martedì 17 dicembre 2013

Red Hill


2010 RED HILL
di Patrick Hughes, con Ryan Kwanten, Steve Bisley, Tommy Lewis, Claire van der Boom, Christopher Davis, Kevin Harrington, Richard Sutherland, Ken Radley, John Brumpton

Abbiamo già avuto modo di sottolineare come con il nuovo millennio il western si sia spogliato delle sue classiche connotazioni di tempo (la seconda metà del 1800) e di luogo (la frontiera americana) per diventare un genere trasversale e postmoderno, che viene sempre più spesso utilizzato come mezzo stilistico e tematico per raccontare storie ambientate negli scenari e nei tempi più diversi. Non ci stupisce, né tantomeno ci scandalizza (anche se esistono senza dubbio dei “puristi” a cui operazioni di questo genere appariranno sacrileghe), quindi, questo western-thriller in abiti moderni ambientato in Australia.

L'aussie western, cui accennavano a proposito di Wake in Fright, non è comunque certo una novità assoluta, ma un genere che ha avuto un suo preciso spazio all’interno dell’ozploitation, il cinema di genere australiano in voga dai primi anni settanta fino alla metà degli ottanta, con film di bassa cassetta come Mad Dog Morgan e La taverna dei dannati, ma che ultimamente ha goduto anche della ribalta internazionale con produzioni di tutto rispetto come The Proposition e The Tracker.



Nonostante lo slittamento temporale e geografico in questo Red Hill la tradizionale iconografia del genere c’è tutta e viene rispettata in pieno: sceriffi corrotti, indiani (pardon, aborigeni) assetati di sangue, anziani e rudi cowboys, desolate cittadine di frontiera, grandi spazi aperti (quelli magnifici dell’outback australiano), che nelle mani dell’esordiente di bellissime speranze Patrick Hughes – regista, sceneggiatore, produttore e anche montatore, che pur di realizzare il film si è ipotecato la casa – diventano un sentito e convincente tributo alla linearità del western classico, ma anche alla violenza di quello italiano.

Lo spettatore non si aspetti però strizzatine d’occhio o giochini cinefili alla Quentin Tarantino. Hughes fa sul serio, fin dalla struttura narrativa che riprende archetipi classici come il nuovo sceriffo che arriva in città, l’assedio della tranquilla comunità da parte delle forze del male e il conflitto bianchi-nativi, a cui si aggiungono una terribile storia di vendetta e l’eroismo di un moderno cavaliere della valle solitaria, che non a caso di nome fa Shane.



La trama è di quelle semplici e lineari, come il canone comanda: un aborigeno evade da un carcere di massima sicurezza e torna nella tranquilla cittadina di Red Hill per vendicarsi di coloro che lo hanno mandato in galera. Sarà un bagno di sangue, che durerà una lunghissima notte in cui i rappresentati della legge cadranno come mosche e in cui il cattivo assumerà valenze metafisiche come il Michael Myers di John Carpenter.

Il ritmo e la tensione sono notevoli e non vengono mai meno durante tutto il film, la giovane star di True Blood Ryan Kwanten è assai efficace nel ruolo del protagonista, e quella di Hughes è una regia precisa, lineare e di grande potenza, che costruisce un riuscitissimo climax ansiogeno per scioglierlo solo nel finale con una conclusione da applausi a scena aperta.
Questo piccolo film proveniente dall’Australia è un’autentica sorpresa.



Dopo questo sfolgorante esordio, che non poteva certo passare inosservato presso le case di produzione americane, Hughes non ha resistito alle sirene hollywoodiane e accantonato (speriamo solo per il momento) il progettato secondo capitolo di quella che avrebbe dovuto essere una trilogia western moderna (composta da Red Hill, Black Valley e White Mountain) ha accettato la proposta di Sylvester Stallone di dirigere il terzo capitolo del suo franchise The Expendables, attualmente in fase di post-produzione e in uscita nel 2014. Conoscendo la poca libertà di manovra concessa da Stallone ai registi dei film di cui è interprete e produttore la notizia non è di quelle che ci entusiasmino, e non vorremmo trovarci a piangere l’ennesima promessa fagocitata dall’industria cinematografica a stelle e strisce.

venerdì 13 dicembre 2013

prossimamente - Sweetwater



Accolto con insolito favore sia al Sundance Film Festival che al recente Torino Film Festival Sweetwater (uscito in Inghilterra come Sweet Vengeance) è un western prodotto e interpretato da Ed Harris, che com'è noto è un grande appassionato del genere, e scritto e diretto (assieme al fratello gemello Noah) da Logan Miller, al suo secondo film dopo Touching Home (sempre con Harris). Il film mette al centro della scena un'ex-prostituta interpretata da January Jones (nota per la serie televisiva Mad Men), mentre il resto del cast comprende Eduardo Noriega, Jason Isaacs e Jason Aldean.



New Mexico. Sarah e Miguel possiedono della terra e sono pronti a lavorare sodo per coltivarla. È la fine del diciannovesimo secolo, epoca di villaggi di cowboy, di carovane e predicatori: e proprio uno di questi, il potente ministro della chiesa Josiah, decide di ostacolare i piani di Sarah e Miguel, e uccide quest’ultimo. La legge non scritta del villaggio costringe Sarah a subire le molestie di Josiah e ad arrendersi alla perdita del compagno: ma un giorno dalla città arriva un nuovo sceriffo intenzionato a fare giustizia, e Sarah trova finalmente il coraggio reagire.



«Crediamo che qualsiasi cosa considerata sacra nell’arte sia pericolosa. Quando qualcosa è sacralizzato, è privato della possibilità di evolvere e diventa inutile sia per l’arte stessa che per l’umanità. […] Volevamo perciò andare oltre molte convenzioni del western, creare una tragedia senza vincitori, senza personaggi monolitici; un mondo dove tutti sono presi in mezzo a un racconto oscuro, contorto, osceno: una triangolo di sangue che prende fuoco fra le colline del New Mexico». (Logan e Noah Miller)

Onestamente dalla sinossi e dal trailer non ci sembra nulla di particolarmente originale, ma anzi il classico revenge-western declinato al femminile (cosa che ormai non costituisce più una novità) e piuttosto violento, ma siamo lo stessi ansiosi di vederlo.


venerdì 25 ottobre 2013

Segnalazioni - Kiss Kiss...Bang Bang. Il cinema di Duccio Tessari

Duccio Tessari (1926-1994), a cui abbiamo dedicato una scheda ai due Ringo in attesa di una più corposa analisi della sua filmografia western, fu tra i primi registi italiani negli anni sessanta a confrontarsi con il nascente filone dello spaghetti western con il seminale Una pistola per Ringo e tra gli ultimi ad abbandonarlo, esattamente vent'anni dopo, con Tex e il Signore degli abissi, entrambi interpretati da Giuliano Gemma, vero e proprio attore-feticcio di Tessari, da lui scoperto con il film Arrivano i titani (pare che il provino che ha consegnato la parte a Gemma consistesse nell'effettuare un salto mortale all'indietro da fermo, cosa che l’attore recentemente scomparso effettuò tranquillamente e senza scomporsi).
Dopo i Ringo e prima di Tex Tessari ha diretto diversi altri western, tutti interpretati da Gemma e tutti contraddistinti da un registro ironico e avventuroso, suo personale marchio d’autore che lo differenziava ad esempio piuttosto nettamente da Leone e Corbucci, ed è stato un regista prolifico e trasversale a molti generi, come del resto tanti altri professionisti del tempo, forse non ancora riscoperto e studiato appieno.
Giunge quindi a proposito Kiss Kiss...Bang Bang - Il cinema di Duccio Tessari, una recentissima monografia curata da Fabio Melelli ed edita dai tipi di Bloodbuster nella collana I ratti, che oltre a un’analisi completa della filmografia del regista contiene varie testimonianze e interviste inedite, tra cui una proprio a Giuliano Gemma realizzata poco prima della sua tragica morte.
Un altro tassello che va a completare l’affascinate mosaico di quello che è stato il western italiano.

lunedì 7 ottobre 2013

Carlo Lizzani 1922-2013

A pochi giorni dalla tragica scomparsa di Giuliano Gemma dobbiamo purtroppo dare conto di un nuovo lutto che ha colpito il piccolo mondo del cinema italiano: sabato 5 ottobre se ne è andato, con modalità altrettanto tragiche (si è ucciso gettandosi dalla finestra, proprio come Mario Monicelli qualche anno fa), il regista Carlo Lizzani, autore di tanto cinema impegnato ma anche di due western particolarmente riusciti: Per un fiume di dollari e Requiescant.

Lo ricordiamo con la monografia che gli avevamo dedicato a suo tempo: CARLO LIZZANI
Achtung! Autore!


venerdì 4 ottobre 2013

i film - Per un dollaro di gloria



1965 (uscito nel 1967) PER UN DOLLARO DI GLORIA
di Fernando Cerchio. Con Broderick Crawford, Mario Valdemarin, Hugo Arden, Elisa Montes, Umberto Ceriani.

