venerdì 27 luglio 2012

segnalazioni - Il Western italiano



IL WESTERN ITALIANO (o "all'italiana", come dicono i detrattori negli anni Sessanta) nasce in un momento di crisi del nostro Paese, quando lo slancio del miracolo economico si è esaurito. Per questo Per un pugno di dollari di Leone e i film di Corbucci e Tessari vengono subito letti come lo specchio di una società arrivista, cinica e consumista. Ma il western italiano ha in sé anche una vocazione ribelle e terzomondista, come mostra il filone dedicato alla rivoluzione messicana inaugurato da Quién sabe? di Damiani. E al tempo stesso ammette una declinazione ironica e comica, che esplode nel 1970 con Lo chiamavano Trinità… caratterizzando la sua fase conclusiva. Partendo dal dibattito dell’epoca (Soldati, Moravia, Spinazzola, Kezich…), questo libro ricostruisce la ricezione di un genere complesso e dalle molte sfaccettature, evitando i pregiudizi e smontando tanti luoghi comuni. Servendosi di fonti spesso dimenticate e di riletture aggiornate, intende fare luce sul contesto culturale, il rapporto con il western americano, i modi produttivi, le innovazioni stilistiche, la diffusione al di fuori dell’Italia.

ALBERTO PEZZOTTA (1965) è autore tra l’altro di La critica cinematografica, Regia Damiano Damiani, Tutto il cinema di Hong Kong e di quattro “Castori” (Mario Bava, Clint Eastwood, Abel Ferrara e Mauro Bolognini, quest’ultimo con Pier Maria Bocchi). Ha curato con Anna Gilardelli Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990 di Alberto Moravia. Scrive su «Corriere della Sera», «Cineforum», «Ciak» e il Mereghetti.

Editore Il Castoro
Collana Italiana
Anno pubblicazione 2012
Prezzo € 15,50
Numero pagine 179

mercoledì 25 luglio 2012

i film 43 - Due occhi di ghiaccio



1968 DUE OCCHI DI GHIACCIO (Blue)
di Silvio Narizzano (e Yakima Canutt), con Terence Stamp, Joanna Pettet, Karl Malden, Ricardo Montalban, Sally Kirkland, Robert Lipton, Sara Kevin Corcoran, Anthony Costello

A dispetto del nome del regista, in realtà canadese, in questo western di italiano non c’è niente, e anche se l’autorevole sito Spaghetti Western DataBase lo classifica come un Eurowestern di origine inglese su tutte le altre fonti da noi consultate risulta di produzione interamente americana.
A supporto della seconda ipotesi ci sarebbe anche fatto che il film è stato girato nei classici scenari dello Utah e del Colorado (mentre i western inglesi di norma venivano girati in Spagna), anche se l’inizio messicano, con il protagonista dagli occhi azzurri con il poncho e il cappellaccio calato sugli occhi, lo farebbe davvero assomigliare a un prodotto europeo.
Poi, però, dopo i titoli di testa la pellicola diventa una via di mezzo tra certo western americano ridondante dei primi anni sessanta e i dirty western di Sam Peckinpah (il massacro finale durante l’attraversamento del fiume ricorda molto da vicino quello di Sierra Charriba).

Comunque sia, si tratta di un film poco conosciuto, ancora meno considerato e ingiustamente stroncato un po’ da tutti.



Nonostante certe lentezze e certi eccessi melodrammatici è una pellicola che possiede una sua originalità, delle raffinatezze di regia (soprattutto il finale) e un protagonista con dei bei risvolti psicologici: un eroe controvoglia, fragile, tormentato e non privo di una certa grandezza tragica.
La trama riflette chiaramente la mancanza di certezze della fine degli anni sessanta, rifiutando la canonica e manichea distinzione tra buoni e cattivi e facendo del protagonista il più classico degli antieroi.

Terence Stamp è Azul (cioè blu, dal colore degli occhi), il figlio adottivo di un bandito messicano (Ricardo Montalban) che dopo l'ennesimo raid negli Stati Uniti rimane ferito e viene ospitato presso l'abitazione di un medico (il sempre convincente Karl Malden) e di sua figlia (la bionda Joanna Pettet). Il nostro a questo punto sarà protagonista di una progressiva crisi di coscienza, che lo spingerà ad abbandonare la violenza con cui ha sempre convissuto per iniziare un’esistenza normale. Quando le cose sembrano andare per il verso giusto, il padre del ragazzo farà ritorno dal Messico per riprendersi suo figlio.



Il grande attore inglese Terence Stamp, che non proferisce parola per tutta la prima metà film, sostituì all’ultimo momento Robert Redford e si dimostra, sorprendentemente, assolutamente perfetto per il western e nonostante la sua recitazione di matrice teatrale incarna alla perfezione l'archetipo del pistolero di poche parole e implacabile con la pistola.
Anche gli altri attori protagonisti – Malden, Montalban, la Pettet – interpretano ottimamente dei personaggi complessi e sfaccettati.

Il re degli stuntman Yakima Canutt ha diretto tutte le grandi scene d’azione (la cosa migliore del film) ed è assolutamente notevole anche la colonna sonora del grande compositore greco Manos Hadjidakis.

Nel dvd italiano è stata ripristinata una scena tagliata in cui si allude all’omosessualità del protagonista.

venerdì 20 luglio 2012

i registi 17 - Damiano Damiani

DAMIANO DAMIANI
C’era una volta la Rivoluzione



Nonostante la sua filmografia western sia particolarmente esigua – solo due titoli – Damiano Damiani (che compie 90 anni questo mese di luglio, auguri!) ha avuto un ruolo fondamentale nell’ambito del Western italiano, soprattutto per la codifica e la formalizzazione di quel sottogenere denominato "Tortilla-Western" o "Zapata-Western", cioè lo Spaghetti-Western ambientato durante la rivoluzione messicana del 1910/17, perennemente sospeso tra afflato terzomondista di stampo sessantottino ed esigenze avventurose.

Purtroppo Damiani ha sempre voluto mantenere una certa distanza dal genere, definendo Quién Sabe? un film storico e non un western in senso stretto, e malgrado l’enorme successo della pellicola ha preferito dedicarsi successivamente – salvo un fugace ritorno negli anni settanta a seguito della chiamata di Sergio Leone – al cosiddetto "cinema di impegno politico-civile", al tempo considerato senz’altro più "rispettabile" per un regista che coltivasse delle velleità autoriali, a differenza del Western, giudicato, insieme a chi lo faceva, poco serio e riservato agli spettatori dai gusti facili. Giova ricordare che anche Sergio Leone, ora considerato all’unanimità uno dei Maestri della settima arte, all’epoca veniva guardato dalla "critica ufficiale" con bonaria sufficienza, se non proprio irriso e considerato un "cattivo esempio" per il cinema italiano.

Dopo cinquant’anni la realtà, peraltro già evidente agli spettatori del tempo, è sotto gli occhi di tutti: al Western italiano vengono dedicate retrospettive, pubblicazioni, siti web e montagne di dvd, mentre il cinema politico-civile, salvo qualche raro titolo, è praticamente dimenticato. Quién Sabe?, paradossalmente, è ora considerato un classico ed è probabilmente il titolo, tra gli oltre 30 da lui diretti, per il quale Damiano Damiani è più famoso e ricordato.

