie di variante cupissima e dark di "Tremors", ambientato in un West sospeso e rarefatto, alla "L'assassinio di Jessie James per mano del codardo Rober Ford". 
"Davvero una bella sorpresa: un buonissimo western-horror, che si inserisce nel cross-genre ora molto di moda, ma che quasi mai dà risultati decenti. Particolarmente interessante soprattutto perché è la cornice western a essere predominante rispetto a quella horror: per tutta la prima ora, infatti, è un western vero e proprio, peraltro molto duro e violento, con tutti gli elementi deputati del genere, come la ricerca dei rapiti (solo che i rapitori, come si scoprirà, non sono indiani, ma qualcosa di ben più terrificante), il territorio ostile, il plotone di soldati (dipinti come tanti pazzi sanguinari), gli esperti frontierman, gli scontri a fuoco e i bivacchi notturni."
"Ma anche il finale horror è gestito molto bene, tanto che il film regge benissimo fino alla conclusione, il momento di solito in cui le operazioni di questo tipo si squagliano come neve al sole. Il senso di minaccia e suspense, invece, è molto ben costruito e non accusa cedimenti. Il regista, tal JT Petty, insomma, sembra avere una buona mano. Altre cose apprezzabili il fatto che nessuno dei protagonisti sia particolarmente piacevole o eroico, ma anzi risultino tutti più o meno antipatici, e un far west ottimamente fotografato in toni plumbei e angoscianti. Notevole anche il finale non consolatorio, anzi decisamente pessimista, che per un film presumibilmente indirizzato al pubblico dei teenagers non è poco. In pratica una specie di "Sentieri selvaggi" in versione horror, che sposa anche un punto di vista filoindiano (i Burrowers si cibano di carne umana a causa dello sterminio dei bisonti ad opera dei bianchi). L’idea originale ricorda vagamente Tremors, un geniale filmetto anni ottanta. Tutti sconosciuti, ma assai efficaci, gli attori." (Mauro Mihich)


2009 The Donner Party
di T. J. Martin con Crispin Glover, Clayne Crawford, Michele Santopietro

Per una volta l'orrore non è di origine soprannaturale, ma nasce dalla cronaca storica. In questo caso quella delle sinistre vicende riguardanti la carovona Donner, tragedia che in America fa parte dell’immaginario collettivo ed è conosciuta con il cinico nomignolo del titolo. Ecco quindi la storia di quella carovana di pionieri disgraziati, che nel 1846 rimasero bloccati dalla neve sulle montagne e che la fame spinse al cannibalismo. Girato nei veri luoghi in cui accadde il fattaccio, è un fosco docu-dramma storico che corre continuamente il rischio di sembrare una di quelle ricostruzioni edulcorate e posticce dei programmi divulgativi. Anche perché - lo dobbiamo notare e scrivere per l’ennesima volta - il budget è visibilmente misero, nonostante la presenza di un attore di un certo nome come Crispin Glover. Comunque di tipicamente western non c'è quasi nulla. 


2009 Dead Walkers 
di Spencer Estabrooks con Michael Shepherd, Cheryl Hanley, Brendan Hunter

Non è un vero film, ma un cortometraggio candese di un quarto d’ora. Ma visto che chi scrive se n’è accorto solo dopo aver perso un bel po' di tempo cercando di procurarselo e cerandone notizie ed immagini, lo cito comunque. Ancora zombi nel West e confezione amatoriale quindi, ma sulla corta distanza dei 14 minuti la cosa potrebbe avere un suo senso e suscitare maggior simpatia. 


2009 High Plains Invaders
di K. T. Donaldson con James Marsters, Cindy Sampson, Sebastian Knapp

Probabilmente realizzato per anticipare e vivere del riflesso di "Cowboys & Aliens", poi uscito un paio d’anni dopo, è un filmetto dalla mesta aria televisiva, con quell’aria fasulla stile "Signora del west" nell’ambientazione e nella caratterizzazione dei personaggi. Eppure tutto sommato divertente nel suo essere completamente votato all'azione, con le più classiche situazioni da film d’invasione e assedio che si mescolano con gli altrettanto classici cliché del western. Con la sua aria povera, ma dignitosa, e i suoi tentativi di recupere il clima di certi b-movie degli anni 50, si segnala in fondo come l'ennesima variante di "Tremors", un piccolo film che ha evidentemente avuto una notevole influenza sul cinema fantastico degli ultimi anni. Gli alieni si presentano come un misto tra gli insettoni di "Starship Troopers" e i cosi volanti de "La guerra dei mondi" degli anni 50. 