In fin dei conti non è proprio da buttare questo piccolissimo film, probabilmente realizzato con un investimento pari al dollaro del titolo, diretto da un onesto artigiano della vecchia generazione come Fernando Cerchio e interpretato dal grande Broderick Crawford in una delle sue trasferte italiane - la più celebre delle quali fruttò lo straordinario Il bidone (1955) di Fellini -, appesantito e sfatto oltre ogni immaginazione. I suoi problemi di alcolismo all'epoca erano noti e la cosa si percepisce senza grande sforzo: le scene in cui lo si vede barcollare, o quelle in cui fatica persino a tenere aperte le palpebre, non si contano. Eppure, un po' come accadrà con Van Heflin in Ognuno per sé (1968) di Capitani, il suo carisma da grande attore hollywoodiano in disuso si mangia in un sol boccone il resto del cast, ed è proprio nei momenti in cui c'è lui di fronte alla macchina da presa - complice anche il consueto ottimo lavoro di Emilio Cigoli in sede di doppiaggio - che il film acquista in spessore e credibilità. 

 

Per il resto, Per un dollaro di gloria è indubitabilmente un film nato vecchio. Il che non è in tutti i sensi un difetto. Cerchio non bada neanche di striscio ai coevi modelli italiani, si ispira anzi evidentemente ai western militari americani di maestri della serie B come Gordon Douglas. L'ambientazione claustrofobica, il crescendo della tensione basato sull'attesa dell'assedio imminente - l'atmosfera, diremmo oggi, "carpenteriana" del tutto - rimandano direttamente a film come L'avamposto degli uomini perduti (1951). Di suo, il vecchio regista ci mette uno stile un po' ingessato e superato dai tempi, ma tutto sommato funzionale all'impostazione retrò dell'insieme. Qua e là, riesce pure a metterci dentro qualche bella ellissi e dimostra di saper sfruttare con una certa perizia la profondità di campo garantita dal formato scope. Nonostante un buon numero di prevedibili cadute di tono, poi, è un film piuttosto triste e pessimista. Curioso, per esempio, il fatto che quasi tutti i personaggi siano accomunati dalla perdita dolorosa di uno o più familiari. Mogli e figli dei soldati di stanza al forte, per dire, vengono massacrati dagli indiani dopo dieci minuti di film - a proposito, sì, è uno dei pochissimi western italiani in cui compaiono i pellerossa, anche se mai in primo piano - e in generale tutti i personaggi non sono certo degli allegroni, anzi. Il massimo è il colonnello interpretato da Crawford, un vecchio militare testardo e razzista che non si fa problemi a stecchire a sangue freddo chiunque gli disobbedisca, intimamente disperato per una carriera - e una vita - di soli bassi. Lo vedremo lentamente perdere il senno, accecato dai rimpianti e dalla solitudine. Non male per un film che aveva chiaramente come target il pubblico semplice e di bocca buona delle sale parrocchiali.

La storia, a quanto pare basata su un fatto realmente accaduto, è incentrata su un plotone di soldati francesi di stanza in Messico - il contesto storico è quello del celebre Affare Massimiliano - che per sfuggire alle scorrerie di confine dei Navajo si spingono in territorio americano e trovano rifugio, inizialmente come prigionieri, in un isolato fortino sudista - nel frattempo, siamo nel 1864, si combatteva ovviamente anche la Guerra di Secessione. Le due fazioni poi uniranno le forze per respingere gli attacchi indiani. A dire l'ingenuità artigianale della produzione, fra Americani e Francesi non c'è il minimo problema di comunicazione, tutti parlano perfettamente la stessa lingua stretti nelle loro divise inamidate e spesso fuori taglia. E per sottolineare quanto i tempi sono cambiati basti far notare che la spalla di Crawford è tale Mario Valdemarin, un giovanotto friulano che all'epoca trascorse un breve periodo di popolarità grazie alla partecipazione a Lascia o raddoppia. Costui, da cinefilo qual era, dimostrò in trasmissione di conoscere a menadito la filmografia di John Ford: perché, dunque, non farlo recitare in un western?

All'epoca il film non lo vide praticamente nessuno. Non che la sua fama sia cresciuta col tempo, anzi. Al giorno d'oggi queste piccole pellicole hanno il fascino dei reperti archeologici, parlano un poco di un mondo che non c'è più. Lontanissimi dalla modernità dei film di Leone, Corbucci, Sollima, Petroni eppure da apprezzare proprio per il fatto stesso di discostarsi da quei consolidati modelli, testimoni di un periodo in cui per un piccolo e poco conosciuto regista italiano era possibile anche ispirarsi ai classici di Gordon Douglas o John Sturges per regalare al pubblico un onesto, pulito prodotto d'intrattenimento.


Paolo d'Andrea


p.s.: e comunque Cerchio, zitto zitto, ci ha regalato uno dei primi - e più belli - esempi di noir/poliziesco italiano: Il bivio, 1951.

martedì 1 ottobre 2013

Addio, Ringo!



Notizia di qualche minuto fa: se n'è andato all'improvviso, in un terribile incidente automobilistico, uno degli attori-simbolo del western italiano, Giuliano Gemma.
Giuliano non era soltanto un buon attore, dotato di una presenza scenica e di un atletismo invidiabili: era soprattutto un uomo di cinema pulito e schietto, come se ne vedono sempre più di rado.
Noi lo ricordiamo così, con un nostro vecchio articolo sul suo personaggio più riuscito e fortunato.


Adiòs, Ringo!


  

mercoledì 29 maggio 2013

El juez de la soga / The hanging judge



1973 EL JUEZ DE LA SOGA / THE HANGING JUDGE
di Alberto Mariscal, con Hugo Stiglitz, Milton Rodriguez, Narciso Busquets, Cristina Moreno, Bruno Rey, Rafael Baledon, Norma Lazareno

Proseguiamo la nostra rassegna sul western messicano, o chili-western, con quest’altra pellicola del prolifico Alberto Mariscal, uno dei registi più rappresentativi del filone (tra gli altri specialisti ricordiamo René Cardona e Raul De Anda Jr), almeno per quanto riguarda gli anni sessanta e settanta, quando da genere sentimentale e melodrammatico si trasformò in qualcosa di surreale, nero e violento, ispirato parte agli spaghetti western nostrani, per le figure archetipiche di giustizieri taciturni e nerovestiti, e parte a Sam Peckinpah, per l’estetica sanguinaria e soluzioni di regia come i ralenti e il montaggio non lineare.

Il film a cui si ispira più direttamente questo El juez de la soga (letteralmente "il giudice della corda") è però L’uomo dai sette capestri di John Huston, dell’anno precedente, uscito nei paesi ispanici con il titolo El juez de la horca (cioè "il giudice della forca"), che narrava in chiave brillante e romanzata le gesta del giudice Roy Bean, passato (sembra erroneamente) alla storia come “la legge a ovest del Pecos” per le sue esecuzioni spicce e sommarie.
La versione di Mariscal è però decisamente più cupa e malata di quella di Huston, e il protagonista della pellicola non è giudice ma un pistolero solitario con un look da becchino autoproclamatosi giustiziere che punisce le malefatte compiute nel Far West impiccando senza processo i responsabili.



Il West di Mariscal è, al solito, una frontiera apocalittica e ultraviolenta e la scena con cui si apre il film ne è esemplificativa: tre fuorilegge assaltano una fattoria isolata, uccidono l'anziano capofamiglia, violentano la figlia e crivellano a colpi di pistola un bambino di cinque anni. Un pugno allo stomaco dello spettatore che chiarisce fin dall’inizio il tono del film.
A questo punto, consci di averla combinata grossa, i tre assassini si separano e se ne vanno ognuno in una direzione diversa: uno va a far festa in un bordello, l'altro diventa non si sa come sceriffo e l'ultimo diviene padrone di un grosso ranch dopo averne ammazzato il legittimo proprietario. Inutile dire che uno dopo l’altro i tre verranno però raggiunti e giustiziati senza pietà dall’implacabile “giudice della corda”.
Come si vede il soggetto del film è del tutto minimale. Quello che interessa al regista sono soprattutto le modalità di esecuzione delle condanne: particolarmente fantasiosa la seconda, con il malcapitato sepolto vivo fino alla testa e lasciato alla mercé di scorpioni velenosi.
Come negli altri western di Mariscal non manca nemmeno il sottotesto matriarcale, tramite dei continui flashback in cui il protagonista viene perseguitato della madre, che lo ammonisce sulle terribili conseguenze del farsi giustizia da sé.



Mariscal dimostra comunque anche in questa pellicola, forse meno eccessiva e delirante di altre, di possedere un suo quid personale e l’ultima immagine del film, che ovviamente non riveliamo, mette in discussione tutto quanto visto in precedenza ed eleva dalla banalità un soggetto forse eccessivamente esile.