1966 QUIÉN SABE?

di Damiano Damiani, con Gian Maria Volonté, Lou Castel, Klaus Kinski, Martine Beswick, Jaime Fernandez, Andrea Checchi, Spartaco Conversi, Jose Manuel Martin, Carla Gravina, Aldo Sambrell

Capolavoro del Western italiano e punto di partenza del Tortilla Western, il capostipite di Damiani è anche la pellicola più esplicitamente allegorica del filone e quella dove il discorso politico è più marcato, probabilmente perché il regista era già calato nella sua idea di cinema civile e le sue intenzioni andavano oltre quelle di realizzare un semplice western, per quanto impegnato.



E’ infatti facile vedere nella rivoluzione messicana messa in scena da Damiani una metafora dell’intervento degli Stati Uniti e della Cia nell’America Latina degli anni sessanta e nel finale in cui El Chuncho, acquisita finalmente coscienza politica, uccide a sangue freddo l’americano El Niño (con il celebre scambio di battute tra i due: «Perché?» «Quién sabe?») e grida al lustrascarpe che raccoglie la sua valigia piena di monete d'oro «Non comprarti il pane con esto dinero, hombre! Compra dinamite!» un vero e proprio apologo della rivolta e della sollevazione delle masse.

Damiani e lo sceneggiatore Franco Solinas (celebre autore di copioni politici, tra i quali Queimada e La battaglia di Algeri per Gillo Pontecorvo) gettano comunque uno sguardo disincantato e pessimista anche sulla Rivoluzione, vista come folle combinazione di spinte distruttive, e scelgono di non presentare nella pellicola nessun personaggio positivo verso cui lo spettatore possa parteggiare.



Il film poggia sulle memorabili interpretazioni di un Gian Maria Volonté istrionico e sopra le righe e di un Lou Castel di converso glaciale e inespressivo, entrambi efficacissimi, con una bella costruzione del rapporto tra i due, nel quale il regista-scrittore Alex Cox vi ha visto addirittura una storia d’amore gay.
La contrapposizione tra lo yankee freddo e civilizzato e il messicano grezzo e sanguigno rimarrà perno centrale di quasi tutti i successivi titoli del mini-filone.

Sono ottimamente caratterizzati anche tutti i personaggi secondari, da uno spiritato Klaus Kinski nel ruolo del folle prete bombarolo alla bellissima Martine Beswick in quello della pasionaria messicana, fino ai caratteristi come Aldo Sambrell e all'attore messicano Jaime Fernández, che interpreta il Generale Elias.



Damiani era capace di spaziare disinvoltamente tra vari generi, sempre con professionalità, maestria e cura dei dettagli, come dimostra la bellissima ricostruzione d’epoca di questo film.
Il comparto tecnico del film, del resto, era di prim'ordine. Assolutamente memorabile, tra le altre cose, la tambureggiante colonna sonora di Luis Bacalov.



Uscito in sala con il divieto ai minori di 18 anni per l’eccessiva violenza e il taglio politico e anticlericale il film venne pesantemente tagliato (tra le scene epurate quelle del treno che travolge l’ufficiale crocifisso, la fucilazione dei rurales e alcune battute sui preti di Kinski) e circola tuttora in differenti versioni nelle varie edizioni in dvd (la più completa delle quali sembrerebbe essere quella francese).


1975 UN GENIO, DUE COMPARI, UN POLLO

di Damiano Damiani (e Sergio Leone e Giuliano Montaldo, n.c.), con Terence Hill, Robert Charlebois, Miou Miou, Klaus Kinski, Jean Martin, Patrick McGoohan, Raimund Harmstorf, Mario Brega, Lina FranchiRick Battaglia, Gerard Boucaron

Unico western italiano – se si eccettuano un paio di sequenze di C’era una volta il West – girato in esterni nella mitica Monument Valley in Arizona, Un genio, due compari, un pollo non si merita la pessima fama critica da cui è circondato.

Pur non raggiungendo l’equilibrio e la perfezione de Il mio nome è Nessuno, sull’onda del cui successo (3,63 miliardi di lire di incasso solo in Italia e un riscontro altrettanto clamoroso in Francia e Germania) è stato evidentemente realizzato – in alcuni paesi uscì proprio come seguito ufficiale del film di Valerii – , questo secondo western prodotto da Sergio Leone e dalla sua società cinematografica Rafran e affidato alle esperte mani di Damiani, nonostante traversie realizzative e vicissitudini postproduttive, è comunque un prodotto godibile, divertente, diretto e interpretato con brio ed efficacia, e non mancante nemmeno di qualche spunto più profondo.



Il punto di partenza di Leone e dei suoi sceneggiatori era il film francese I santissimi di Bertrand Blier, da cui proviene direttamente la protagonista femminile, la deliziosa Miou Miou, con i suoi toni da ballata popolaresca e il trio di amici scanzonati, infantili e promiscui, anche se in corso d’opera il film si spostò verso i ritmi e le gag de La stangata, enorme successo popolare dell’epoca. E' proprio in questa biforcazione che il film perde di tono, con una conclusione macchinosa e sfilacciata, non all’altezza della prima parte, probabilmente anche a causa del trafugamento da parte di ignoti del negativo originale del finale (secondo Fulvio Morsella, cognato di Leone e coproduttore del film, fu rubato proprio il negativo dell’intero film) che costrinse Nino Baragli a rimontarlo alla bell’e meglio usando gli outtakes (fortunatamente numerosi perché Leone con la sua proverbiale pignoleria insisteva per molte ripetizioni di ogni ripresa).



Come con Valerii anche i rapporti tra Leone e Damiani non furono facili (ma probabilmente sarebbero stati difficili chiunque fosse il regista), tanto che, ufficialmente per problemi di tempo, lo stesso Leone, oltre a essere pesantemente presente sul set con indicazioni e suggerimenti, diresse la bellissima scena iniziale nella Mistery Valley, omaggio-parodia di quella di C’era una volta il West, dove si permette addirittura dei campi lunghissimi della Monument Valley dall’interno di un trading post, e probabilmente anche altri momenti del film, mentre altre sequenze furono dirette da Giuliano Montaldo, amico di Leone e responsabile della seconda unità.

A differenza de Il mio è Nessuno, però, visto lo scarso riscontro di pubblico e di critica del film stavolta Leone tese a minimizzare il suo apporto, prendendo le distanze dalla pellicola e facendo ricadere interamente sulle spalle di Damiani, e di una sua presunta incapacità di affrontare il registro ironico, la responsabilità della poca riuscita dell’operazione.



Secondo noi si tratta invece di un’opera da rivalutare, un ottimo mix di western e commedia, dai toni farseschi e smaccatamente antimilitaristi, con molte battute brillanti («Hai prestato servizio nell’esercito?» «Certo, come ogni uomo bianco» «Con che grado?» «Disertore») e alcune grandi sequenze, come il duello iniziale tra Terence Hill e Klaus Kinski, affettuosa presa in giro degli stilemi e degli aspetti formali del genere.