2010 GalloWWalker
di Andrew Goth con Wesley Snipes, Tanit Phoenix, Riley Smith, Parick Bergin

Sul misterioso pistolero Aman pesa nientemeno che una maledizione divina, chiunque uccide torna come zombi (uff…), tutto perché la mamma suora aveva rinunciato alla sua fede facendo arrabbiare Dio. Boiate pseudo-bibliche a parte, l’idea di fondo era anche piuttosto carina, ma il film sembra la solita solfa di trash "postmoderno", quindi uno di quei film in cui gli autori sembrano mettere continuamente le mani avanti per rassicurare lo spettatore che è solo uno scherzo, che è tutto finto e niente va preso sul serio. Così, per non prendere nulla sul serio, Wesley Snipes ha un pizzo sbiancato che fa più club gay di Ibiza che non pistolero maledetto, i mostri hanno pettinature e costumi che sembrano usciti da un anime giapponese, le scene d’azione il probabile tripudio delle peggiori assurdità. Film dalla produzione tormentatissima, girato nel 2007, rimasto bloccato per anni e poi vittima di una distribuzione fantasma. 


2010 Jonah Hex
di Jimmy Hayward con Josh Brolin, John Malkovich, Megan Fox

"Ovvero come buttare nel cesso la bellezza di 47 milioni di dollari. Uscito la scorsa estate (cioè nel periodo dei grandi blockbuster) in ben 2800 sale degli Stati Uniti il film ne ha raggranellati poco più di 5, conquistandosi l’ambito titolo di western più fallimentare della storia del cinema insieme a I cancelli del cielo. Difficile dire cosa possa spinto il pubblico a disertare in massa le sale visto che il film è si brutto, ma non più di tante altre boiate tratte dai fumetti che invece incassano miliardi. 
Probabile che il micidiale intruglio composto da western, horror, pulp, steampunk, cinecomics e chi più ne ha più ne metta si sia rivelato un minestrone troppo difficile da digerire anche per la bocca buona del pubblico di mangiatori di popcorn a cui il film era evidentemente destinato, oppure che il fatto che il protagonista oltre che orrendo sia pure antipatico abbia impedito qualsiasi possibilità di empatia ed identificazione da parte dei suddetti spettatori. Potrebbe aver influito anche il divieto ai minori di 13 anni (che per un film tratto dai fumetti deve essere una mazzata mica da poco) affibbiatogli dalla MPAA, a causa delle “intense sequences of violence and action, disturbing images and sexual content” (ma dove???). Certo, bisogna dare conto che la pellicola ha avuto anche delle vicissitudine produttive mica da ridere, visto che sono stati cambiati registi, sceneggiatori e anche gli autori della colonna sonora, che inizialmente dovevano essere la band heavy metal dei Mastodon, poi rimpiazzata a causa dei continui rimontaggi del film. In effetti la pellicola è molto breve (nemmeno un’ora e un quarto), anche se a causa dello stile videoclipparo con cui è diretta pare duri tre ore, proprio per le difficoltà dovute al riuscire a montare in maniera coerente e accettabile il materiale girato. Non che quello che ne è venuto fuori sia comunque molto coerente, accettabile ancora meno... Josh Brolin, con il viso devastato da un trucco assurdo, recita come può, costretto a tenere la bocca perennemente semiaperta in un ghigno non molto bello da vedersi, e certo il personaggio non gli permette grandi sfoggi di bravura interpretativa, ma è comunque l’unica cosa da salvare del film, e quando sibila qualche battuta tra i denti alla Clint Eastwood riesce addirittura ad essere piuttosto efficace. Megan Fox, non c’è bisogno di dirlo, è la solita gnocca da paura, ma le capacità di recitazione della signorina sono abbondantemente sotto il livello di guardia (del resto con quel corpo probabilmente non ne ha bisogno...). Pietoso velo su Johm passa alla cassa Malkovich, ormai diventato il peggior marchettaro di Hollywood. Girato in Louisiana, mentre la parte iniziale a fumetti se le mie competenze fumettistiche non mi ingannano mi pare disegnata dall’argentino Marcelo Frusin. Non è nemmeno il caso di scandalizzarsi troppo sui numerosi tradimenti operati al fumetto,visto che dopotutto nemmeno quest’ultimo era granché." (Mauro Mihich) 


2011 Cowboys & Aliens
di Jon Favreau con Daniel Craig, Harrison Ford, Sam Rockwell, Olivia Wilde, Noah Ringer, Clancy Brown, Wes Studi

Perché sprecare parole quando qualcuno ha già scritto meglio quello che si vorrebbe scrivere? Il "senso del cappello" per sintetizzare lo sbando del cinema americano di genere (e no) è una metafora che meriterebbe grande fortuna. 