Tra le cose migliori del film va annoverata senza dubbio la magnifica interpretazione del grande attore messicano Hugo Stiglitz, che ha lavorato anche negli Stati Uniti (ad esempio in Sotto il vulcano) e in Italia (soprattutto in film di genere come Tintorera e Incubo sulla città contaminata): se il suo nome vi ricorda qualcosa è perché Quentin Tarantino ha chiamato così uno dei personaggi del suo film Bastardi senza gloria in omaggio all’attore messicano.

venerdì 17 maggio 2013

Io sono Valdez


1971 IO SONO VALDEZ (VALDEZ IS COMING)
di Edwin Sherin, con Burt Lancaster, Susan Clark, Richard Jordan, Jon Cypher, Hector Elizondo, Frank Silvera

Bob Valdez, un vice-sceriffo messicano bonaccione e un po’ ottuso, si mette in testa di risarcire la vedova indiana di un ex-soldato di colore da lui ucciso per legittima difesa dietro errata segnalazione del Signor Tanner, un ricco trafficante della zona, che lo aveva indicato come assassino e disertore. Viene prima preso in giro, poi minacciato e infine crocifisso a una croce di legno e abbandonato nel deserto. Salvatosi per miracolo imbraccia le armi e ritorna da Tanner per chiedere i soldi, e per convincerlo a pagare rapisce la sua donna. Ha inizio quindi la caccia a un Valdez che nessuno conosceva, con un passato di scout e cacciatore di apaches tra i più pericolosi e sanguinari...

Elmore Leonard è uno scrittore che, a seconda delle opinioni, viene considerato alternativamente uno dei più grandi autori americani contemporanei oppure solo un mestierante abile nel dare al pubblico emozioni forti a buon mercato. Senza volerci addentrare nella questione ci limitiamo a constatare come buona parte dei suoi più di cinquanta romanzi sia stata adattata per il cinema, rendendolo di fatto uno dei romanzieri più saccheggiati di sempre dalla settima arte (in questa classifica Stephen King resta probabilmente inavvicinabile).
Il momento di maggior gloria cinematografica Leonard lo ha probabilmente vissuto all’inizio degli anni novanta, quando dopo la trasposizione da parte del (solito) Quentin Tarantino del suo romanzo Rum Punch nel film Jackie Brown c’è stato un rinnovato interesse per la sua narrativa da parte della nuova corrente cinematografica pulp-noir, che portò alla realizzazione di film come Out of Sight, Get Shorty e Be Cool. I thriller dell'autore erano comunque stati oggetto di riduzione cinematografica già fin dagli anni settanta (con titoli come Io sono perversa, I contrabbandieri degli anni ruggenti, A muso duro, Scherzare col fuoco, 52 gioca o muori, Oltre ogni rischio...).

Quello che non tutti sanno è che anche se è divenuto famoso come scrittore di crime novels Elmore Leonard nasce come autore western, genere a cui si è dedicato ininterrottamente dal suo primo romanzo degli anni cinquanta fino agli anni settanta, prima che il genere cominciasse a declinare anche nella narrativa. E anche in questa sua meno conosciuta veste gli adattamenti per il grande schermo si sprecano, e non certo in film di poco conto: I tre banditi, Quel treno per Yuma, Hombre, Joe Kidd...
Esemplificativo del successo di Leonard come narratore western e di quanto i suoi lavori venissero tenuti in considerazione dall’industria cinematografica è il romanzo Arriva Valdez del 1970 (pubblicato in Italia nella benemerita collana dei tascabili western della Longanesi), tratto da un suo precedente racconto (pubblicato da Einaudi nella raccolta Tutti i racconti western), che venne trasposto in pellicola già l’anno immediatamente successivo alla sua pubblicazione.



Calato in piena estetica crepuscolare il film Io sono Valdez (il titolo italiano perde tutto il significato minaccioso dell’originale) è uno dei numerosi western americani girati in Spagna negli anni settanta e segue molto fedelmente, replicandone scene e dialoghi spesso parola per parola, il racconto d’origine, permettendosi solo qualche minima variazione, come quella di eliminare la love story tra il protagonista e la donna da lui rapita – non a caso la parte più debole del romanzo – e modificando parzialmente il finale, che nella pellicola si chiude, con un anticlimax tipico del periodo, in un fermo-immagine che nega allo spettatore il duello conclusivo, commentato solo dalla voce-off del protagonista (da verificare però in lingua originale, perché negli anni settanta i finali di vari western vennero arbitrariamente modificati perché poco ortodossi, vedi Costretto ad uccidere o Lo straniero senza nome).



Si tratta di un western robusto e brutalmente efficace – del resto con un soggetto talmente convincente e strutturato era difficile realizzare un brutto film – anche se la regia del debuttante Edwin Sherin, pur diligente e onesta, non brilla per inventiva e il film non riesce ad elevarsi dallo status di dirty western di serie B, seguendo una traiettoria piuttosto semplice di causa-effetto basata sulla caccia all’uomo (cosa comune a molti altri western dei seventies) e sulla ribellione della persona mite e in apparenza inoffensiva (tematica allora in auge grazie a film come Cane di paglia), nonostante le velleità di partenza fossero probabilmente ben altre, visto che il regista inizialmente incaricato del progetto era addirittura Sidney Pollack.
Nel ruolo di Valdez, inoltre, era inizialmente previsto Marlon Brando mentre Burt Lancaster doveva limitarsi ad interpretare l’antagonista. Dopo il rinvio del film a causa delle riprese di Airport Lancaster, che era anche il coproduttore della pellicola, decise di riservare per sé il ruolo del protagonista e di chiamare, del tutto a sorpresa, come regista Sherin, un autore teatrale di Broadway famoso al tempo per aver portato al successo la pièce di Per salire più in basso (la cui versione cinematografica venne curiosamente diretta in Almeria nello stesso periodo da Martin Ritt) e che al cinema non farà poi più nulla.



Oltre che per la storia e i dialoghi asciutti ed efficaci Burt Lancaster in una delle ultime interpretazioni di una straordinaria carriera western è un’altra delle ragioni per vedere il film: con lo stesso look con i baffi di Nessuna pietà per Ulzana dell’anno successivo dà vita a un’interpretazione memorabile e, nonostante la statura e gli occhi azzurri lo rendano poco credibile come messicano, è convincente sia nell’iniziale incarnazione bonaria e remissiva di Valdez che in quella spietata e sanguinaria successiva, dimostrando di essere un magnifico attore western anche nei ruoli laconici ed essenziali della maturità come nelle sue esuberanti interpretazioni giovanili (basti ricordarlo in Vera Cruz).

Anche il resto del cast, pur non contando su grandi nomi, è decisamente all'altezza: i bravi caratteristi Jon Cypher e Richard Jordan, al loro primo film, Frank Silvera nella sua invece ultima interpretazione e la bella Susan Clark nel ruolo della donna rapita, che consente al regista di spingere un po’ sui tasti del lato exploitation del film, come sottolineato dalla stampa dell’epoca.

mercoledì 15 maggio 2013

i film - Lo voglio morto

1967 LO VOGLIO MORTO 
di Paolo Bianchini. Con Craig Hill, Lea Massari, José Manuel Martin, Andrea Bosic, Licia Calderón, Rick Boyd, Frank Braña.


Sud degli Stati Uniti: Clayton (C. Hill) è un cow-boy come tanti, deciso dopo parecchi anni di duro lavoro a comprarsi un terreno e una casa da condividere con la giovane sorella (C. Businari). Tutto sembrerebbe andare per il verso giusto, ma giunto in città scopre che a causa della guerra civile i dollari sudisti hanno subito una portentosa svalutazione; come non bastasse, durante una sua breve assenza, la sorella viene violentata e uccisa da una coppia di banditi. Senza piú nulla da perdere, Clayton si mette sulle tracce degli assassini - uno dei quali ha imprevidentemente dimenticato nella stanza un sacchetto di tabacco personalizzato -, in realtà membri di una grossa banda al servizio di un potente commerciante d'armi (A. Bosic) interessato a protrarre quanto piú possibile il conflitto in vista di ingenti guadagni personali. La faccenda si complica, ma dopo innumerevoli sofferenze e molto sangue sparso Clayton troverà anche il vero amore.

Paolo Bianchini (1931), tuttora molto attivo nell'ambito della fiction televisiva, è stato per anni uno dei registi pubblicitari piú prolifici d'Italia. Come molti suoi colleghi dell'epoca, si era fatto le ossa come assistente di gente importante come Monicelli, Comencini, Vittorio De Sica, Leone ed aveva poi esordito come autore in proprio a metà degli anni '60, nel campo del cinema di genere. Inevitabile quindi il suo incontro con il western: ne dirigerà quattro nel giro di tre anni, alcuni dei quali considerati dei veri e propri cult-movies grazie alle ormai proverbiali pronunciazioni dell'imprevedibile Tarantino. Lo voglio morto, nello specifico, è reputato una «gemma del genere» da noti esperti del settore come Tom Betts e Alex Cox. È, in effetti, un piccolo film girato con uno stile personale e consapevole. Forse proprio per la sua citata esperienza nel campo della pubblicità, Bianchini si diverte ad inserirci un'abbondanza di primi e primissimi piani, dettagli ingranditi, stacchi ad effetto; emblematica la sequenza inizale - pare fortemente voluta dai produttori, che lamentavano un numero di morti troppo esiguo -, tutta costruita tramite un montaggio frammentato e velocissimo, in cui vediamo Craig Hill sventare un agguato ai suoi danni grazie al riflesso di un'arma colto nella tazza del caffé.