Ma la pellicola sarebbe notevole anche solo per lo stupendo utilizzo dei paesaggi della Monument Valley, magnificamente fotografata dall’operatore leoniano Giuseppe Ruzzolini, che la rende probabilmente il primo western dai tempi di John Ford (il Maestro americano è oggetto peraltro di molte esplicite citazioni, come la scena della diligenza senza postiglione che omaggia quella analoga di Ombre rosse) a valorizzare questo scenario con tale ampiezza ed abbondanza.
Oltre a ciò anche la colonna sonora di Ennio Morricone è una delle sue più memorabili e "folli", con citazioni addirittura da Beethoven (Per Elisa) e Rossini (l’ouverture del Guglielmo Tell).



Gli attori, d’altro canto, sono perfetti. Se Terence Hill va sul sicuro con il suo antieroe svelto di mano e di cervello ancora modellato sui tratti di Trinità e Nessuno, Miou Miou con il suo personaggio ingenuo ma malizioso è il notevole punto di forza del film, mentre costituisce un’ottima sorpresa Robert Charlebois, un cantautore canadese, efficacemente doppiato da Ferruccio Amendola, che nel cinema italiano non farà più nulla ma che possiede una mimica e una fisicità molto intense.
Da citare, oltre a tutto lo stuolo di caratteristi leoniani come Mario Brega, Rik Battaglia e Benito Stefanelli, anche Patrick McGoohan nel ruolo del Maggiore, cioè il pollo del titolo, e Klaus Kinski, che interpreta come sempre magnificamente il famoso e terribile pistolero Doc Faster nella strepitosa scena iniziale.

martedì 17 luglio 2012

le monografie 8 - Un uomo chiamato cavallo

1970 Un uomo chiamato cavallo (A Man Called Horse)
di Elliot Silverstein con Richard Harris, Judith Anderson, Jean Gascon, Manu Tupou, James Gammon

Agli inizi dell'ottocento, durante una battuta di caccia, John Morgan, un lord inglese, viene catturato e reso schiavo dalla tribù sioux di Mano Gialla. Verrà affidato come cavallo da soma alla vecchia madre del capo indiano, ma saprà conquistare la fiducia e il rispetto della tribù, arrivando a sposare la sorella di Mano Gialla. Assunto il nome di Shunka Wakan (L'uomo Chiamato Cavallo) arriverà a guidare la tribù contro i nemici Crow. Ma non ci sarà nessun lieto fine...


Del trittico di pellicole revisioniste che nel 1970 cambiarono per sempre l'immagine dei pellirosse americani nell'immaginario collettivo "Un uomo chiamato cavallo" è generalmente considerato oggi l'elemento debole, il meno memorabile e citato. Certamente non ha la profondità e la complessità di un capolavoro come Piccolo grande uomo e non possiede nemmeno la forza rudimentale ma dirompente di Soldato blu, ma rimane l'ottimo esempio di un cinema che sapeva fondere esigenze spettacolari, commercialmente vincenti, con la messa in discussione di qualche luogo comune. Un tipo di cinema adulto abbastanza impensabile al giorno d'oggi.


Il limite principale della pellicola di Silverstein è evidente: la morale di fondo è troppo compromessa con i cliché del più classico racconto avventuroso di stampo colonialista. C'è il protagonista bianco che si scontra con una cultura esotica, rimane affascinato da un tipo di vita opposto al suo e arriva a rispettare i buoni selvaggi, ma che finisce anche “inevitabilmente” per primeggiare, divenendo il capotribù per manifesta superiorità intellettiva e morale. Se da una parte il ribaltamento che vede per una volta il bianco schiavizzato e trattato (letteralmente) come un animale funziona a livello metaforico, dall'altra non può non irritare almeno un po' che sia un lord inglese a predicare di uguaglianza tra tutti gli uomini.

Detto del suo difetto maggiore, restano i molti pregi di un film comunque ancora di forte impatto poetico ed emotivo. Anche se mette in scena i soliti attori bianchi truccati da indiani, dei tre film del 1970 è il più attento e curato, dal punto di vista etnologico, nel mettere in scena la vita degli indiani d'America, e l'unico in cui non è immediato il parallelo tra le guerre indiane e avvenimenti legati all'attualità dell'epoca, quali la guerra del Vietnam e la contestazione. La cultura indiana è messa in scena con la giusta miscela di ironia e crudezza, e probabilmente il fatto che il punto di vista del film resti sempre quello esterno del protagonista (che ad esempio per quasi tutto il film ha bisogno delle traduzioni di un meticcio mezzo francese per parlare con gli indiani) evita la pretesa di un cinema fatto da bianchi che vuole raccontare il punto di vista dei pellirosse.


Se anche convenzionale da un punto di vista narrativo, non mancavano elementi destabilizzanti per le platee di allora, a cominciare dal non trascurabile dato visivo che per buona parte del film il protagonista è completamente nudo o seminudo. Ragguardevole anche la dose di crudezze e violenze che si susseguono per tutto la durata del film, pur lontano dalle efferatezze di "Soldato blu" e dalla durezza satirica di "Piccolo grande uomo". Lo sviluppo degli eventi è decisamente funereo, con praticamente tutti i personaggi principali che muoiono attorno al protagonista. Anche l'apparente ovvietà della sotto trama sentimentale viene troncata in modo brusco e crudele. Un altro grosso merito del film è non nascondere i lati inquietanti e crudeli della civiltà dei nativi americani, come la consuetudine di abbandonare a se stesse le donne anziane rimaste senza figli (il che da vita ad alcune delle sequenze più toccanti del film) e nel mostrare i massacri reciproci tra tribù.

Ma soprattutto il film passa alla storia per la celebre sequenza della Danza del Sole, in cui Harris viene appeso a delle funi infilate sotto la pelle del petto. In effetti, anche se la carica "splatter" della sequenza con gli anni si è inevitabilmente del tutto smorzata, resta un gran pezzo di cinema, con l'atmosfera allucinata nella tenda della cerimonia e l'inserimento di visioni psichedeliche inedite nel western (perlomeno americano).


Quel che più si apprezza oggi di un film come "Un uomo chiamato cavallo", e che fa provare una certa nostalgia per il cinema di quegli anni, è lo stile con cui è girato, tra scelte sapientemente classiche (il ritmo disteso, la colonna sonora) e altre sottilmente innovative (il montaggio brusco e sincopato, gli attori non certo abbelliti dal trucco). Da evidenziare il lavoro del direttore della magnifica fotografia Robert Hauser, che è lo stesso di "Soldato blu", il che dona ad entrambi i film un'atmosfera satura e fosca di grande impatto. In questo in particolare riesce a ritrarre degli splendidi paesaggi senza scadere in banalità bucoliche, ma anzi trasmettendo un bel senso di natura selvaggia. Bellissime in particolari le atmosfere invernali e tutte le immagini sullo scorrere delle stagioni.

Per l'irlandese Richard Harris fu il ruolo della vita, il personaggio con cui tutti lo identificheranno nonostante il gran numero di titoli anche molto noti che aveva già girato e girerà in seguito. Dopo questo film apparirà in altri western atipici e poco tradizionali: "Uomo bianco và col tuo Dio", "La rossa ombra di Riata", "Gli spietati" e "Silent Tongue".