2011 Exit Humanity
di John Geddes con Mark Gibson, Jordan Hayes, Dee Wallace

Ancora zombi (e ancora l'ambientazione durante la guerra civile americana) però stavolta in versione serissima e d’autore. Basta per evitare l'effetto di saturazione creato dalla miriade di film sui morti viventi usciti negli ultimi anni? 1865, a guerra appena finita un reduce torna alla sua casa nelle campagne del Tennessee, ma trova la moglie già trasformata in zombi e il figlio scomparso. Inizierà a cercarlo in un territorio devastato dalla guerra e dall'invasione dei non morti. Racconto pessimista e cupissimo, fin dal titolo sorretto dall’idea che dopo una guerra le persone dovrebbero ritrovare la propria umanità non dimenticando, ma affrontando i propri e altrui morti... in questo caso non metaforicamente. Diretto, scritto e prodotto dal semi esordiente Geddes, è un film curatissimo, con una fotografia raffinata e un bel senso dei paesaggi, un’efficace colonna sonora, costumi credibili e curiosi effetti grafici. Il tutto sorretto da un ottimo cast all’altezza della situazione. Geddes si rifà agli zombi "metaforici" di Romero, ma rischia di superare in serietà anche il maestro, dando al film un ritmo lentissimo e meditativo, presentando degli zombi dal make-up molto sobrio e sacrificando a volte i meccanismi della suspense, in favore dell'approfondimento dei personaggi. Non per tutti i gusti ma sicuramente interessante.

sabato 14 aprile 2012

i registi 11 - Sergio Martino

SERGIO MARTINO
Un regista per tutte le stagioni



Nella meritoria opera di riscoperta e recupero di quel ricco e variegato patrimonio cinematografico e culturale italiano che è stato il “cinema di genere” non ha forse ancora goduto dell’attenzione critica che merita il nome di Sergio Martino, prolifico regista affacciatosi alla ribalta cinematografica all’inizio degli anni settanta che pur non possedendo forse particolari doti di personalità si è dimostrato capace di affrontare con solida e consumata abilità professionale tutte le sfumature del cinema popolare del tempo, realizzando pellicole di grande ritmo e forza visiva.

La sua versatilità gli ha permesso di affrontare con disinvoltura e notevoli risultati tutti i generi in voga negli anni settanta, a partire dal thriller argentiano (Lo strano vizio della signora Wardh, La coda dello scorpione, Tutti i colori del buio, Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho le chiavi e soprattutto I corpi presentano tracce di violenza carnale, piccolo oggetto di culto negli Stati Uniti, dove è conosciuto con il titolo di Torso) per proseguire con il poliziottesco (dove ha dimostrato di essere uno dei pochi autori interessati all’aspetto sociologico e politico delle trame poliziesche, con film come Milano trema: la polizia vuole giustizia, La polizia accusa: il servizio segreto uccide, La città gioca d’azzardo e Morte sospetta di una minorenne) fino all’avventuroso (con la trilogia La montagna del Dio cannibale, L’isola degli uomini pesce e Il fiume del grande caimano), senza dimenticare la sua lunga militanza nella commedia sexy e di costume e nella fiction televisiva, protrattesi fino a pochissimi anni fa.

Purtroppo il regista non ha avuto invece la possibilità di dedicarsi con continuità al western, poiché quando ha iniziato la sua carriera cinematografica il filone stava già imboccando la sua fase discendente, e, oltre a firmare la sceneggiatura di Per 100.000 dollari t'ammazzo di Giovanni Fago, ha consegnato al genere solo due pellicole, entrambe di ottima fattura.