L'intera pellicola, a dirla tutta, regge soltanto per il lavoro di Bianchini e del direttore della fotografia Ricardo Andreu. Oltre alla ricercatezza stilistica si coglie l'insistenza che il regista, all'epoca militante comunista, mette nel condannare la violenza perpetrata dai fuorilegge sulle donne - con le bellissime Lea Massari e Licia Calderón costrette a subire ogni tipo di sopraffazione -, cosí come il furore di alcune impennate pacifiste - la sequenza della fucilazione del soldato nordista - e anticapitaliste - l'ironia moralista del finale. Per il resto la sceneggiatura è un'accozzaglia di incongruenze e forzature e il cast, nonostante la presenza di ghigne note come José Martin e Frank Braña, è debole e poco carismatico. La faccia rigida di Craig Hill, perfetta per personaggi freddi e amorali come il Lanky Fellow di Per il gusto di uccidere, risulta invece inadeguata per un ruolo che dovrebbe teoricamente includere una certa dose di partecipazione e emotività; molto meglio Lea Massari, cui spetta la parte in qualche modo piú complessa e sfaccettata del copione. Curiosa infine la comparsata-lampo - giusto il tempo di morire - della neo-miss Italia dell'epoca Cristina Businari, peraltro clamorosamente inespressiva.

In definitiva, un piccolo western stilisticamente curato e originale, affossato da un plot insufficiente e da interpretazioni quasi mai all'altezza. Interessante, non indispensabile.


Paolo A. D'Andrea

martedì 14 maggio 2013

TV - Lonesome Dove



1989 LONESOME DOVE (miniserie in 4 episodi)
di Simon Wincer con Robert Duvall, Tommy Lee Jones, Danny Glover, Diane Lane, Robert Urich, Frederic Forrest, D.B. Sweeney, Ricky Schroder, Anjelica Huston, Chris Cooper, Timothy Scott, Glenne Headly, Barry Corbin, William Sanderson, Barry Tubb, Gavan O'Herlihy, Steve Buscem

Due ex ranger in pensione vivono alla giornata nella piccola paese di Lonesome Dove, in Texas. Allettatati dalle chiacchiere di un loro amico e collega decidono di tentare la fortuna andando a fare gli allevatori in Montana. Dopo aver rubato una mandria di cavalli in Messico partono per il lungo viaggio, attorniati da un folto gruppo di personaggi. Ne incontreranno altri ancora sul loro cammino. Si scontreranno con gli indiani, con un sadico mezzosangue, con la natura e il territorio, vedranno un amico diventare un fuorilegge e uno di loro tornerà a Lonesome Dove solo in una bara.

Fluviale miniserie TV in quattro episodi da un'ora e mezza l'uno trasmessi in America dal 5 al 8 febbraio del 1989, ottennendo un enorme successo sia a livello di audience che di critica, tanto che ancora oggi è al centro di un esteso e acceso culto. Un successo che ha dato il via ad una lunghissima serie di adattamenti televisivi delle opere del romanziere Larry McMurtry, che vedono il passaggio da una storia all'altra di alcuni personaggi ricorrenti. In Italia è relativamente noto solo il telefilm degli anni 90, arrivato da noi con il titolo "Colomba solitaria" (assurda traduzione letterale, trattandosi del nome di un paese), che racconta vicende successive a quelle di questa miniserie. Ma in generale è tutto l'universo delle miniserie western della TV americana ad essere un fenomeno quasi totalmente sconosciuto da noi. Eppure è grazie a queste se negli ultimi trent'anni il genere ha significato ancora qualcosa nel suo paese d'origine. Certo molto più che per merito del cinema.



Fama meritatissima quella di "Lonesome Dove" opera appassionante e di enorme fascino. A tutti gli effetti si tratta di un film di 6 ore, una monumentale ballata dove si compie il destino sempre malinconico, spesso tragico, di tutta una serie di personaggi i cui percorsi si incrociano e intrecciano in un West smisurato e spietato. Il suo fascino maggiore sta nell'essere allo stesso tempo una celebrazione dello spirito del pioniere americano e la negazione della retorica con cui convenzionalmente lo si celebra. Tutti i personaggi del film affrontano con stoico coraggio tutto ciò che il destino sembra riservargli e vanno dritti per la loro strada, giusta o sbagliata che sia, accettando di pagare qualsiasi prezzo per le loro scelte. Ma questa ammirata visione dello spirito americano sembra valere solo a livello individuale, perché tutto appare troppo governato dal caso o da un destino indecifrabile per poter diventare retorica storica. Significativo che a dare il titolo a tutta la vicenda sia un desolato villaggio destinato ad essere abbandonato e dimenticato. Quando nel finale il personaggio di Tommy Lee Jones vi fa ritorno, e si rende conto di aver assistito alla fine del suo mondo, ad un giornalista che tenta di intervistarlo cercando di attribuirgli una grande visione legata al progresso sociale risponde tristemente "Yes, a hell of vision", ripensando a tutti i morti e agli amici perduti.

Le vicende si intrecciano e divergono apparentemente senza seguire una vera trama. La casualità degli avvenimenti a livello spettacolare si traduce in un'efficace imprevedibilità narrativa, che nega qualsiasi catarsi e non fa mai montare gli eventi in modo convenzionale. Personaggi che sembrano dover avere un ruolo importante negli sviluppi della trama muoiono in maniera improvvisa e crudele. Il destino di altri resta in sospeso. Per quanto più annunciate, anche le morti dei protagonisti riescono a sembrare accidentali e "ingiuste". Se alla fine si stabilisce l'esistenza di una sorta di armonia, questa è ottenuta attraverso l'azzeramento della morte, che colpisce innocenti e malvagi con la medesima indifferenza.



Difficile rendere giustizia della folla di personaggi che popola e rende viva la saga senza diventare didascalici compilando un lungo e sterile elenco, dato che ci sono personaggi memorabili anche tra i caratteri minori. Come un cuoco saggio e ecologista che rifiuta di cavalcare per rispetto degli animali, un trapper ritardato innamorato senza speranze, una coppia di assassini più scalognati che letali, il padrone di un saloon suicida per amore, una vispa contadinotta che vuole scappare dal marito cariatide. E così via, in una parata all'insegna per lo più dei desideri incompiuti e dei destini spezzati.
  
Limitandoci ai protagonisti, non si può che cominciare citando un gigantesco Robert Duvall, che è Gus McCrae, un cowboy filosfo il cui fatalismo sorridente è un misto inestricabile di sensibilità e cinismo. È il vero protagonista e a lui vanno le parti più coinvolgenti e avventurose della storia. Indimenticabili i suoi duetti con l'amico caratterialmente suo esatto contrario, l'inflessibile e introverso Capitano Woodrow Call di Tommy Lee Jones, le cui decisioni sono il motore di tutta la vicenda, ma di cui in fondo resterà quasi più un testimone. A lui va però l'ultima mezz'ora della storia quando dovrà rispettare fino in fondo la più malinconica delle promesse.

Loro principali compagni di viaggio sono Danny "Arma letale" Glover nei panni di un sensibile e pacifico scout nero, Robert Urich che interpreta l'amico debosciato che trasformatosi in fuorilegge finirà impiccato proprio per mano dei suoi amici, Ricky Schroder, l'ex bambino della sitcom "Il mio amico Ricky", fa un cowboy che è il figlio non riconosciuto di Tommy Lee Jones (il personaggio interpretato da Scott Bairstow sarà poi il protagonista del telefilm del 1994), Chris Cooper nella sommessa parte di un povero sceriffo sulle tracce della moglie che lo ha abbandonato. Tra i personaggi negativi spicca l'inquietante mezzosangue Blue Duck, interpretato da Frederic Forrest, autentica forza della natura dedita solo al male altrui.

Straordinariamente complesso e ricco per un western anche il reparto femminile. Diane Lane, nel miglior ruolo della sua carriera, è una bellissima e dolce prostituta di cui praticamente tutti sono innamorati (e davvero non potrebbe essere altrimenti). Anjelica Huston è una ex fiamma di  Robert Duvall che accudisce il marito morente, materno angelo del focolare il cui ranch pare essere l'unico luogo dove i personaggi posso trovare un po' di serenità. Infine Glenne Headly è la moglie in fuga dello sceriffo, anti-eroina dell'amour fou alla ricerca dell'amante che l'ha abbandonata e pronta a sacrificare tutto per lui, anche un figlio neonato e la sua stessa vita.



