martedì 18 settembre 2018

GOLD



2013 Gold
di Thomas Arslan di Nina Hoss, Marko Mandic, Peter Kurth, Uwe Bohm

Canada 1898: una piccola carovana di emigrati tedeschi viaggia verso ovest, attirata dal miraggio dell'oro. Mal gliene incolse.

Questo piccolo film tedesco, la cui uscita in questo blog avevamo pure segnalato all'epoca (con qualche dubbio) e che poi non avevamo piu' ripreso, nulla ha a che fare con gli avventurosi kraut western degli anni 60. Puo' funzionare, piuttosto, come una specie di cartina di tornasole del genere degli ultimi anni, dato che sembra racchiudere molti elementi che hanno caratterizzato diversi dei non molti, ma nemmeno pochi, western usciti in questo decennio ormai agli sgoccioli. C'e' l'ormai quasi irrinunciabile protagonista femminile (l'ottima e affascinante Nina Hoss), c'e' il ritmo tipico da film indipendente: "troppo lento" o "fascinosamente meditativo" a seconda dei gusti, c'e' la visione di un west scolorito e inospitale come non mai, c'e' il viaggio verso il nulla dominato dalla presenza costante della morte.

Gold assomiglia molto a Meek's Cutoff, ma l'opera minimalista di Kelly Reichardt potrebbe quasi passare per un normale film hollywoodiano in confronto a questa ancor piu' prosciugato film di viaggio all'insegna della morte, dove si parla ancora meno, dove i personaggi sono visti quasi come insetti e muoiono spesso da tali. Il fantasma di un altro titolo aleggia su tutta la pellicola, quello di Dead Man di Jim Jarmusch, del resto evocato esplicitamente dalla colonna sonora. E in effetti i personaggi, caratterizzati il meno indispensabile e tutt'altro che simpatici e accattivanti, sembrano dei tanti piccoli "dead men", immersi in un Far West piu' indifferente e letale dello spazio profondo, dove si puo' morire o cercare volontariamente la morte ad ogni passo, spesso per i motivi piu' futili e casuali. Raramente si e' visto un western piu' "ateo", sia in senso letterale, sia nel senso di "fede" nel genere cinematografico, dato che tutti i luoghi comuni del genere sembrano svuotati di ogni senso e possibile risvolto positivo. Al termine del film, dopo un ossessivo susseguirsi di alberi dopo alberi, non c'e nemmeno un qualche Cuore di Tenebra o la fine del viaggio, ma solo altra morte casuale e ancora altri alberi.

Operina a suo modo radicale, spietata e gelida, fatta apposta per respingere o per affascinare.

venerdì 14 settembre 2018

HOSTILES

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2017 Hostiles
di Scott Cooper con Christian Bale, Rosamund Pike, Wes Studi, Adam Beach, Q'orianka Kilcher, Rory Cochrane, Peter Mullan, Stephen Lang, Ben Foster

"Hostiles" e' un film interessante fin dall'idea di fondo che sembra sostenerlo: la visione dell'epopea del West come una guerra infinita e atroce, di cui il film racconta le fasi finali, tanto che tutti i protagonisti sembrano afflitti da una modernissima sindrome post traumatica da stress.
E' un film ben diretto da un solido artigiano come Cooper, che ha girato intorno al genere fin dall'esordio "Crazy Heart" (il ritratto di un cantante country alcolizzato, forse il suo titolo migliore perche' il piu' asciutto) e, ancora di piu', col successivo livido dramma suburbano "Il fuoco della vendetta".
E' un film che non ha paura di prendersi i suoi tempi e di assestare allo spettatore dei feroci pugni allo stomaco. E forse ancora piu' coraggiosamente e' un film che a livello di fotografia rinuncia agli standardizzanti e onnipresenti filtri odierni, facendo respirare gli splendidi paesaggi nei loro colori naturali.
Ed e', abbastanza ovviamente visto il cast di prim'ordine messo in campo, un film ottimamente interpretato.