1970 ARIZONA SI SCATENÒ... E LI FECE FUORI TUTTI di Sergio Martino con Anthony Steffen, Rosalba Neri, Aldo Sambrell, Roberto Camardiel, José Manuel Martín, Raf Baldassarre, Gildo Di Marco


Dei due western girati dal solidissimo Sergio Martino tutti si ricordano il secondo, il tardo e crepuscolare Mannaja con Maurizio Merli, ma probabilmente questo suo primo, dimenticato, "spaghetti" è decisamente meglio, molto più compatto e divertente. Rappresenta il ritorno, per una volta non truffaldino, del personaggio di Arizona Colt, protagonista dell'omonimo film, una delle pellicole migliori con Giuliano Gemma. Ma visto che al posto dell'atletico e sarcastico Gemma c'è il marmoreo e statico Anthony Steffen ci troviamo di fronte ad un personaggio molto diverso. L'Arizona Colt di questo seguito è un po' più straccione, un po' meno cinico, molto più indolente e pigro, tanto che sembra prefigurare il personaggio di Trinità. Steffen al solito pare fatto di legno ed ha un' unica espressione, ma compensava i suoi molti limiti recitativi con un'adeguata aderenza fisica ai ruoli che gli assegnavano. In questo film non solo funziona, ma porta a casa una delle sue prove migliori. Dal primo film torna invece il panciuto Caramadiel nel ruolo di Doppio Whiskey, senza più berretto alla Davy Crockett, ma più allegramente alcolizzato che mai. La scena in cui sopravvive a delle ferite mortali scolandosi decine di bottiglie di whiskey non la consiglieremo come pubblicità progresso contro l’alcolismo. Dalla pellicola con Gemma torna anche la sempre conturbante Rosalba Neri, e anche stavolta ci lascia le penne in modo piuttosto brutale. Al posto di Fernando Sancho c'è invece il più misurato Aldo Sambrell, che disegna un cattivo meno folcloristico, ma bastardo e carogna al punto giusto.


Il film sconta una trama abbastanza insignificante, che non suscita grandi interessi, ma nonostante gli evidenti limiti di budget è un film girato molto bene, con una regia ricca di idee e invenzioni. La prima parte ricalca il tono del film con Gemma, riproponendo lo stessa cinica miscela di violenza e commedia. Carina tutta la scena dell’impiccagione in piazza, con un Arizona imperturbabile che si fa impiccare sorridendo e poi se ne va in giro per la città come se niente fosse. Ma è l’ultima mezzora la più interessante, con una imprevista svolta nel melodrammatico e un'atmosfera che si fa triste e violenta. Doppio Whiskey viene massacrato,  Arizona viene torturato e gli uccidono la donna davanti agli occhi. Molti personaggi rivelano delle sfumature insospettate, dell’ambiguissimo personaggio della Neri che fa una gran morte, alla macchietta interpretata del bravo caratterista strabico Gildo Di Marco, che alla fine si scopre essere un personaggio molto più umano e malinconico del previsto. 
Contagiosa la musica di Bruno Nicolai, anche se decisamente troppo allegra in alcuni momenti.

1977 MANNAJA di Sergio Martino, con Maurizio Merli, John Steiner, Donal O'Brien, Sonja Jeannine, Philippe Leroy, Martine Brochard, Enzo Fiermonte


Bel western ecologista diretto quasi come un horror dal bravo Sergio Martino, regista che darà il meglio di sé nel thriller e nel poliziesco.
E’ anche l’unico spaghetti western interpretato dall'eroe di tanti polizieschi Maurizio Merli.
Purtroppo arriva al genere troppo tardi, quando è già morto e quasi sepolto. Il film, infatti, è già un post-western, girato sull’onda del (relativo) successo di Keoma (da quel film arrivano direttamente anche i fratelli De Angelis, autori di tante colonne sonore dei film di Spencer & Hill).
Il film è stato girato nel villaggio western, ormai fatiscente, di Cinecittà e nel Gran Sasso, ma il mestiere di Martino riesce a valorizzare questi scenari, rendendoli un valore aggiunto al fascino del film.


Antonio Bruschini lo ha definito un western medioevale, "per l’atmosfera apocalittica, i paesaggi devastati, nebbiosi e fangosi e il look dei personaggi, più simili a cavalieri medioevali che non ai classici pistoleri della frontiera".
La pellicola è indubbiamente famosa e "di culto" anche per le scene di sadismo e violenza (il Morandini lo liquida così: "sagra sadica di violenza efferata, vietato ai minori di 18 anni, una volta tanto a ragione"). Da antologia in particolare la scena iniziale, dove l’accetta di Merli mozza la mano a un ricercato (il grande Donal O’Brien) dopo un inseguimento nelle paludi.
Il personaggio è stato omaggiato dal regista americano Robert Rodriguez nel fake trailer di Grindhouse - Planet Terror e poi con il film Machete.