Se i quattro episodi formano un'unica storia, i singoli capitoli hanno comunque una certa autonomia stilistica e tematica. Il primo Leaving (Partenza) descrive la vita indolente a Lonesome Dove prima della partenza. Il distacco dal paese assume toni quasi biblici, con tanto di eventi enigmatici, come fulmini che elettrificano la mandria e grovigli di serpenti che uccidono un cowboy nel fiume. È la parte che più ricorda i due capolavori degli anni 60 tratti da due opere di Larry McMurtry, Hud il selvaggio di Martin Ritt e L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich. Il secondo On the Trail (Sulla pista) è il capitolo più violento e drammatico, che si conclude con un autentico pugno nello stomaco per lo spettatore. Il terzo The Plains (Le pianure) è il capitolo più psicologico, dove sono più in evidenza i personaggi femminili e dove la maggior parte dei nodi narrativi giungono al pettine, sempre con conseguenze piuttosto amare. Il quarto Return (Ritorno) è il lungo epilogo crepuscolare per tutti i personaggi ancora in scena, con i momenti più toccanti e memorabili della saga. Impossibile non commuoversi a più riprese, anche se ogni tanto gli autori perdono un po' la misura e la ricerca della commozione è fin troppo smaccata.

Una sostanza tanto americana è diretta da un australiano, Simon Wincer, che in seguito tornerà più volte al western, con risultati quasi sempre interessanti. Qui amministra con mano solida una pregevole confezione televisiva, con nulla da invidiare al cinema, a parte qualche effetto speciale un po' alla buona. Molto bella anche la colonna sonora del grande Basil Poledouris.

sabato 11 maggio 2013

i film - Vecchia volpe



1982 VECCHIA VOLPE (The Grey Fox)
di Phillip Borsos con Richard Farnsworth, Jackie Burroughs, Ken Pogue, Wayne Robson, Timothy Webber, Gary Reineke, David Petersen, Don MacKay, Samantha Langevin, Tom Heaton

Tratto da una storia vera. Bill Miner, rapinatore di diligenze noto come "Il bandito gentiluomo", viene rilasciato ormai anziano nel 1901 dopo 33 anni di carcere. Cerca di rifarsi una vita con la famiglia della sorella, ma senza riuscire ad adattarsi ad una realtà troppo cambiata. Trasferitosi in Canada torna a fare l'unica cosa che sa fare bene: il rapinatore. Anche se non più di diligenze, ma di treni.

Titolo canadese, crepuscolare all'ennesima potenza, uscito e disperso nel periodo più buio per il western, quando l'ancora fresco disastro de I cancelli del cielo aveva reso il genere il nemico pubblico numero uno di tutti i produttori e distributori. E se questo era vero per ogni tipo di western lo era ancora di più per una pellicola come questa, la cui radicalità nel rifiutare qualsiasi concessione al mito ricorda proprio quella del film di Cimino. Intendiamoci, sono due film totalmente diversi, tanto furioso, stordente e romanticamente disperato è I cancelli del cielo, tanto dimesso, laconico e sottotono è questo. Si assomigliano molto però a livello estetico, con la messa in scena "eretica" di un West iperrealistico, irriconoscibile a livello iconografico. I personaggi non indossano i tradizionali cappelli Stetson, giacche di pelle e bandane, ma dei più attendibili borsalini, giacche di fustagno e colletti inamidati. Dettagli stranianti per quanto paradossalmente realistici sono anche il continuo mostrare oggetti meccanici di uso comune, vedere il protagonista che lavora in una fabbrica o che ascolta un'aria d'opera con un grammofono.



Il film è ambientato ai primi del 900, in un Canada uggioso e autunnale, quando l'epopea del West era finita da un pezzo, ma l'aria che si respira nel film lascia intendere che quell'epopea non è neanche mai esistita o che comunque era stata qualcosa di molto diverso da quanto poi idealizzato. In una delle prime sequenze il protagonista va a vedere al cinema La grande rapina al treno di Edwin S. Porter, il film del 1903 che convenzionalmente viene considerato il primo film western della storia. Beffardamente proprio da quella visione prenderà spunto per riprendere la sua carriera criminale, ma la goffa e crudele realtà delle rapine di cui sarà protagonista cozzerà con la pur ingenua spettacolarità del film.

Le rare sequenze di violenza sono quanto di più anti-spettacolare e disadorno si possa immaginare. Tutto appare casuale e viene raccontato con uno stile freddo e compassato. Ad esempio, in un'improvvisa divagazione della trama il protagonista accompagna un suo amico sceriffo nella caccia di un uomo che in un momento di follia ha sterminato la sua famiglia: lo ritroveranno banalmente morto congelato su un filo spinato. Questa mancanza di ogni potenziale catarsi, sommata alla rinuncia di ogni giudizio morale sui personaggi, crea una sorta di tensione sotterranea che attraversa l'intero film e trasmette la sensazione di una violenza che, anche se non esplode mai, è comunque sempre presente e permea i rapporti tra tutti i personaggi.



Motore e anima del film è l'interpretazione di Richard Farnsworth, nei panni di un personaggio ambiguo e indefinibile. Grandissimo caratterista Farnsworth è stato protagonista assoluto solo in due occasioni, in questa e nel suo ultimo film "Una storia vera", lo struggente capolavoro di Lynch del 1999. In questo caso mette la sua faccia da volpe saggia al servizio di un personaggio simpaticamente amorale, criminale più per carattere e mancanza di voglia di lavorare che per avidità, non però privo di lati oscuri, visto che comunque le sue azioni provocano delle vittime e quando serve sa essere duro verso i suoi complici. Bello il suo rapporto con una sgraziata ma vispa zitella, interpretata da un'altra caratterista dalla filmografia chilometrica, Jackie Burroughs.

Sono questi due magnifici attori e tutto l'azzeccato cast di contorno a dare il giusto tocco di calore e umanità ad un film che avrebbe rischiato di restare vittima del suo stesso rigore antispettacolare e cronachistico.

giovedì 9 maggio 2013

i film - Correva nel vento (Windwalker)



1981 CORREVA NEL VENTO (WINDWALKER)
di Kieth Merrill con Trevor Howard, Billy Drago, Nick Ramus, Serene Hedin, Dusty McCrea, Silvana Gallardo, Emerson John, Jason Stevens, Roberta Deherrera, Ivan Naranjo

Prima di lasciare questo mondo, anzi dopo averlo lasciato e essere ritornato, l'anziano guerriero cheyenne Windwalker (Trevor Howard, uguale a Cavallo Zoppo, lo stregone indiano mentore di Magico Vento) deve difendere la propria famiglia da una banda di predoni crow. Il destino o il Grande Spirito hanno in serbo per lui un altro strano scherzo, visto che uno degli avversari è il figlio che gli era stato rapito quando era giovane (ed era interpretato dal quasi irriconoscibile "guerriero della notte" James Remar).

Tratto da un romanzo di Blaine Yorgason è il caso raro di un film con gli indiani senza ombra di uomo bianco (parliamo di personaggi, visto che gli attori sono i soliti bianchi truccati). Nella seconda metà degli anni 70 c'era stato qualche tentativo di riavvicinare il pubblico più giovane al declinante western recuperando gli scenari più selvaggi del genere, raccontando magari di trapper e indiani liberi piuttosto che di cowboy e indiani scappati dalle riserve. Questo film si inseriva un po' in quel filone, ma a modo suo.

È infatti probabilmente l'unico serio tentativo di agganciare il western ad un certo tipo di immaginario fantastico che allora spopolava. A parte qualche visione misticheggiante e l'idea del protagonista che torna in vita (senza nessuna spiegazione), non ci sono veri elementi fantastici nella trama, ma il film è sostanzialmente girato come fosse un fantasy, con gli indiani che potrebbero essere gli abitanti di un qualche pianeta selvaggio dell'universo di "Guerre stellari". La straordinaria fotografia si rifà palesemente alla illustrazioni fantasy, tanto che visivamente il film a cui è più facile accostarlo è "Excalibur" di Boorman. A tratti la voglia di creare belle immagini prende la mano agli autori che finiscono nel patinato, ma il fascino gelido dei paesaggi innevati e la dura lotta per la sopravvivenza che viene messa in scena donano all'insieme un tono di sana crudeltà.



Non è di sicuro un film che spettacolarizza o vuole fare della facile epica sulla vita degli indiani, nonostante il tocchi fiabeschi del racconto. La storia è scarna e sottotono, il ritmo è lento, l'atmosfera malinconica, i personaggi vengono tutti mostrati come fragili e umani, le scene di lotta e gli scontri trasmettono più che altro un senso di confusione e disperazione. Inoltre, anni prima di Balla coi lupi, ci sono molte scene recitate in lingua indiana con i sottotitoli. Tutte caratteristiche che la rendono una pellicola affascinante e particolare, ma un po' troppo aspra se l'intenzione era quella di intercettare il pubblico che in quel periodo affollava le sale per vedere "L'impero colpisce ancora".

Sembra una fiaba girata con occhio antropologico. Non a caso il regista Kieth Merrill è un apprezzato documentarista, non nuovo per altro alle tematiche riguardanti il vecchio West, visto che nel 1973 aveva vinto un oscar con un documentario sul rodeo "The Great American Cowboy". Il suo primo film di finzione nel 1977 fu Three Warriors, un film per ragazzi a sfondo educativo con diversi punti di contatto con "Windwalker", che vede come protagonista un ragazzo nativo americano alla scoperta delle sue origini grazie al rapporto con suo nonno e un cavallo. Contemporaneamente all'uscita di "Windwalker", nel novembre del 1981 in tv venne trasmesso un suo adattamento di un romanzo di Louis L'Amour, The Cherokee Trail un altro western atipico, raccontato dal punto di vista di una ragazzina.