1976 La vendetta dell'uomo chiamato cavallo (The Return of a Man Called Horse)
di Irvin Kershner con Richard Harris, Gale Sondergaard, Bill Lucking, Geoffrey Lewis

Tornato a vivere in Inghilterra Lord Morgan si annoia tra cacce alle volpi e concerti di musica da camera. Mollato castello e fidanzata prima dei titoli di testa, torna quindi dai mai dimenticati amici indiani, scoprendo però che nel frattempo la tribù è stata decimata e scacciata dalle loro terre da dei cattivissimi trapper asserragliati in un forte. Ritrovati e riuniti i superstiti li guiderà alla riscossa assumendo per sempre l'identità di Shunka Wakan.


Scomparso nel 2010, Irvin Kershner è stato un regista dalla carriera curiosa. A cavallo dei 60 e 70 si fa notare con un paio di notevoli pellicole tra free cinema inglese e New Hollywood americana, "Una splendida canaglia" con Sean Connery e "Loving" con George Segal, poi si specializza come regista di sequel e prodotti seriali, tra cui questo, "Mai dire mai", "Robocop 2" e il film per cui passerà alla storia "L'impero colpisce ancora". Nel caso de "La vendetta dell'uomo chiamato cavallo" mette la sua indubbia professionalità al servizio di un sequel che a livello narrativo non è altro che una specie di lungo epilogo di quanto raccontato nel film originale. Ne esce un prodotto sostanzialmente superfluo, ma di notevole impatto spettacolare, forse dalla confezione fin troppo raffinata, visto che in fin dei conti è un tipico revenge movie degli anni 70 (per cui molto lento per i gusti odierni).


Archiviati infatti gli scrupoli antropologici e le ambizioni poetiche del film del 1970, il secondo capitolo della saga (prodotto da Richard Harris) si presenta come un efficace film d'avventura, all'insegna dell'azione violenta, interamente basato sul sempre efficace meccanismo della punizione finale di un sopruso iniziale. Gli autori sono furbi e cinici nel caricare la prima parte di sequenze crude e violente contro degli innocenti, per poi arrivare nel finale alla sospirata distruzione del forte e al massacro dei trapper. Grazie al talento di Kershner la storia non si riduce ad un rozzo meccanismo di causa ed effetto, ma riesce in parte a conservare il senso di una violenza congenita all'uomo, i cui effetti lasciano sempre un senso di amarezza e non sono mai controllabili, per cui ad esempio anche la vittoria finale giunge a caro prezzo e senza facili sensazionalismi.


Visto che di "Un uomo chiamato cavallo" tutti ricordano quasi solo la cruda sequenza della Danza del Sole, in questo sequel gli autori dedicano l'intera parte centrale del film alla riproposta dello stesso rito. Se nel film precedente la sequenza in tutto durerà dieci minuti, qui si viaggia sulla mezz'ora e stavolta oltre al protagonista sono tutti i maschi superstiti della tribù a sottoporsi al sacrificio. La ripetizione della stesso rito, con la reiterazione degli stessi effetti sanguinolenti e il moltiplicarsi dei partecipanti rischia il ridicolo involontario e lo svuotamento di senso, ma anche qui a fare la differenza è la solidità della regia, che intelligentemente rinuncia agli effetti “psichedelici” del film precedente e si mantiene su un piano di cruda spettacolarizzazione di un cerimoniale di purificazione collettivo, con qualche concessione all'horror e all'allora nascente moda new age.

1983 Shunka Wakan - Il trionfo dell'uomo chiamato cavallo (Triumphs of a Man Called Horse)
Un film di John Hough. Con Michael Beck, Ana De Sade, Richard Harris, Anne Seymour

Trenta anni dopo gli avvenimenti del film precedente, Lord Morgan/Shunka Wakan è ancora a capo della sua tribù. Ma le terre dei Sioux sono invase dai cercatori d'oro e i fomentatori tramano nell'ombra.

Già il primo sequel arrivato dopo sei anni dall'originale sembrava un film nato fuori tempo massimo, figuriamoci questo terzo capitolo arrivato dopo altri sette anni, nel 1983, periodo di vacche magrissime per il cinema western. Infatti dopo le due grosse produzioni precedenti stavolta va in scena una misera produzione di serie F, girata visibilmente alla meno peggio e al totale risparmio. A cominciare dalla presenza di un troppo costoso Richard Harris, che compare in tre scene contate, recita con aria spiritata un paio di scocciatissimi monologhi e poi si fa ammazzare. Considerata la fine un po' scarsa del personaggio (un cecchino gli spara alla spalle e buonanotte) il "trionfo" annunciato del titolo è francamente ridicolo.


Il protagonista vero è il personaggio interpretato da Michael Beck, cioè Koda, figlio mezzosangue di Shunka Wakan. Già protagonista tre anni prima de "I guerrieri della notte", Beck non sarebbe neanche male e fisicamente è pure credibile come figlio di Richard Harris (meno come meticcio), peccato sia alle prese con un personaggio ridicolo, che all'inizio si presenta come biondo pistolero da spaghetti western e in men che non si dica si mette a capo della tribù del padre. Ad un certo punto si trasforma pure in una specie di raddrizzatorti solitario, con al suo fianco una specie di fotomodella col costume di carnevale da squaw. I due intrepidi se ne vanno in giro ad ammazzare fomentatori e a sloggiare i cercatori d'oro a suon di dinamite.

Facile a questo punto intuire che il film non vorrebbe essere altro che un filmetto d'azione in puro stile anni 80 (raro vedere tante esplosioni in un western), ma la confezione è troppo modesta anche solo per essere passabilmente divertente. La violenza e le crudezze dei due capitoli precedenti sono quasi del tutto annullate dalla piattezza para-televisiva, la trama sembra quella del più ingenuo kraut western degli anni 60, con tanto di killer che agisce nell'ombra - la cui identità risulta ovvia fin da subito anche allo spettatore più distratto. Decisamente assurdo il lieto fine con gli indiani che scacciano gli invasori bianchi.


A peggiorare ulteriormente l'aria trasandata dell'insieme ci sono gli elementi ripresi di peso dai film precedenti. Dal primo film vengono riprese le sequenze visionarie, che però rimontate in un contesto tanto mesto fanno l'effetto di cianfrusaglia onirica, mentre dal secondo è ripresa l'epica colonna sonora di Laurence Rosenthal, la cui sontuosità stride con un film tanto dimesso (tutto sommato più coerente con la materia filmica la patinata canzoncina pop “He's Comin' Back” cantata da Rita Coolidge sui titoli di testa). Si salva giusto qualche scena d'azione, girata per altro non dall'anonimo John Hough, ma dalla seconda unità diretta da Terry Leonard, ancora oggi uno dei più esperti stuntman di Hollywood; c'è lui dietro le scene d'azione di "Grindhouse - A prova di morte” di Tarantino e “Inception” di Nolan.

giovedì 12 luglio 2012

i film 42 - El Arracadas



1978 EL ARRACADAS
di Alberto Mariscal, con Vicente Fernández, Fernando Almada, Roberto Cañedo, Patricia Rivera, Mario Almada, Raquel Olmedo, María Teresa Álvarez, Humberto Elizondo

Proseguiamo la nostra rassegna sui western messicani, con il sospetto di essere i primi in Italia a occuparci di questo sottofilone, con quest’altra pellicola del maestro del Chili-Western Alberto Mariscal, regista misconosciuto ma che negli anni settanta ha girato, sugli stessi set dei classici americani, molti western autoctoni, perseguendo una propria via al genere insolita e bizzarra.