Mauro Mihich & Tommaso Sega

venerdì 13 aprile 2012

le monografie 4 - Il Weird Western 2

Prima di riprendere la rassegna in ordine cronologico, torniamo un po' indietro per rimediare a due dimenticanze legate agli anni 70 e 80. Non si tratta però di due titoli western, neanche "weird", ma di un film di fantascienza e di un film fantasy-horror. Parliamo del celebre Il mondo dei robot (Westworld, 1973) di Michael Crichton e del molto meno noto e molto meno riuscito La casa di Helen (House I: The Second Story, 1987) di Ethan Wiley. In realtà nel contesto di questo blog non ci interessa citare tanto i film in sé, quanto piuttosto i due rispettivi villain, personaggi che era doveroso segnalare in una rassegna come questa.


Per quanto riguarda “Il mondo dei robot” parliamo ovviamente del pistolero robot interpretato da un inquietante Yul Brynner. Interpretando questa specie di precursore di Terminator, l’attore ripropone lo stesso personaggio nerovestito de "I magnifici sette" e da vita ad un'icona entrata se non nell’immaginario collettivo quantomeno nell’immaginario di molti appassionati di cinema.


Molto meno noto il cowboy zombie de "La casa di Helen". Il film è un modesto fantasy di serie B a base di buchi spaziotemporali, attraverso i quali protagonisti vengono proiettati in varie epoche e luoghi. Ovviamente finiscono anche nel vecchio west, dove devono fare i conti con un temibile cowboy zombi, personaggio dal riuscito make-up, forse ispirato a Yosemite Sam dei cartoni della Warner Bros e caratterizzato dalla trovata delle pallottole sparate direttamente dall'indice della mano.

Il Weird Western, parte 2


1990 Tramonto (Sundown: The Vampire in Retreat)
di Anthony Hickox con David Carradine, Bruce Campbell, John Ireland

Horror western che anticipa parecchie idee di "Dal tramonto all’alba". Nato sulla scia giocosa e demenziale degli “Evil Dead” di Sam Raimi, da cui è ripreso l’attore simbolo Bruce Campbell, qui nelle vesti di un erede (ovviamente cialtrone) del cacciatore di vampiri Van Helsing. Ai giorni nostri una famigliola si trasferisce in una città nel deserto che si rivela una comunità di vampiri, guidata per loro fortuna da un Dracula pacifista (David Carradine), ma che un cattivo vampiro (John Ireland, veterano di decine di western americani e italiani) vuole riportare alle vecchie cattive abitudini. Gli omaggi al camp di "Billy the Kid vs. Dracula" si mescolano a citazioni dei film di Leone, paesaggi alla John Ford si accompagnano ad un'estetica da video musicali anni 80 stile ZZ Top. Divertente o insopportabile a seconda dei punti di vista.


1990 Grim Prairie Tales
di Wayne Coe con James Earl Jones, Brad Dourif

Film ad episodi, formula per un po' tornata di moda sul finire degli anni 80 in campo horror. Due personaggi, uno scrittore e un cacciatore di taglie (i due grandi caratteristi James Earl Jones e Brad Dourif), si raccontano quattro storie paurose davanti al falò. Tutti i racconti hanno più o meno a che fare con il razzismo e la sopraffazione sociale, e sono basati sul sempre efficace espediente narrativo che mette in scena un sopruso e la conseguente vendetta soprannaturale. Meccanismo tipico dei fumetti horror degli anni 50. Film a basso budget, ma ben fatto e più interessante rispetto a prodotti analoghi, grazie all’insolita ambientazione western e alla carica sociale dei racconti.


1991 Terre desolate (Into the Badlands)
di Sam Pillsbury con Bruce Dern, Mariel Hemingway, Helen Hunt, Dylan McDermott

Rarissimo film televisivo, sulla carta parecchio interessante. È un altro horror western ad episodi, con tre racconti legati dalla presenza di un cacciatore di taglie interpretato da Bruce Dern. Notevole dovrebbe essere la rappresentazione di un west brutto, sporco e fatalista, che anticipa la visione del Clint Eastwood de “Gli spietati” dell’anno successivo. Una sorta di “Ai confini della realtà” in salsa western, dai toni parecchio crudi e disperati e dalle atmosfere cupe e necrofile molto ben rese, che racconta di un amore disperato tra un fuggitivo e una prostituta da saloon, di due donne assediate nella loro capanna da dei lupi famelici e delle difficoltà che deve affrontare un cacciatore di taglie per conservare il cadavere di una sua preda.