All'epoca il film non ottenne alcun successo, anche perché ebbe la micidiale sfortuna di essere il primo western (o pseudo tale) uscito dopo I cancelli del Cielo di Cimino, il cui colossale disastro commerciale decretò praticamente la messa al bando per quasi un decennio di tutto il genere. Distribuito in America all'inizio del 1981 venne quasi subito ritirato dalla circolazione per poi venir distribuito con poca convinzione nel resto del mondo negli anni successivi.

Almeno in Italia qualche sporadico passaggio televisivo, in qualche pomeriggio degli anni 80, gli ha donato quell'alone vagamente misterioso e "segreto" che hanno i film visti da pochi e ricordati in modo vago e frammentario anche da quei pochi. Comunque restando al cinema di quegli anni più da accostare a film come "Dark Crystal" o "Il drago del lago di fuoco" che non ai classici western.

martedì 7 maggio 2013

i film - Testa o croce



1969 TESTA O CROCE
di Piero Pierotti, con John Ericson, Sheyla Rosin, Daniela Surina, Edwige Fenech, Franco Lantieri, Isarco Ravaioli, Silvana Bacci, Antoinetta Fiorita, Dada Gallotti, Loris Gizzi, Ugo Pagliai

La prostituta Shanda Lee, ingiustamente accusata di omicidio, viene scortata per il processo in una vicina città dagli uomini dello sceriffo, che però durante il tragitto la violentano e la abbandonano nel deserto. Viene salvata dal pistolero vagabondo Black Talisman che, innamoratosi di lei, decide di vendicarne lo stupro e scoprire il vero colpevole del delitto di cui è accusata.

Nel Dizionario dei Western all’italiana di Marco Giusti viene definito un “piccolo western tutto sesso e violenza”. Insomma… di sesso non ce n’è molto e di violenza ancora meno. In compenso il film è davvero “piccolo”, dato che è girato con una terribile povertà di mezzi nella pineta intorno a Tirrenia, in Toscana. Però si tratta di un film a suo modo davvero curioso e interessante, poiché del tutto anomalo all’interno del genere, visto che sposa un inedito punto di vista femminile, è interamente percorso da una insistita vena erotico-morbosa e ha un’atmosfera tragica e priva di speranza, che lo fa assomigliare più a certe pellicole della fine del filone come Una donna chiamata apache che non agli spaghetti western suoi coevi.



Il regista Piero Pierotti (1912-1970), specializzato in film avventurosi a basso costo e al suo unico western (genere che aveva in precedenza affrontato marginalmente con un film di Zorro e con il folle Sansone e il tesoro degli Incas, un peplum traformato in western in corso di lavorazione per sfruttare il successo di Per un pugno di dollari), autore anche del soggetto e della sceneggiatura, dimostra inoltre di avere alcune buone idee e, nonostante certi dialoghi siano alquanto deliranti e talune scene piuttosto rozze, tutto sommato il suo film ha una sua forza narrativa, con un ammirevole tentativo di approfondimento psicologico dei personaggi, che sono tutti variamente pervertiti, tranne il protagonista, mentre le donne vengono indistintamente picchiate, brutalizzate, stuprate e finanche arse vive.

E’ piuttosto efficace anche l’attore protagonista, l’americano John Ericson (che pare sia intervenuto di persona per completare il budget necessario a terminare la lavorazione del film), nel ruolo del fuorilegge dall’assurdo nome di Black Talisman ed è notevole anche il finale in cui si lascia volutamente uccidere dagli uomini dello sceriffo per fare intascare alla donna di cui si è innamorato la taglia che pende sulla sua testa.



Il film è di un certo “culto” tra gli appassionati anche per la presenza di una giovanissima e spettacolare Edwige Fenech, in uno dei suoi primissimi ruoli, che interpreta una prostituta messicana che viene denudata e fustigata nella pubblica piazza prima di essere ricoperta di pece e piume, in una scena che probabilmente farà la gioia degli amanti del sadomaso.



Ma tutto il folto comparto femminile del film è degno di nota, da Sheyla Rosin nel ruolo della protagonista Shanda Lee a Daniela Surina in quello della perversa e masochista dark lady, da Dada Gallotti come ballerina di saloon a Silvana Bacci come improbabile indiana.
Non male nemmeno la colonna sonora di Carlo Savina.

Da riscoprire.

lunedì 6 maggio 2013

i film - Quanto costa morire



1968 QUANTO COSTA MORIRE
di Sergio Merolle con Andrea Giordana, John Ireland, Bruno Corazzari, Raymond Pellegrin, Sergio Scarchilli, Claudio Scarchilli, Giovanni Petrucci, Fulvio Pellegrino, Mireille Granelli, Ruggero Cressa, Betsy Bell, Giuseppe Altamura 

Bloccati dalla neve, degli spietati ladri di bestiame cercano rifugio in un piccolo villaggio, dove non tardano a rivelare la loro natura. Lasciato praticamente da solo dai suoi compaesani lo sceriffo ci rimette la pelle nel tentativo di affrontarli. Diventati i dominatori del paese i fuorilegge sottomettono e angariano la popolazione. Solo il giovane protetto dello sceriffo ha il coraggio di darsi alla macchia per combatterli, trovando l'aiuto di uno dei banditi, che in realtà è suo padre.

Come si può intuire dalla trama è un minuscolo e convenzionale prodotto di serie B, ma allo stesso tempo è anche qualcosa di completamente diverso e probabilmente unico all'interno nel genere. Si tratta infatti di uno spaghetti-western influenzato dal cinema neorealista, perlomeno quello praticato da autori come Pietro Germi e Giuseppe De Santis, che tentavano una fusione tra una spettacolarità più popolare e le tematiche sociali tipiche del movimento. In questo caso è evidente l'intenzione di servirsi del western come metafora per trattare della Resistenza partigiana e dei limiti entro cui è giusto ricorrere alla violenza. Ne esce uno spaghetti-western che va in senso completamente opposto alla tipica amoralità del genere, se si considera che nel film sostanzialmente si condanna la violenza individualista e si giustifica solo quella fatta per il bene della collettività.



Praticamente privo di influenze leoniane, si distingue anche per essere uno dei rari western italiani girati in un formato d'immagine simile a come quello dei classici americani degli anni 30 e 40 e non nella consueta orizzontalità del Techniscope nostrano, variante economica del Cinemascope hollywoodiano. Anche lo stile è da film drammatico più che da film d'azione, con persino delle evidenti influenze del cinema sovietico, da cui sono ripresi le lente carrellate laterali, la composizione quasi geometrica di alcune inquadrature e la cura negli stacchi di montaggio.

Decisamente atipico anche l'uso delle montagne abruzzesi come set. Gli autori non fanno nulla per nascondere l'italianità dei paesaggi e delle case di pietra. Anche le scene in interni, pur arricchite con elementi scenografici più western, hanno più da rustico italiano che da selvaggio West. Grazie alla bella fotografia una così smaccata esibizione della falsità della messinscena diventa a suo modo una scelta di stile coerente e affascinante. Un po' per questa straniante aria italiana, un po' per la compostezza della regia, un po' per la presenza di Andrea Giordana, il film ha un'aria che ricorda l'atmosfera ovattata e austera degli sceneggiati Rai di quegli anni.

Di stampo neorealista anche l'uso degli attori. A parte i quattro protagonisti, gli attori secondari sono tutti visibilmente non professionisti, e come tali usati più come facce che come caratteri. Particolare anche l'uso del grande caratterista francese Raymond Pellegrin, non a caso qui nell'unico titolo western di tutta la sua lunghissima carriera, nella parte di uno sceriffo molto umano e molto poco convenzionalmente eroico.
Al suo terzo e purtroppo ultimo spaghetti-western, Giordana ha la parte non troppo interessante di un giovane alle prime armi, ma dimostrava ancora di avere un fisico e una faccia perfette per il genere, anche se la sua aria tenebrosa funzionava meglio in ruoli più ambigui e tormentati, come nel bellissimo El Desperado.
Uniche facce ricorrenti nel genere sono dunque quella di uno statuario John Ireland, nella parte del bandito redento, e quella dell'attivissimo caratterista Bruno Corazzari, nero vestito e nazistoide nella parte del capo dei cattivi.



Primo e ultimo film come regista di Sergio Merolle. Era stato un direttore di produzione, anche per autori di alto blasone quali Visconti, Maselli, Questi e Pontecorvo. Come regista se n'è uscito con un miscuglio di rigidità didascalica, genuinità popolare, raffinatezze visive, semplicità naïf chissà quanto volontaria e scene d'azione di buona efficacia. I presupposti con cui si avvicina al western ricordano molto quelli di un altro misconosciuto regista-meteora del genere, il Gian Rocco di Giarrettiera Colt, ma i risultati non potrebbero essere più diversi. Se infatti il film di Gian Rocco è un delirante e coloratissimo teatrino pop, "Quanto costa morire" è un drammatico e lineare racconto di sacrificio e presa di coscienza sociale, la cui serietà è sottolineata dalle sue atmosfere cupamente invernali.