A noi i western di Mariscal piacciono perché sono violentissimi, perché si rapportano in maniera originale e inedita alle convenzioni del genere, con un approccio quasi surrealista tipicamente messicano, e perché lo stile visivo del regista, caratterizzato da ralenti, montaggio stretto e alternato, zoom, fuori fuoco, panoramiche a schiaffo, repentini cambi di campo e angolazione, ci pare niente affatto banale.



Con questa pellicola della fine anni settanta, diretta quando anche in Messico il genere era ormai agli sgoccioli e aveva esaurito la sua spinta commerciale, il regista rifiuta però sia la tradizionale iconografia americana che quella italiana fonti d'ispirazione dei suoi western precedenti per sposare un’estetica totalmente messicana, legata al cinema 'charro' e alla cosiddetta 'commedia ranchera', quindi con un’ambientazione pseudo-moderna, ranch, rodei e cavalli, musica mariachi, combattimenti di galli, fiumi di tequila e messicani dai sombreri enormi e abbigliati in maniera tanto vistosa quanto assurda.



La trama è intrisa di quel "tremendismo" messicano caro al regista e ricorda in diversi punti quella di Occhio per occhio, dente per dente… sei fregato, Cobra (El sabor de la venganza, 1970).
Costretto dalla madre a pronunciare un tremendo giuramento di vendetta per la morte del padre, ucciso da un vecchio nemico tornato dal passato, il protagonista intraprende un lungo viaggio di morte. Lungo il cammino incontrerà odio, amore, violenza e un vecchio pistolero che gli insegnerà l’arte dell’assassinio e cercherà di dissuaderlo dai suoi propositi di vendetta. Tutto sarà inutile, perché il nostro non rinuncerà a mantenere la sua promessa, il che condurrà a un finale particolarmente sanguinario in cui praticamente muoiono tutti.



Come altri di Mariscal anche questo film si pone chiaramente come riflessione sulla violenza che genera altra violenza in una spirale sempre crescente in cui non ci sono né vincitori né vinti.
Ancora più che in altre pellicole, però, il regista spinge sui tasti del melodramma, maneggiando materiale da telenovela per trasfigurarlo in epica con il suo stile intenso e fiammeggiante, con un’esasperazione ancora maggiore delle scene di violenza – la cosa migliore del film – riprese con rabbiosa energia e gusto barocco e ancora più risalto ai close-up delle ferite da cui sprizzano fiotti di sangue, in un mix molto efficace di azione, romanticismo e pessimismo.



Sono decisamente sorprendenti le interpretazioni del famoso cantante-attore Vicente Fernández, più di 65 milioni di dischi venduti in America Latina, e di Mario Almada, efficacissimi nei ruoli del protagonista e del suo anziano mentore.

Bella anche la musica, a parte un paio di canzoni cantate dal protagonista.

domenica 8 luglio 2012

i registi 16 - Monte Hellman

MONTE HELLMAN
Straniero su strade straniere
di Tommaso Sega (T.S.), Mauro Mihich (M.M.) e Paolo D’Andrea (P.D.)


Autore misterioso, affascinate, incompreso e solitario, la figura di Monte Hellman è sicuramente unica in tutta la storia del cinema. Quella di un regista che ha quasi sempre lavorato entro i confini della serie B, ma spesso anche C e D, e che è comunque sempre riuscito ad esprimere una poetica ed un’idea di cinema assolutamente uniche e personali, il più delle volte estranee non solo alle ragioni commerciali, ma anche all'idea stessa di dover confrontarsi con le aspettative di un qualsiasi tipo di pubblico. La figura di Hellman non è quella del regista di culto legato al cinema di genere, perché troppo lontano da ogni convenzione spettacolare, ma non è nemmeno quella dell'autore "ostico ma gratificante" amato dalla critica, perché troppo obliquo e difficilmente inquadrabile in comodi teoremi. I suoi pochi titoli considerati significativi (praticamente solo "La sparatoria" e "Strada a doppia corsia") sono stati valutati tali solo anni più tardi dalla loro uscita, e ancora recentemente il suo ritorno al cinema dopo più di vent'anni di assenza è caduto nell'indifferenza generale.


Per i dati biografici più scarni vi rimandiamo alla pagina di Wikipedia, mentre per approfondire al meglio la sua figura consigliamo invece il libro American Stranger. lI cinema di Monte Hellman, edito dalla Cineteca di Bologna in occasione della retrospettiva a lui dedicata nel 2009. Curata da Michele Fadda, questa bella monografia contiene una serie di saggi inediti, alcuni materiali già apparsi su riviste straniere (tra cui un contributo di Quentin Tarantino), diverse interviste (tra cui una totalmente inedita) e la biografia e la filmografia completa del regista, comprensiva quindi anche di tutti quei lavori, che sono poi la maggior parte, di cui ha realizzato solo il montaggio, o che sono stati iniziati da altri e completati da lui, oppure cominciati da lui e poi affidati ad altri, oppure diretti in collaborazione (come quelli per Roger Corman ad inizio carriera).

La sua filmografia ufficiale come regista, infatti, in ormai più di cinquant'anni di attività conta la miseria di solo 11 titoli. 

1959 Beast From Haunted Cave
1964 Flight To Fury
1964 Back Door To Hell
1965 Le colline blu (Ride In The Whirlwind)
1966 La sparatoria (The Shooting)
1971 Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop)
1974 Cockfighter
1978 Amore, piombo e furore (China 9, Liberty 37) 
1988 Iguana
1989 Silent Night, Deadly Night 3: Better Watch Out! 
2010 Road To Nowhere

Con uno strappo alle consuetudini del nostro blog, oltre che dei suoi tre film western, ci occuperemo anche delle altro quattro pellicole fondamentali della sua carriera, legate da un'identica atmosfera di viaggio - fisico e mentale - verso il nulla.

Per non deragliare troppo non ci occuperemo invece dei suoi primi film in bianco e nero, un film horror (Beast From Haunted Cave), un noir avventuroso e un film di guerra (Flight To Fury e Back Door To Hell: due pellicole "gemelle" con un giovanissimo Jack Nicholson come protagonista). Opere impersonali realizzate per ragioni alimentari, anche se probabilmente più interessanti di quanto in genere non si dica e che sarebbero comunque da recuperare. (T.S. e M.M.)

1965 LE COLLINE BLU (Ride in the Whirlwind)
di Monte Hellman, con Cameron Mitchell, Millie Perkins, Jack Nicholson, Katherine Squire, George Mitchell, Rupert Crosse, Harry Dean Stanton, John Hackett, Tom Filer, B.J. Merholz 

Dopo essere stati scambiati per sbaglio per banditi e dopo aver visto impiccare un loro compagno, due cowboy (un Jack Nicholson agli esordi - anche sceneggiatore del film - e Cameron Mitchell, grande attore ingiustamente dimenticato, che nella sua carriera ha interpretato western americani, spagnoli, italiani e messicani, spaziando dalle produzioni di serie A a quelle di serie Z) fuggono da una posse di sceriffi, si nascondono in una fattoria prendendo in ostaggio una famiglia di coloni. 