1992 Mad at the Moon
di Martin Donovan con Mary Stuart Masterson, Hart Bochner, Fionnula Flanagan, Stephen Blake

Altro raro film piuttosto interessante, anche se il west dovrebbe solo fare da sfondo a questa storia un po' stile sorelle Bronte, con una donna (Mary Stuart Masterson, ai tempi sulla cresta dell'onda) innamorata di uno scontroso pioniere che si rivelerà essere un lupo mannaro. Romanticismo, sessuofobia e paure raccontate con un ritmo lento, lunghi silenzi e atmosfere ipnotiche. Budget permettendo un film più dalle parti di certo cinema d’autore europeo, che non di un classico western. Basato sulle performance attoriali, non disdegna trovate surreali e ambigue.


1993 The Uninvited
di Michael Derek Bohusz con Jack Elam, Christopher Boyer, Bari Buckner

Raro pure questo. Strano notare come questi film dei primi anni 90 sembrino più introvabili e misteriosi di pellicole di serie Z degli anni 50. È l’ultimo film di Jack Elam, celeberrimo caratterista dall'inconfondibile sguardo strabico, la cui partecipazione al film si limita però ai tre minuti iniziali. Una male assortita compagnia di personaggi si contende una miniera d’oro, che purtroppo per loro è anche un sepolcro indiano. Gli spiriti non la prenderanno bene. Un film lento, ambientato tra montagne nebbiose, che si rifà all’iconografia dei film sulla febbre dell’oro, popolato da personaggi sgradevoli, su cui pesa un senso di meritato castigo.


1993 Grey Knight o Ghost Brigade o The Killing Box
di George Hickenlooper con Adrian Pasdar, Cindy Williams, Martin Sheen

Eh già… interessante ma raro e quasi introvabile pure questo. Per di più quando un film gira con più di due titoli o è una ciofeca che i produttori tentano di piazzare dove capita, o è un film “maledetto” di cui girano più versioni. Pare che questo sia un caso del genere. “Killing Box” dovrebbe essere la versione piattamente televisiva sforbiciata dai produttori, “Grey Kinight” la versione più ambiziosa voluta dal regista e montata nientemeno che da Monte Hellman, “Ghost Brigade”... boh. Nel 1860, durante la guerra civile americana, un reggimento confederato viene massacrato, ma i cadaveri vengono posseduti dagli spiriti voodoo, che formano così un esercito di vampiri-zombie e terrorizzano sia nord che sud. Il regista è lo stesso di “Hearts of Darkness: A Filmmaker's Apocalypse”, il celebre documentario sulle riprese di "Apocalypse Now!". E infatti la storia dovrebbe avere più di un debito con il film di Coppola, oltre che con “Sierra Charriba” di Peckinpah. Martin Sheen appare in un cameo come Generale Lee.


1993-1994 Le avventure di Brisco County (The Adventures of Brisco County, Jr.)
Telefilm in 27 episodi con Bruce Campbell, Julius Carry, Christian Clemenson

Un piedidolci dell'est (Bruce Campbell) diventa un cacciatore di taglie del West per vendicare la morte del padre, ma nel corso del suo vagabondare avrà a che fare con ogni sorta di stramberia: fantasmi, extraterrestri, civiltà perdute, superuomini, cavalli telepatici, sceriffi sosia di Elvis Presley. Tentativo di aggiornare lo spirito di “Wild Wild West” con lo spirito demenziale e ultra-citazionista degli anni 90. Quel che manca rispetto al modello è un'atmosfera credibile che renda coerente il mix spericolato di generi.



1995 Legend Telefilm in 12 episodi con Richard Dean Anderson, John de Lancie

Un altro telefilm che vorrebbe rinverdire le bizzarrie di "Wild Wild West", dando maggior spazio alle invenzioni steampunk. Piuttosto cervellotica l’idea di fondo: uno scrittore avventuriero scrive una serie di romanzi fantastici ambientati nel west, con protagonista l’immaginario Nicodemus Legend, ma troppi ammiratori prendono sul serio i suoi racconti e lo identificano con il personaggio. Tra i sui fan c’è anche uno scienziato squinternato, che grazie alle sue folli invenzioni può rendere reali molte delle trovate dei romanzi. Afflitto dal blocco dello scrittore, il protagonista accetta suo malgrado di vivere avventure come quelle del suo personaggio per trarne ispirazione. Flop in America, mai arrivato credo in Italia. Non sembra molto interessante.