Eppure a "Hostiles" manca qualcosa per fare quello scatto che eleva un buon film con tutte le sue cose in ordine a un bel film. O meglio, ha qualcosa di troppo, una specie di vergogna di raccontare quello che sta raccontando. Sostanzialmente sembra di vedere un western che chiede continuamente scusa di essere un western, con il senso di colpa che attanaglia il protagonista e i suoi compagni d'armi per il troppo sangue sparso che pare essersi trasferito agli autori. O viceversa.
Di questo vizio di base ne fa le spese la sceneggiatura, a volte claudicante con passaggi didascalici e fin troppo esemplificativi. Quando vediamo una giacca blu dell'ottocento in esaurimento nervoso che chiede letteralmente perdono ai "nativi", prima di farsi saltare il cervello, capiamo che non e' piu' il personaggio che parla, ma gli autori.

Vista la natura comunque dura e crudele del film il politicamente corretto provoca anche dei paradossi curiosi: tipo l'esasperata e continuamente rimarcata malvagita' di tutti gli avversari in cui si imbattono i protagonisti (stragisti, stupratori, prevaricatori, razzisti) che da visione foschissima della realta' del vecchio West rischia di scivolare nella paraculata, dato che finisce per giustificare agli occhi dello spettatore qualsiasi atto di violenza praticato dai "buoni".

Ad un certo punto viene anche citato, fin troppo esplicitamente, il monologo finale di Clint Eastwood de Gli spietati. Ma laddove per il personaggio di Eastwood l'aver "ucciso donne e bambini" e "creature che camminano e strisciano in tempi lontani" era un'ammissione di dannazione di dimensioni bibliche e dunque comunque epiche, lo stesso discorso messo in bocca a personaggi in preda a mille sensi di colpa (e un po' tutti dalla lacrima troppo facile) da' la sensazione di una visione quaresimale e alla fine manichea della Storia, con e senza la maiuscola.   

In definitiva, buon film "Hostiles", ma la cui affascinante cupezza odora a volte piu' di contrizione contingente che non di tragedia universale.

domenica 9 settembre 2018

DAN CANDY'S LAW / ALIEN THUNDER



1974 Dan Candy's Law / Alien Thunder
di Claude Fournier con Donald Sutherland, Kenin McCarthy, Chief Dan George, Gordon Tootoosis,  Francine Racette, Ernestine Gamble

Ispirato ad un fatto vero. Saskatchewan 1880: piu' per ottusa testardaggine che per autentico spirito di vendetta, il sergente delle Giubbe rosse Dan Candy (Donald Sutherland) si imbarca in una faida personale con un indiano cree, colpevole dell'omicidio di un suo collega e amico. 

Bellissimo e dimenticatissimo titolo canadese. Western autunnale se mai ne e' esistito uno, dato che gli splendidi paesaggi autunnali e invernali sono forse i veri protagonisti del film. Al termine dei titoli di testa Fournier viene accreditato come regista e direttore della fotografia, tutta sua quindi l'atmosfera fosca e quasi bruegheliana in cui e' immersa questa storia di stanca vendetta e quieta tragedia, con l'enormita' dei paesaggi selvaggi che minimizza le azioni degli uomini. Film quasi cronachista e anti-spettacolare, che sta dietro ai fatti e alle azioni quotidiane, che si attarda piu' a cercare la poesia nel volto di una ragazza indiana tra i rami, che non a spiegare le psicologie dei personaggi o le ragioni storiche e sociali di quel che accade.  

Un inno visivo al Canada, a quella sua aria un po' misteriosa, da West piu' freddo e filtrato da un antichita' europea. Ma di contro anche un velenoso sberleffo al mito della Giubba Rossa. Se gia' Sutherland, con la sua solo presenza, fornisce una figura di giubba rossa poco eroica e ancor meno aristocratica (in un'ironica sequenza lo si vede attendere il suo avversario nel campo indiano, ma i cree gliela fanno sotto il naso comunicando tra loro con i versi degli uccelli), ci pensa il finale a mettere in una luce definitivamente grottesca quello che in fondo fu comunque il braccio armato di una potenza colonizzatrice.