Western a low budget e misconosciuto, ma epocale e "rivoluzionario", con cui Monte Hellman, giocando di sottrazione con una trama minimale, svuota moduli e regole del genere, con l’utilizzo di uno stile anti-epico e anti-retorico e una messa in scena spoglia, scabra ed essenziale. Il film, assieme al “gemello” (realizzato insieme al costo di uno solo) "La sparatoria", rimase per lungo tempo inedito anche negli Stati Uniti e venne distribuito in Italia solo nel 1978, a seguito della popolarità raggiunta da Nicholson come interprete di "Qualcuno volò sul nido del cuculo". Il cinema di Hellman è contrassegnato dall’incomunicabilità, la solitudine, la casualità e l’insensatezza (tanto che per definirlo sono stati tirati in ballo Beckett, Bresson e Antonioni): in una delle scene più clamorose del film i “buoni” si sparano addosso tra di loro uccidendosi a vicenda. L’unica costante è la violenza che sottende alla società e ai rapporti umani, spogliata completamente però dai concetti di colpa, giustizia o vendetta. (M.M.) 


Il West di Hellman è un luogo enigmatico e metafisico, fatto di rocce e vento, attese e silenzi, primi piani improvvisi e campi lunghissimi, tagli di montaggio secchi ed ellittici. Il senso di spaesamento e l’impossibilità di trovare degli schemi codificati e immediatamente riconoscibili, e degli eroi in cui identificarsi, disattende ovviamente tutte le aspettative dello spettatore. Quelli di Hellman sono stati anche definiti “western esistenzialisti”: le colline blu che danno il titolo al film – e che sono il confine oltre i quali gli uomini dello sceriffo non potranno più inseguire il protagonista ingiustamente braccato – diventano quasi l’espressione di un altrove irraggiungibile che dona al film il sapore dell'apologo. (M.M.) 


La messa in scena è talmente disadorna da far sembrare autori asciutti e senza fronzoli come Hawks e Boetticher dei registi barocchi. Hellman toglie tutto quello che può togliere. Nessun approfondimento psicologico, nessuno tentativo di rendere simpatici o antipatici i personaggi, nessuna concessione allo spettacolo o al mito del West, ma nemmeno al realismo e alla ricostruzione storica. Costumi e scenari sono quelli del più povero western senza budget (cosa che in effetti il film è), mostrati nel modo più spoglio e neutro possibile. Eppure proprio questo squallore ricercato carica la storia di una tensione e di una suspense in alcuni punti quasi insostenibile, dato che la mancanza di un qualsiasi punto di riferimento per lo spettatore rende impossibile anticipare gli avvenimenti. Un capolavoro utile anche per capire quanto come spettatori siamo legati alle convenzioni spettacolari. (T.S.)

1966 LA SPARATORIA (The Shooting)
di Monte Hellman con Warren Oates, Millie Perkins, Jack Nicholson, Will Hutchins

Una misteriosa ragazza assolda due poveracci per seguire un uomo nel deserto. Al gruppo si unisce uno spietato pistolero nerovestito complice della ragazza.

Grande Nicholson nella parte del pistolero luciferino e nerovestito alla Jack Palance, ma Warren Oates nella parte dello spaesato protagonista Willett Gashade forse è addirittura più bravo di lui. Già presenza sottilmente inquietante nel film precedente anche Millie Perkins da sfoggio di notevole carisma e si ritaglia il personaggio di una dark lady scostante eppure affascinante.


Un film geniale. Nella storia del cinema, pochissimi altri registi sono stati capaci di ottenere un risultato così artisticamente “alto” avendo a disposizione un budget tanto basso (così su due piedi vengono in mente Leone, Romero, Carpenter...). Come in "Le colline blu" – girato negli stessi set e con le stesse maestranze tecniche e, in parte, gli stessi attori – gli elementi formali del genere (vendetta, inseguimento, amicizia virile...) vengono spogliati di senso in chiave antispettacolare e antihollywoodiana, contro il ritmo e gli schemi tradizionali. A differenza de "Le colline blu", ancora legato a un intreccio convenzionale, qui la trama stessa diventa imperscrutabile e misteriosa e la narrazione rarefatta e sospesa, le motivazioni dei personaggi si fanno più vaghe e confuse, e anche il paesaggio diviene via via sempre più astratto e metafisico, dando al film una dimensione allucinata e metaforica, da western concettuale. Riempiendo il film di tempi morti e rallentando al massimo il ritmo dell’azione (a dispetto del titolo l’unica sparatoria del film avviene solo nel finale) il regista, togliendo ogni punto di riferimento allo spettatore che, come il protagonista, non ha idea verso quale direzione stia andando il film, riesce comunque a creare una tensione altissima. (M.M.)


Se possibile ancora più spoglio e minimalista del precedente nella messa in scena, ma con un'atmosfera ipnotica e oscura per molti versi opposta allo squallore programmatico de "Le colline blu". L'enigmaticità della vicenda, i cui nodi non si sciolgono nemmeno nel finale, carica ogni sequenza di significati sfuggenti e ambigui. Anche stavolta non c'è nessun approfondimento psicologico, ma i personaggi hanno una sorta di fascino arcano, allusivo e allegorico, come i personaggi enigmatici che popolavano allora i testi delle ballate di cantautori come Bob Dylan o Leonard Cohen. Probabilmente Hellman lascia all'immaginazione dello spettatore il compito di immaginare una storia di cui il film racconta forse solo gli atti finali. (T.S.)


Rifiutando l’iconografia tradizionale del western classico, ma anche quella nostalgica di quello crepuscolare e quella iconoclasta della “new hollywood”, i due western gemelli di Hellman rimangono di fatto degli “unicum” nella storia del cinema western, senza progenitori e senza discendenti, anche perché peraltro non hanno avuto il minimo riscontro commerciale. (M.M.) 

1971 STRADA A DOPPIA CORSIA (Two-Lane Blacktop)
di Monte Hellman, con Warren Oates, James Taylor, Laurie Bird, Dennis Wilson, David Drake, Richard Ruth,Rudy Wurlitzer, Jaclyn Hellman, Bill Keller, Harry Dean Stanton

Il Pilota ed il Meccanico, interpretati rispettivamente da James Taylor e Dennis Wilson si guadagnano da vivere partecipando a corse automobilistiche clandestine a bordo di una vecchia Chevrolet truccata. Incontrano per strada dapprima una ragazzina (la bellissima Laurie Bird) ed in seguito il possessore di una fiammante Pontiac G.T.O. gialla (ancora Oates, attore feticcio del regista), con il quale intraprendono una sfida con in palio le rispettive automobili. (P.D.) 


I film di Hellman sono unici, uguali a nessun altro. Questo probabilmente è il suo capolavoro. Sostanzialmente costituito dal ripetersi di situazioni tipo, è in pratica privo di trama in senso classico: i due protagonisti non parlano che di motori, valvole, carburatori, mentre il personaggio di Oates non fa altro che raccogliere autostoppisti, ai quali racconta ogni volta una versione diversa del modo in cui si è procurato l'automobile, di cosa farà in futuro, del perché è in viaggio. Un vuoto di senso e riflessione che soltanto la ragazza pare capire, senza però riuscire a fuggirne. Se da un film on the road ci si attende inseguimenti, grandi scene d'azione, qui le gare non vengono praticamente mostrate, l'azione è statica come i suoi protagonisti. Quel che ne emerge, come per una volta ha ben notato Morandini, è la constatazione pessimista e senza speranza del "vuoto esistenziale, dell'alienazione e della solitudine dell'uomo-massa nell'America di Nixon": una generazione che non ha né obiettivi né mete da raggiungere, che sopravvive alla giornata, impegnata in un costante viaggio verso il nulla, in una strada a doppia corsia che pare senza fine. (P.D.)