1996 Lazarus Man (The Lazarus Man)
Telefilm in 22 episodi con Robert Urich

Serie cospirazionista ambientata sul finire della guerra di secessione. Lazarus di nome e di fatto il protagonista si risveglia in una tomba, riesce miracolosamente ad uscirne vivo, ma con parecchi buchi nella memoria. Il suo ultimo ricordo è l'assassinio di Lincoln. Western “weird” senza elementi fantastici, ma pieno di misteri e dalla struttura a thriller insolita per il genere. La serie è stata interrotta per una grave malattia che colpì l’attore protagonista sul set.


1997 Blood Trail
di Barry Tubb con Raoul Trujillo, Barry Tubb, R.J. Preston

Mentre saccheggiano delle tombe indiane, una coppia di cowboy si imbatte in un corpo sepolto in modo insolito. Neanche a dirlo liberano così il demone Bloody Hands, che prende possesso di uno degli uomini e che per rendere giustizia al suo nome inizia a lasciarsi dietro una scia di sangue e cadaveri. Una posse di sceriffi e una guida indiana dovranno fronteggiare la terribile minaccia. Horror western piuttosto sanguinario, pur nei limiti di un film nato per il mercato home-video, quindi con i massacri lasciati prudentemente appena fuoricampo. Girato quasi come un western normale, con più attenzione ai momenti di caccia e alla resa degli ambienti naturali che non all’elemento soprannaturale. Difficile dire se per limiti di budget o per scelta stilistica.


1999 Purgatory
di Uli Edel con Sam Shepard, Eric Roberts, Donnie Wahlberg, Randy Quaid, Brad Rowe

Una banda di fuorilegge capita in uno strano paesino, dove gli abitanti sono tutti pacifici e non violenti e chi usa la violenza finisce all’inferno. E non in senso figurato. Una specie di episodio di “Ai confini della realtà” dilatato molto oltre il doppio della sua naturale durata. L’idea di fondo non era male, ma ne è uscito un film TV piatto e verboso, che si sveglia troppo tardi ed è diretto dal tedesco Uli Edel (salito brevemente alle cronache negli anni 80 per il “Christiane F. - Noi ragazzi dello zoo di Berlino”) con la consueta mancanza di verve. L’ambientazione western è falsa e posticcia, stile “Signora del west”. Al solito sprecato Sam Shepard.


1999 L'insaziabile (Ravenous)
di Antonia Bird con Robert Carlyle, Jeffrey Jones, Guy Pearce

Il relativamente più noto dei film finora trattati. Curioso e nerissimo horror-western che unisce il mito del Windigo alle cronache cannibali del West tipo Carovana Donner. Inizia all'insegna di un ghignante antimilitarismo, continua con una parte avventurosa tesissima e spiazzante, si trasforma in un thriller intriso di humour nero e si conclude nell'horror più satirico e grandguignolesco. Nonostante i molti squilibri, dovuti probabilmente a grossi problemi produttivi (il film fu iniziato dal macedone Milko Manchevski, autore di Dust, e poi affidato all'inglese Antonia Bird), un film malsano di notevole impatto, sorretto da un gran cast e una splendida ambientazione naturale. Qualche metaforone politico di troppo nel finale e un’idea di fondo che a tratti mette a dura prova la sospensione d'incredulità. Prendere lontano dai pasti.


1999 Wild Wild West
di Barry Sonnenfeld con Will Smith, Kevin Kline, Salma Hayek

Dopo tanti piccoli film indipendenti e a basso budget un colossal hollywoodiano. Versione cinematografica dell’omonimo telefilm anni 60 semplicemente insostenibile. La leggerezza e l’understatement dell’originale lasciano il posto ad un'estetica da baraccone e un’ironia cialtrona che non fa mai ridere, neanche per sbaglio. Ancor più che il telefilm, a livello visivo il modello sembrerebbe essere “La grande corsa” di Blake Edwards, sempre di quegli anni, ma è un confronto ancora più imbarazzante. Com'è imbarazzante lo spreco di soldi che si vede dietro ad ogni fotogramma di questa assurda pacchianata miliardaria. Fino ad allora il regista Sonnenfeld (La famiglia Addams, Get Shorty, Men in Black), se non un fuoriclasse, almeno era sembrato un buon artigiano.