Oltre a Sutherland ci pensa il faccione di Chief Dan George, nella sua consueta parte di saggio capo indiano, a dare al film qualche lieve tocco di simpatia umana.

sabato 10 febbraio 2018

15:17 – ATTACCO AL TRENO



2018 Ore 15:17 - Attacco al treno
di Clint Eastwood con Anthony Sadler, Alek Skarlatos, Spencer Stone, Jenna Fischer, Judy Greer, Ray Corasani, Shaaheen Karabi, William Jennings, Thomas Lennon, Jaleel White, Tony Hale, Sinqua Walls, P.J. Byrne, Helene Cardona

Una piccola deviazione, ma è l’occasione giusta per dire due-tre cosette anche sul western.

L’operazione compiuta da Eastwood per The 15:17 to Paris – scritturare per un film di fiction gli autentici protagonisti dei fatti narrati, Sadler, Skarlatos e Stone, i tre cittadini americani che nell’agosto del 2015 sventarono un attentato di matrice jihadista sul treno Thalys 9364 diretto a Parigi – non è ovviamente priva di precedenti. Anzi, si può ragionevolmente affermare che il cinema nasce con tale procedimento, nel momento in cui i Lumière chiedono agli operai dello stabilimento di Montplaisir di rifare la loro uscita dai cancelli a favor di macchina (L’uscita dalle officine Lumière, 1895), o nel momento ancora precedente (1894) in cui Dickson ed Heise ingaggiano Annie Oakley per inscenare al Black Maria di Edison uno dei suoi celebri spettacoli di tirassegno. Per chi consideri le categorie del cinema evoluto o narrativo inapplicabili al cosiddetto Sistema delle attrazioni mostrative (1895-1906), ci sono esempi più vicini a noi: nel 1920, per esempio, Babe Ruth interpreta sé stesso nel brutto Headin’ Home di Lawrence Windom, ma citiamo anche il caso di Audie Murphy, che in All’inferno e ritorno (To Hell and Back, 1955) di Jesse Hibbs presenta – pur, va detto, con un’ormai quasi decennale carriera d’attore alle spalle – la propria autobiografia di reduce pluridecorato della Seconda guerra mondiale. Venendo a riferimenti decisamente più a portata di mano, è sicuramente curioso il caso di Act of valor (2012) di McCoy & Waugh, un giocattolone vagamente propagandistico che affianca ad attori più o meno noti veri SEALs e SWCC, coperti però da anonimato. L’utilizzo di real-life heroes al posto di interpreti pone dal punto di vista della teoria dell’attore interessanti questioni: sembrerebbe aprire una terza via tra immedesimazione e straniamento, quella platonica dell’anamnesi. Immagino però che Clint Eastwood direbbe di Platone quello che Wyatt Earp diceva di Amleto: «That feller was a talkative man: he wouldn’t have lasted long in Kansas». Proviamo ad avvicinarci dunque al cuore di questo bel film.