E' un film che potrebbe continuare all'infinito, come infinita è la monotonia della vita dei suoi personaggi, nella quale non accade mai nulla di nuovo ed anche l'amore è meccanico quanto gli ingranaggi di un motore truccato. Il finale è semplicemente geniale: la pellicola del film prende fuoco, ponendo così involontariamente fine ad un viaggio che altrimenti sarebbe continuato eternamente senza direzione. Non c'è musica a sublimare o drammatizzare, la regia è distaccata come un narratore verista, non giudica, non lascia trapelare simpatia né compiacimento, lascia che il film parli (o meglio, non parli) da sé. (P.D.) 


Note sul film (M.M.): 

- Strada a doppia corsia è il film che ha definitivamente affossato la (peraltro mai effettivamente nata) carriera registica di Monte Hellman: unico suo film prodotto da una “major”, la Universal, con il non indifferente budget di un milione di dollari (faceva parte di una serie di pellicole a tema giovanilistico, insieme a "Taking Off" di Milos Forman, "Fuga da Hollywood" di Dennis Hopper e "Il ritorno di Harry Collings" di Peter Fonda), fu un totale flop al botteghino, anche perché distribuito poco e male.

- I due protagonisti (il pilota e il meccanico) James Taylor e Dennis Wilson erano due famose star della scena musicale dell’epoca, l’uno celebre cantante folk e l’altro batterista dei Beach Boys. Entrambi al loro primo film, dimostrano una notevole presenza scenica e, soprattutto Taylor, anche ottime qualità recitative. Taylor è ancora in attività, mentre Wilson, come noto, è morto nel 1983 a soli 39 anni.

- Warren Oates, oltre che uno dei miei attori preferiti in assoluto, era l’interprete-feticcio di Monte Hellman (ma anche di Sam Peckinpah) con cui lavorerà in tutti i film a partire da La sparatoria fino ad Amore, piombo e furore e solo recentemente sta cominciando a venire rivalutato come merita. Oates è scomparso prematuramente nel 1982 a 54 anni a causa di un attacco di cuore (probabile conseguenza di una vita di eccessi).

- La povera Laurie Bird, che interpreta il bellissimo ruolo della ragazza vagabonda e promiscua, appena diciassettenne al momento delle riprese, era legata sentimentalmente al regista Monte Hellman, che la dirigerà anche in Cockfighter. Successivamente avrà una lunga relazione con il cantante Art Garfunkel. E’ morta suicida nel 1979, ad appena 25 anni.

- Il film non ha colonna sonora, ma dalla musicassette della radio della Pontiac GTO di Warren Oates si sentono molti spezzoni di canzoni dell’epoca, tra cui Moonlight Drive dei Doors e, in una scena bellissima ad una stazione di servizio, "Me & Bobby McGee" di Kris Kristofferson, il cui ritornello "Freedom’s just another word for nothin’ left to lose" si adatta perfettamente alle atmosfere e ai personaggi del film.

- Ottima la fotografia di Jack Deerson, ma Hellman è un anti-paesaggista per eccellenza: non c’è una sola inquadratura in tutto il film tesa a magnificare o anche solo illustrare la bellezza del paesaggio e dei luoghi dove i personaggi si trovano a passare, in aperta contrapposizione, quindi, con "Easy Rider", film sull’onda del cui successo "Strada a doppia corsia" è stato realizzato, di cui rifiuta anche l’idea del viaggio come simbolo di ribellione e libertà.

- Rudy Wurlitzer, sceneggiatore (insieme a Hellman) di "Strada a doppia corsia", ma anche del "Pat Garrett & Billy the Kid di Peckinpah", è un romanziere di culto negli USA, legato alle istanze della controcultura e famoso per il suo stile sperimentale e psichedelico, oltre che grande appassionato di western. Nessun suo libro è mai stato tradotto in Italia. 

- Le due auto protagoniste del film, la Chevrolet 150 del 1955 (esteticamente un rottame, ma con il motore di un bolide) e la Pontiac GTO del '70 del figurano anche nei titoli di coda tra gli interpreti del film. In effetti lo sono. 

- Bruce Springsteen per sua stessa ammissione si è ispirato espressamente al film di Hellman per la sua celebre canzone "Racing in the Streets", contenuta nell’album del 1978 "Darkness on the Edge of Town". 

- Sam Peckinpah dixit: “Penso che il ruolo del critico sia molto importante per un film. Per questo m’incazzo quando vedo i critici che bucano i film buoni e sostengono delle stronzate, come hanno fatto con "L’ultimo spettacolo" (di Peter Bogdanovich), mentre hanno completamente ignorato Strada a doppia corsia che secondo me era un capolavoro”.

1974 COCKFIGHTER (inedito in Italia)
di Monte Hellman, con Warren Oates, Harry Dean Stanton, Richard B. Shull, Ed Begley Jr., Laurie Bird, Troy Donahue, Robert Earl Jones, Patricia Pearcy, Millie Perkins, Steve Railsback 

Un film semi-documentaristico sui combattimenti dei galli nello stato della Georgia. In questo scenario bucolico e sudista Hellman innesta la storia dell’ossessione di uno di questi “cockfighters” (Warren Oates) che, dopo aver perso il suo gallo migliore in una scommessa tra ubriachi in un motel, sceglie di non pronunciare più una sola parola finché non riuscirà ad ottenere la medaglia di cockfighter dell’anno, sacrificando ad essa amori, affetti e rapporti umani. (M.M.) 


Il film è tratto dal libro "Nato per uccidere" di Charles Willeford (tradotto in Italia da Hobby & Work) e non è mai stato distribuito in Italia, sia per la sua completa inclassificabilità e anti-commercialità ma anche probabilmente perché mettendo in scena autentici combattimenti tra galli è divenuto bersaglio privilegiato delle associazioni animaliste, che lo hanno accusato di crudeltà verso gli animali. Accuse non del tutto campate per aria visto che quelle dei combattimenti, con conseguente morte degli sventurati pennuti, sono tutte scene piuttosto crudeli e non mancano nemmeno momenti piuttosto impressionanti come quello di Warren Oates, che all’improvviso e senza motivo, spicca di netto con un’accetta la testa di uno dei poveri animali. Per lo stesso motivo il film è tuttora proibito in alcuni paesi, tra cui l’Inghilterra. Nei luoghi dove è stato girato e all'epoca delle riprese il combattimento tra galli era invece una pratica legale (o almeno credo). In tutti i casi la scena della gara finale, con una serie di primi piani sempre più ravvicinati tra l’occhio vitreo di un gallo morente e la faccia sconvolta della fidanzata del protagonista, è un gran pezzo di cinema, come anche l’addio tra i due. (M.M.) 


Grande l’interpretazione di Warren Oates (nello stesso anno interprete anche di "Voglio la testa di Garcia" di Peckinpah, per cui avrebbe meritato l’Oscar) e ottima la fotografia di Nestor Almendros (Oscar perI giorni del cielo). Nonostante i cockfighters siano visti un po’ come i piloti di corse clandestine di Strada a doppia corsia e la fascinazione che il regista riesce a trasmettere per le sottoculture americane il film non riesce forse a divenire un apologo come il precedente.