E il grande limite del film è appunto la sua impostazione fin troppo severa. Stonano con la seriosità di fondo alcune ingenuità da cinema di puro intrattenimento e soprattutto manca totalmente l'ironia sotterranea degli spaghetti-western, che praticamente emerge solo in una gag isolata: i banditi abusano delle donne del paese, tranne uno finito in casa di una racchia. I dialoghi sono sentenziosi e altisonanti, con i personaggi fin troppo consapevoli dei loro ruoli sociali, tanto che non smettono di chiosare i loro punti di vista anche in punto di morte. Esagerato anche il parallelo tra banditi e nazisti, con il biondo capo della banda esplicitamente descritto come un teorico dell'omicidio visto come risoluzione "tecnica" dei problemi, e i paesani schiavizzati stile campo di concentramento non si comprende bene a quali scopi.

Eppure il film non merita l'invisibilità e la considerazione quasi nulla di cui è da sempre soggetto. Riesce almeno ad essere un'operina curiosa e a suo modo affascinante, l'ennesima dimostrazione dell'impressionante varietà di stili, umori e tematiche che ribollivano nel gran calderone del western nostrano.

Titoli internazionali: Les colts brillent au soleil / Le prix de la mort (Francia), Taste of Death / Cost of Dying (U.S.A.), Cuanto Cuesta Morir (Spagna)

venerdì 3 maggio 2013

prossimamente - The Salvation



Tempo fa avevamo accennato a una sempre maggiore “globalizzazione” del genere Western e di come questo venga ultimamente affrontato da cinematografie che non hanno mai avuto una tradizione in merito: a riprova di questa tendenza arriva ora The Salvation, un western di produzione danese attualmente in lavorazione in Sudafrica.

Il film, ambientato nell’America del 1870, racconta un’epica storia di vendetta ispirata ai classici del filone ma anche alla mitologia nordica e vichinga.
Il protagonista della pellicola è Mads Mikkelsen, il grande attore danese feticcio del regista Nicolas Winding Refn (per cui ha recitato nella trilogia Pusher e in Valhalla Rising), vincitore del premio per la migliore interpretazione maschile lo scorso anno al Festival di Cannes per Il Sospetto di Thomas Vinterberg e attualmente protagonista nei panni del Dottor Lecter nella serie televisiva Hannibal.
The Salvation è scritto, insieme al premio Oscar Anders Thomas Jensen, e diretto dal regista Kristian Levring, uno dei firmatari del movimento Dogma 95.
Il cast del film, che uscirà nell’ottobre 2014, è particolarmente sontuoso e oltre a Mikkelsen vede anche Eva Green, Jonathan Pryce, Jeffrey Dean Morgan, Mikael Persbrandt, Michael Raymond-James e l’ex-stella del Manchester United Eric Cantona.

giovedì 2 maggio 2013

i film - Bandidos



1967 BANDIDOS (Crepa tu... che vivo io!)
di Massimo Dallamano, con Enrico Maria Salerno, Terry Jenkins, Venantino Venantini, Chris Huerta, Maria Martin, Marco Guglielmi

Un anziano pistolero si ritrova con le mani spappolate dopo uno scontro con un suo ex-allievo divenuto fuorilegge. Anni dopo, mentre gira il West con un carrozzone esibendo pistoleri da baraccone, incontra un giovane molto svelto con la pistola. Lo istruisce per farne il tramite della sua vendetta, ma il finale sarà amaro per tutti.

Il cinema di genere italiano degli anni sessanta e settanta è stato un’incredibile fucina di talenti, forse unica per qualità e quantità in tutta la storia del cinema, che accanto a riconosciuti e celebrati Maestri della Settima Arte (Leone, Bava, Argento…) e grandi autori che hanno rivoluzionato i generi nei quali si sono cimentati (Corbucci, Di Leo, Castellari, Fulci…) ha espresso decine e decine di altri professionisti meno noti al grande pubblico ma in possesso di un invidiabile bagaglio di competenze tecniche e qualità espressive.
Massimo Dallamano, nato a Milano nel 1917 e scomparso prematuramente a Roma nel 1976, è stato tra questi ultimi. Praticamente sconosciuto presso il pubblico dei non aficionados, è stato un direttore della fotografia e un regista dallo stile raffinato e geniale.
Anche i suoi film più ortodossi, come i poliziotteschi degli anni settanta, sono ricchi di finezze di regia, invenzioni visive e movimenti di macchina fluidi e eleganti.



Il suo contributo al western all’italiana, nonostante abbia realizzato un solo titolo come regista (poi preferirà dedicarsi a thriller e drammi spesso molto morbosi ed erotici, tra i quali ricordiamo almeno Che cosa avete fatto a Solange?), non è stato per niente secondario: Dallamano è stato infatti uno degli uomini che hanno contribuito al lancio e al conseguente boom commerciale dello spaghetti-western, firmando – con lo pseudonimo di Jack Dalmas – la fotografia dei primi due western di Sergio Leone, Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più (oltre a quella degli altrettanto anticipatori Duello nel Texas e Le pistole non discutono).

Per il suo esordio come regista – dove si firmerà stavolta Max Dillman – Dallamano non poteva quindi che rivolgersi proprio al western, e lo fa con questo gran bel film del periodo d’oro del genere interpretato da Enrico Maria Salerno, la mitica “voce” di Clint Eastwood nei film di Leone: un altro di coloro che hanno avuto un ruolo fondamentale nello stabilire le coordinate del filone.



Nonostante gli ammazzamenti in puro stile “spaghetti” (assolutamente notevole la strage iniziale nel treno, forse il pezzo più bello del film) per compattezza e disegno dei personaggi la pellicola sembra più vicina a un western americano di stampo classico che non a quelli leoniani, da cui Dallamano sembra quasi volere prendere le distanze (forse per ripicca verso Leone, che gli preferì Tonino Delli Colli per il terzo capitolo della Trilogia del dollaro, tanto che Alex Cox nel suo saggio 10.000 ways to die parla esplicitamente di film anti-leoniano).
Né il regista né molti degli attori protagonisti torneranno più al genere, cosa che dona all’opera una certa aria di unicità e singolarità, come anche le scene in esterni, che anziché nel familiare deserto di Tabernas in Almeria sono girate nella verdeggiante Spagna del Nord.

Da grande direttore della fotografia Dallamano esordisce “col botto”, con una regia talentuosa, ricercata e piena di trovate visive, non risparmiandosi in raffinatezze e pezzi di bravura e realizzando un’opera visivamente quasi pittorica, curata in tutte le tonalità delle luci e nei minimi cromatismi delle scene, come viene sottolineato esplicitamente nella famosa scena al saloon che cita il dipinto La morte di Sardanapaolo di Eugene Delacroix.



Grande anche la costruzione visiva di tutte le sequenze di sparatorie, con almeno un paio (quella al saloon e quella dello straordinario finale) assolutamente memorabili.
Ottimo il cast, con Enrico Maria Salerno ovviamente a svettare su tutti, ma anche Venantino Venantini, nel ruolo del cattivo imbattibile con la pistola, e Chris Huerta, in quello del messicano alla Mario Brega, sono bravissimi.
Grande score di Egisto Macchi, indovinata variazione dei famosi temi morriconiani.
Decisamente convincente anche il lavoro degli sceneggiatori nel tratteggiare dei personaggi di grande complessità psicologica e nel proporre l’ennesima riuscitissima variante sul tema della vendetta, soggetto privilegiato dell’italico western.

martedì 30 aprile 2013

i film - Diamante Lobo / L'uomo di Santa Cruz



Ultimo capitolo della nostra rassegna dedicata ai western di produzione americana girati in Spagna. Siamo arrivati al 1973, in cui vennero messi in cantiere tre titoli. Sorvoliamo su Valdez, il mezzosangue (Chino), ultimo film del vecchio John Sturges, racconto intimista e vagamente crepuscolare tutto americano.


Patty Shepard in "Lo Chiamavano Mezzogiorno"

Abbiamo già scritto dell'intrigante Lo chiamavano Mezzogiorno (The man called Noon) di Peter Collinson. Tratto da un romanzo Louis L'Amour e afflitto dal solito demenziale titolo italiano tipico del periodo, può essere probabilmente considerato l'ultima convinta produzione di un western euro-americano, in cui ancora cercavano di convivere un certo gusto per i caratteri e l'azione della tradizione americana con certe influenze degli spaghetti western.



Charley One-Eye di Don Chaffey, inedito in Italia, è un introvabile e probabilmente parecchio interessante western picaresco, legato al versante più politico e autoriale della blaxploitation, presentato addirittura al festival del cinema di Berlino e vicino ad un certo cinema terzomondista molto in voga all'epoca. Storia molto allegorica dell'amicizia tra un disertore nero (Richard Roundtree, la star black per eccellenza del periodo dopo il successo di "Shaft"), uno strampalato meticcio e un pollo guercio. Ne riparleremo, quando si spera capiterà l'occasione di vederlo.   