The 15:17 to Paris è per Eastwood il coronamento di un discorso intrapreso con American sniper (2014) e proseguito con Sully (2016), assieme ai quali forma uno splendido trittico sull’eroismo dell’american man. I primi due capitoli terminano con filmati di repertorio: l’uno si risolve sui funerali del vero Chris Kyle, l’altro sulla reunion del vero Sullenberger con i passeggeri del famigerato volo US Airways 1549 terminato nell’Hudson. Con il senno di poi, considerata la consequenzialità del cinema eastwoodiano, il passo successivo non poteva essere che prendere direttamente chi in quei footage ci stava. Per il regista californiano non esiste sperimentazione, soltanto necessità discorsiva. Nulla è superfluo in The 15:17 to Paris, nemmeno ciò che sembra tale: le peregrinazioni turistiche tra Italia, Germania e Olanda dei tre protagonisti, tra selfie e serate alcoliche in discoteca, servono perfettamente a dare la dimensione dell’average american man, colto anche nel suo rapporto fantasmatico con il Vecchio continente – superbo da questo punto di vista il qui pro quo sul suicidio di Hitler con la guida tedesca. In un grande libro di Richard Hofstadter, Società e intellettuali in America (Anti-intellectualism in American life, 1963), possiamo recuperare il fulminante slogan che nel 1824 riassumeva a livello popolare i due poli della campagna presidenziale allora in corso: «John Quincy Adams who can write and Andrew Jackson who can fight». L’America è sempre stata questa dualità e chi non lo accetta rischia di non coglierla nella sua anima (o di perdere le elezioni). Sadler, Skarlatos e Stone sono tre uomini jacksoniani. Non sanno "scrivere", non sono nemmeno uomini dalle carriere straordinarie – sono molti gli incidenti di percorso di Stone nell’esercito, Skarlatos è utilizzato in missioni di secondo piano, Sadler è un semplice studente - ma hanno capacità di reazione. Capacità e velocità di reazione sono concetti centrali nella cultura americana e li troviamo ovviamente esemplificati alla perfezione nel western: una Colt al fianco significa capacità immediata di risposta alla minaccia, ma la discriminante tra vita e morte dipende dalla velocità con cui tale risposta è ingaggiata. Inutile dire che la filmografia di Eastwood ha un rapporto strettissimo con l’universo (morale, etico, politico) del genere americano per eccellenza. A questo proposito non è chiaramente casuale il rimando a 3:10 to Yuma (Quel treno per Yuma, 1957) nel titolo originale: anche il capolavoro di Daves metteva in scena l’eroismo dell’uomo comune in circostanze eccezionali.

Dal punto di vista strutturale, The 15:17 to Paris è costruito come un’enorme analessi rispetto al momento topico dell’attentato. I flashback sono il Bildungsroman dei tre protagonisti, dei quali apprendiamo il rapporto complicato con l’istituzione scolastica, il milieu cristiano di provenienza, la passione per le armi ed il culto precoce del cameratismo, anticamera all’arruolamento nell’esercito di due di essi. L’insistenza sulla tematica religiosa (ritornerà enfatizzata dalla voce fuori campo nel prefinale) e sulla vocazione militare (che Eastwood, attenzione!, non appoggia ottusamente, ci mancherebbe: la locandina di Full metal jacket in bella vista non può essere casuale) non hanno nulla a che fare con la retorica nel suo abusato senso dispregiativo: ancora una volta, cadere in questo trabocchetto significherebbe ignorare una parte consistente del vecchio spirito americano - che ancora sopravvive e si fa sentire, distante dai long drink cittadini -, per la quale religione ed esercito sono momenti della comunità molto più che pratica esteriore o semplice professione. Ripassare il buon vecchio John Ford non fa mai male. Troppo lontano? Reportage di Antonio Preiti per News List, gennaio 2018. Titolo: Benvenuti nella Trumpland. L'autore chiede ad un uomo di Nashville, Tennessee, spiegazioni sui numerosissimi e monumentali presepi allestiti nei giardini delle tipiche villette a schiera. La risposta è questa:



Qual è il punto? Che Eastwood ha la schiettezza e la pulizia dei classici e paradossalmente, nell’epoca del postmoderno avanzato, è proprio questo approccio ad essere diventato straniante. Facciamo ormai fatica a ricevere un discorso che non si decostruisca dall'interno nel momento stesso in cui si dipana. Non riusciamo più a prendere sul serio nulla, ci deve essere l'ironia, ci deve essere il nichilismo a buon mercato a smontare tutto. Non siamo più abituati alla limpidezza.

Ecco, fermiamoci qui: diciamo semplicemente che The 15:17 to Paris è un film limpido. È il più bel complimento che gli si possa fare.


Paolo Antonio D'Andrea