Geniale, per quanto fuorviante, la tagline pubblicitaria: "He came into town with his cock in hand, and what he did with it was illegal in 49 states." (M.M.) 

1978 Amore piombo e furore (China 9, Liberty 37) 
di Monte Hellman. Con Fabio Testi, Warren Oates, Jenny Agutter, Franco Interlenghi, Sam Peckinpah  

Per sfuggire all'impiccagione un pistolero accetta di eliminare un coltivatore che non vuole vendere il suo terreno a una compagnia ferroviaria. Ma poi, invece, scappa con la moglie dell'uomo, che lo bracca. 

Il misterioso titolo originale "China 9 Liberty 37" proviene da un cartello che appare all'iniziò del film: China è il paese di cinesi in cui Testi sta per essere impiccato, Liberty è il nome chiaramente metaforico della città che rappresenta la meta della sua fuga con la moglie dell'altro. Visto il film, il titolo più insensato è di gran lunga quello italiano. (T.S.)


Originalissimo, ma anche bellissimo, trait d’union tra lo "spaghetti" italiano e il western crepuscolare americano, dei quali costituisce forse l’ultimo vero esemplare di ambedue i generi, pur prendendo diametralmente le distanze da entrambi. Hellman (non accreditato nella versione italiana, firmata invece dall’aiuto regista Antonio Brandt) infatti come sempre disattende le aspettative del pubblico, tralasciando la classica storia dei killer e della compagnia ferroviaria dell’inizio e mettendo una donna come causa scatenante di tutta la vicenda di rivalità e uccisioni, il tutto all’insegna dell’incomunicabilità, della solitudine, della casualità e dell'assurdità del destino. (M.M.) 


Girato in Spagna con (pochi) soldi prevalentemente italiani, ma con comparto tecnico di prima classe: la fotografia di Giuseppe Rotunno è bellissima e le musiche di Pino Donaggio davvero suggestive, è un film lento e indugiante, sconcertante o affascinante a seconda dei gusti. In fondo trama, dialoghi e personaggi potrebbero essere quelli di un western americano anni 50, magari con Glenn Ford, ma il tutto è girato girato nel consueto stile spoglio e neutro di Hellman, che come sua abitudine non concede nulla alle convenzioni spettacolari, ma neanche a quelle altrettanto codificate del realismo cinematografico, andando contro le aspettative degli spettatori quanto a quelle alla critica (che puntualmente entrambi hanno ignorato anche questo suo film). Significativa la sequenza in cui i protagonisti rifiutano le lusinghe di uno scrittore di Dime Novels, interpretato nientemeno che da un magnetico e luciferino Sam Peckinpah. 
Vuole la leggenda che nel film oltre a quella di Peckinpah fossero previste delle piccoli parti anche per Federico Fellini e Sergio Leone. Quest'ultimo pare abbia rinunciato dopo aver visto Peckinpah ubriaco sul set. (T.S.)


Grande cast: Fabio Testi fa il sex symbol ma è comunque molto bravo nella parte del bounty killer dal cuore tenero Clayton Drumm, anche se ovviamente un po' sfigurare al cospetto di due veri attori: un grande Warren Oates, uno che il western ce l’ha scolpito in faccia, qui al suo primo e unico "spaghetti", a cui basta essere inquadrato per giganteggiare, e l'incredibilmente sexy attrice inglese Jenny Agutter, che oltre ad essere una bravissima attrice si riconfermava un miracolo di madre natura. 


1988 IGUANA 
di Monte Hellman, con Everett McGill, Maru Valdivielso, Michael Madsen, Joseph Culp, Tim Ryan, Fabio Testi, Augustin Guevara 

A dieci anni di distanza da "Amore, piombo e furore" Monte Hellman torna alla regia, sempre grazie a una co-produzione italo-spagnola, girata nell’isola di Lanzarote. Nonostante l’estrema povertà delle condizioni in cui si è trovato a lavorare (mancavano addirittura le luci del set e per molte scene aveva a disposizione un unico ciak) il regista dirige il solito film affascinante, inclassificabile ed enigmatico. La storia del marinaio sfigurato che si proclama re di un’isola deserta facendo schiavo chiunque abbia la sventura di capitarci – tratta da un romanzo di Alberto Vázquez-Figueroa, a sua volta ispirato da Melville, e sceneggiata dallo stesso Hellman – richiami echi conradiani e nelle mani del regista diventa un apologo sul potere, il possesso, la violenza e la coercizione. Come in tutti i film di Hellman il finale è completamente spiazzante.

Il protagonista Everett McGill (attore di solito abituato a ruoli di comprimario: ad esempio in Gunny e Twin Peaks) è abbastanza efficace, nonostante il trucco che gli deturpa il viso non sia certo dei più riusciti, così come la protagonista femminile Maru Valdivielso (notevole in tutti i sensi) e il resto del cast, che comprende un giovanissimo, e non ancora “balenizzato”, Michael Madsen e un ottimo Fabio Testi (un po' ridicolo, però, quando si doppia da solo con accento veneto). 

Musiche di Joni Mitchell. Dedicato a Warren Oates. (M.M.)

2010 ROAD TO NOWHERE (inedito in Italia)
di Monte Hellman, con Cliff De Young, Waylon Payne, Tygh Runyan, Shannyn Sossamon, Dominique Swain, John Diehl, Robert Kolar, Nic Paul, Fabio Testi

Il film del ritorno di Monte Hellman al cinema, a ventun’anni di distanza dal suo ultimo lungometraggio, l’horror su commissione Silent Night, Deadly Night 3: Better Watch Out! del 1989. Grazie alla tecnologia digitale che gli concede la possibilità di contenere i costi e di essere svincolato dei produttori il regista può dedicarsi finalmente a progetti più personali, affrontando stavolta un discorso meta-cinematografico, con una pellicola ambientata dietro le quinte del mondo del cinema, e realizzando alla soglia degli ottant’anni il suo personale "Effetto Notte". 

Il film è spiazzante fin dall’inizio, con i titoli di testa che non sono quelli “veri” bensì quelli del film immaginario che il regista protagonista del film sta dirigendo, con i nomi di attori e regista completamente inventati; le immagini dell’opera reale e di quella immaginaria continuano poi a sovrapporsi per tutto il film, in un continuo gioco tra “realtà” e finzione (nella finzione), che alla fine finiscono per confondersi. Come dichiarato fin dal titolo la storia narrata alla fine non conduce verso nulla, e lo spettatore si trova di fronte all’impossibilità di decifrarne il senso; uno svuotamento di significato che nelle intenzioni del regista diventa metaforicamente anche quello dell’esistenza.

Nonostante il film sia, come tutti quelli di Hellman, del tutto anti-narrativo e anti-spettacolare, la regia è scorrevole e affascinante, indice di una lucidità espressiva che non è mai venuta meno. Come ulteriore motivo di interesse ci sono anche un paio di attrici molto carine, Shannyn Sossamon e Dominique Swain. Il film è reperibile solo in lingua inglese, in quanto per ora un’edizione italiana pare non sia prevista. (M.M.)