2000 Dal tramonto all’alba 3: la figlia del boia (From Dusk till Dawn 3: The Hangman's Daughter)
di P.J. Pesce con Ara Celi, Marco Leonardi, Michael Parks

Questo film inaugura una curiosa tendenza di alcune saghe horror degli ultimi anni: il prequel western. In questo caso gli autori si limitano a trasporre nel vecchio west la stessa formula di “Dal tramonto all’alba” di Rodrìguez e Tarantino. Se nell’originale dal noir on the road si passava all’horror, qui il passaggio è logicamente dal western all’horror. Il protagonista è nientemeno che lo scrittore Ambrose Bierce, realmente scomparso in Messico nel 1914, che viene rapito insieme alla figlia del boia del titolo da un fuorilegge sfuggito al patibolo. Insieme finiranno nel solito postribolo gestito da vampiri. Anonima produzione dal basso budget ma, fatto il callo alle solite e prevedibili rodomontate di Rodrìguez (soggetto suo, sceneggiatura di un suo cugino), abbastanza divertente.


2002 Legend of the Phantom Rider o Trigon: The Legend of Pelgidium
di Alex Erkiletian. Con Denise Crosby, Robert McRay, Stefan Gierasch

Inizia come un classico western di vendetta, con il solito sopravvissuto ad una strage famigliare che vuole farla pagare ai cattivi. Senonché ad un certo punto si rivolge ad uno stregone indiano che evoca per lui un demone-pistolero. Il demone, tal Pelgidum, sembra Jonah Hex interpretato dal sosia capellone del Klaus Kinski de "Il grande silenzio" (grazie al trucco: in realtà l’attore che lo impersona, Robert McRay, non somiglia per nulla al tedesco) e farà piazza pulita stile Clint Eastwood ne "Lo straniero senza nome”. A parte la riuscita e inquietante presenza del demone tutto dovrebbe svolgersi come in un canonico western. Non sembrerebbe male, ma è un film praticamente invisibile, su cui è difficile trovare persino notizie.


2004 La casa maledetta (Dead Birds)
di Alex Turner con Henry Thomas, Patrick Fugit

Durante la guerra di secessione una banda di fuorilegge si rifugia da una tempesta in una casa abbandonata. Abbandonata dagli uomini, ma non da alcune terrificanti presenze. Ennesimo prodotto a basso budget che cerca di mescolare il western con una trama alla Lovecraft. Intriga parecchio che per farlo adotti i ritmi e le atmosfere degli horror orientali, quindi cercando la suspense grazie ad apparizioni inquietanti e ambientazione sinistre, piuttosto che ai soliti mostri. Serio e tetro, più goticheggiante che western. Notare che né il titolo italiano (che ci ammorba con l’ennesima “casa” in un titolo horror), né quello originale segnalano l’ambientazione ottocentesca, come nemmeno manifesti e locandine.


2004 Licantropia (Ginger Snaps Back: The Beginning)
di Grant Harvey con Katharine Isabelle, Emily Perkins, Nathaniel Arcand

Terzo e ultimo capitolo di una saga sulla licantropia poco nota in Italia, incentrata su personaggi femminili e adolescenziali. Dopo due capitoli ambientati a giorni nostri questo è il prequel ambientato nel 1815. Più che nel western siamo quindi dalle parti dell’avventuroso settecentesco stile “L’ultimo dei mohicani”, incrociato con il gotico ottocentesco. Nonostante l’assoluta esiguità del budget, molto riuscita l’ambientazione con boschi innevati e nebbiosi, fortini sperduti, indiani misteriosi e branchi di lupi affamati. Certo il clima è più quello di una fiaba crudele che di un film d’azione. Pare sia considerato il migliore della trilogia.


2004 Tremors 4 - Agli inizi della leggenda (Tremors 4: The Legend Begins)
di S. S. Wilson con Michael Gross, Sara Botsford, Billy Drago

Ennesimo prequel in salsa western di una fortunata saga horror. Il primo “Tremors” nel 1990 era stata una gustosa sorpresa, ma la formula “simpatici burini americani contro i mostri” aveva già mostrato la corda nei due capitoli successivi. La variante western non migliora di molto le cose e il film non va molto al di là di un potenziale cazzeggio televisivo pomeridiano. Però qualche gag e qualche personaggio non sono male, a cominciare dal pistolero vigliacco interpretato dal caratterista Billy Drago. I superstiti del cast originale interpretano gli antenati/sosia dei loro personaggi, come nelle storie di Topolino.