* * *

Nel 1975 si ricompone l'accoppiata di El Condor formata da Jim Brown e Lee van Cleef, più altre due star della blaxploitation, nel divertente La parola di un fuorilegge è legge. Film prodotto dalla Fox, ma diretto dal nostro Antonio Margheriti, quindi considerabile come un tradizionale western all'italiana. Per altro il film non venne girato in Spagna, ma nelle Isole Canarie.

Un set ancora più inconsueto hanno gli ultimi due film presi in considerazione dalla nostra rassegna, due film "gemelli" girati nel 1976 addirittura nel deserto israeliano. Dopo che per anni le produzioni americane avevano significato budget ricchissimi o comunque molto al di sopra degli standard europei, alla fine si tornava alle pellicole di scarto girate con due soldi come nei primi anni 60. Il primo è un tardissimo "spaghetti" diretto da Gianfranco Parolini che gode della tremenda fama di essere uno dei peggiori western di tutti i tempi. Fama assurda, visto che il film è senz'altro mediocre e raffazzonato, ma anche solo ai tempi d'oro dei western all'italiana si era visto infinitamente di peggio.

1976 Diamante Lobo (God's Gun)

di Gianfranco Parolini, con Lee Van Cleef, Jack Palance, Richard Boone, Sybil Danning, Leif Garrett, Rafi Ben Ami, Heinz Bernard, Ricardo David

di Mauro Mihich
 
Primo western dei produttori israeliani Menahem Golam e Yoran Globus (si faranno un nome negli anni ottanta con la loro casa di produzione Cannon, specializzata in b-movies d’azione e guerrafondai, quelli di Chuck Norris e della serie "American Ninja" per intenderci), ultimo per il nostro Frank Kramer al secolo Gianfranco Parolini e penultimo per il grande Lee Van Cleef, che dopo il “gemello” L’uomo di Santa Cruz abbandonerà definitivamente il genere che gli aveva dato notorietà internazionale e un posto indelebile nel cuore degli appassionati.

E’ proprio lui uno dei pochi motivi per vedere un film che anche se non si merita appieno la pessima fama di cui è oggetto è stato diretto con la mano sinistra da un Parolini abbandonato insieme a tutta la sua troupe nel deserto del Negev in Israele, dove il film è stato girato in condizioni proibitive, nonostante il pessimo servizio fattogli dalla sceneggiatura, che gli ritaglia il doppio ruolo di un prete (!), che viene fatto fuori dopo neanche mezzora di film, e del fratello gemello, il protagonista del titolo, che accorre per vendicarlo e che per farlo ne indossa l’abito talare (a un certo punto, in flashback, i due sono pure in scena assieme) e si fa passare per lui, in un finale dai toni quasi horror. Il film vanterebbe anche una discreta dose di sesso e violenza, aggiornata agli anni settanta in cui è stato girato, con buchi in fronte e teste spappolate, ma purtroppo sconta troppo il ritmo piatto e televisivo, i lunghi dialoghi e le pessime comparse israeliane, che indispongono anche lo spettatore più accomodante verso il genere.



Un peccato perché, a parte l’insopportabile Leif Garrett, all’epoca famoso cantante pop adolescente, che per fortuna a metà film perde la voce, il film conterebbe anche su un buon cast, a iniziare dal sempre ottimo Jack Palance che interpreta da par suo il cattivone vestito di nero e col sorriso perennemente stampato sul viso, per proseguire con la vecchia star dei western americani Richard Boone, fino a una sfavillante Sybil Danning, attrice di un certo culto tra gli amanti della serie B.
Nonostante i tempi dei vari Sartana, Sabata e Indio Black siano ormai inesorabilmente lontani e manchi quasi del tutto delle sue celebri “parolinate”, la regia del cineasta romano dimostra comunque ancora un certo mestiere, con preziosismi come quello di racchiudere l’inizio e la fine del film dentro il riquadro di un teatrino delle marionette, oppure con il finale leoniano al cimitero indiano, coreografato molto bene. Molto bella, come sempre nei western di Parolini, la colonna sonora, opera di Sante Romitelli.

1977 L'uomo di Santa Cruz (Kid Vengeance)

di Joe Manduke con Lee Van Cleef, Jim Brown, Leif Garrett, Timothy Scott, Glynnis O’Connor,, John Marley, David Loden, Dalia Penn, Matt Clark

Pur avendo tutta l'aria di essere il gemello povero del film di Parolini, quindi girato con gli scarti di una pellicola già abbastanza misera di suo, è però decisamente più riuscito. Entrambi al loro ultimo ruolo western, Lee Van Cleef e Jim Brown tornano ancora volta insieme in un minuscolo film quasi no-budget. Praticamente tutto ambientato in un deserto, vede in scena per tutta la sua durata al massimo una trentina di attori, contando anche le comparse. A sommare tutte le scene in cui recita Brown non starà sullo schermo più di un quarto d'ora, mentre Lee Van Cleef fa il cattivo. La star che nelle probabili intenzioni dei produttori (sempre Golam e Globus) doveva attirare il pubblico è il ragazzino protagonista Leif Garrett, melensa stellina pop dell'epoca, in seguito famoso più che per altro per i suoi abusi di stupefacenti e per i soliti eccessi da ex-bambino prodigio. 



La storia è quella di un ragazzino che si vede uccidere i genitori e rapire la sorella da un branco di scatenati fuorilegge. Dopo averli inseguiti e averne uccisi un bel po' da solo e con i metodi più fantasiosi, con l'aiuto di un minatore di colore tenterà di salvare la sorella affrontando il resto della banda nel suo covo.

Il bello di tutta l'operazione è che il film era chiaramente indirizzato ai giovanissimi fans di Leif Garrett. E in quell'epoca decisamente pre-politicamente corretto c'era evidentemente chi era convinto che si potesse prendere un classico canovaccio da rape & revenge e tirarne fuori appunto un film per ragazzi. Oltre agli omicidi e le violenze di rito di un qualsiasi western per adulti, un giovane spettatore di allora che assisteva a questo film poteva dunque deliziarsi con sequenze tipo quella del protagonista che assiste allo stupro e all'uccisione di sua madre, o tutte quelle in cui si vede il piccolo eroe che uccide nelle maniere più efferate i suoi nemici: uno lo fa fuori a badilate in testa, un altro lo impicca con un lazo, un paio li uccide usando scorpioni e serpenti, un altro ancora lo lapida. E così via. In tutto questo trova per contrasto una sua paradossale funzionalità l'aria efebica e angelica di Garrett, vestito pure tutto elegantino. 

Naturalmente la contraddittorietà dell'operazione oggi gioca a favore del film, rendendolo un'operina insolita e insospettabilmente ben fatta, pur con tutti i mostruosi e visibili limiti di budget. Il protagonista sembra una versione grandguignolesca del Jim Hawkins de "L'isola del tesoro", un ragazzino precipitato in un mondo di canaglie da cui difendersi con tutti i mezzi possibili. Parallelo forse non del tutto campato in aria tenendo conto del look decisamente piratesco sfoggiato da Lee Van Cleef con vistoso orecchino e bandana. Il suo personaggio non è però un Long John Silver del West, ma una carogna depravata che non suscita alcuna simpatia, anche se poi si rivela non del tutto privo di risvolti umani, come dimostra nell'ambiguo rapporto con la sorella del protagonista. In effetti il film può contare su delle inaspettate sfumature psicologiche, almeno relativamente alla sua rozza natura di revenge movie. Soprattutto nella spiazzante parte finale, dove vediamo gli assassini che tornano al loro paesino dove ad attenderli trovano famiglie e figli. Di conseguenza quando arriva il massacro conclusivo tutto risulta molto meno catartico e molto più amaro del previsto.



Al di là dei problemi legati al povertà della produzione, il film sconta anche delle ingenuità. Il protagonista in alcuni momenti sembra quasi invisibile nel suo riuscire ad avvicinarsi e poi a sfuggire ai suoi nemici, che a loro volta sembrano a tratti un po' troppo inebetiti. Inoltre non torna molto la logica degli spostamenti nel deserto, con personaggi appiedati che raggiungono con troppa facilità gente che viaggia a cavallo.
Altro punto a favore è invece la presenza come terzi incomodi di una coppia di balordi (uno dei quali è il grande caratterista Matt Clark), tipiche figure del cinema anni 70, in costante bilico tra comicità e violenza pronta ad esplodere. A differenza che nel film gemello vengono inoltre egregiamente sfruttate le particolarità del territorio israeliano, con le strane e belle formazioni rocciose del deserto del Negev che donano alla storia un'atmosfera insolita e lunare.  

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Nel 1978 l'eccentrico Amore piombo e furore (China 9, Liberty 37) di Monte Hellman segna definitivamente la fine dei tentativi di mescolare il western americano con il del resto ormai morto e sepolto western europeo, la cui influenza in quel caso si limita infatti quasi solo alla presenza di Fabio Testi come protagonista. In seguito verrà girato qualche altro western americano in Spagna, ma senza che la location abbia alcuna influenza sullo stile e l'estetica dei film.