venerdì 29 giugno 2012

i film 39 - Jesuit Joe



1991 JESUIT JOE
di Olivier Austen, con Peter Tarter, John Walsh, Laurence Treil, Geoffrey Carey, Chantal DesRoches, Valerio Popesco, Guy Provencher

Tentativo ammirevole e coraggioso, ma purtroppo davvero ben poco riuscito, di trasporre su pellicola le immagini e le atmosfere delle storie a fumetti del grande Hugo Pratt.
Uno dei problemi di fondo della pellicola è probabilmente l’opera su cui è caduta la scelta, Jesuit Joe, conosciuta anche come L’uomo del Grande Nord (con questo titolo è stata pubblicata come ventottesimo numero della bellissima collana edita dalla Bonelli Un uomo Un’avventura nel giugno 1980), una delle più rarefatte e stilizzate, meno dialogate e più concettuali del Maestro veneziano.



E’ ovvio, quindi, che per raggiungere il metraggio sufficiente e l’ora e mezza canonica di durata il regista, tale Olivier Austen, al suo primo (e si vede) e unico (e si capisce perché) film, abbondi nelle inquadrature di paesaggi, con un profluvio di riprese aeree di distese innevate, immancabili sequenze accelerate di nuvole in movimento, ralenty a profusione e lunghissimi pezzi solo musicali (il tutto occuperà metà film).



Per quanto cerchi di rimanere il più possibile fedele al testo d’origine, seguendo alla lettera il canovaccio della storia a fumetti, il regista ne riempie spesso i silenzi con dialoghi sentenziosi e filosofici del tutto fuori posto, fino ad arrivare a un finale didascalico e “leoniano” che fa a pugni con l’asciuttezza di quello di Pratt.
La scelta peggiore di tutte, però, è senza dubbio l’idea di utilizzare come voce narrante un insopportabile e cantilenante avvoltoio (specie che in Canada nemmeno esiste), che interrompe di continuo la narrazione con degli insostenibili discorsi mistico-filosofici. Il ritmo del film, va da sé, è lento e soporifero.
La musica, in aggiunta, è completamente fuori luogo e contribuisce non poco a peggiorare notevolmente il tutto.



Abbastanza efficace, invece, l’attore protagonista, Peter Tarter, che trasmette abbastanza bene il cinismo e l’indifferenza del métis prattiano.
Da salvare rimane qualche immagine del Grande Nord innevato, comunque suggestiva per chi, come chi scrive, è cresciuto a pane e Jack London e alcune folgoranti battute prattiane, come quella iniziale in cui il protagonista spara a un paio di uccellini in amore: “Troppa felicità in questo bosco”.


giovedì 28 giugno 2012

gli attori 3 - Marlon Brando

MARLON BRANDO
Il tormentato West di un grande inquieto



"forse Marlon Brando sarà là davanti al fuoco
ci siederemo e parleremo di Hollywood
e delle buone cose da prendere in prestito
dell'Astrodome e del primo teepee
Marlon Brando, Pocahontas e io"
(Neil Young "Pocahontas", 1978)


Se Marlon Brando è stato uno dei più grandi divi della storia del cinema non lo deve certo ai suoi ruoli western. Le poche pellicole che interpretò nel genere furono infatti dei clamorosi disastri commerciali. Eppure era un genere che amava molto, tanto che è stato proprio un western l'unica pellicola da lui anche diretta. Ripercorriamo i ruoli che lo portarono nel west o in quei dintorni, puntando l'obbiettivo soprattutto sui due film che, direttamente ("I due volti della vendetta") o indirettamente ("A sud-ovest di Sonora"), si possono dire più suoi.

1952 VIVA ZAPATA!
di Elia Kazan con Marlon Brando, Jean Peters, Anthony Quinn, Joseph Wiseman, Arnold Moss

Sceneggiato nientemeno che da John Steinbeck, è un turgido e introspettivo dramma sociale, con un Brando super-macho già entrato nel mito l'anno prima per il suo Kowalski (e la sua canottiera) in "Un tram che si chiama Desiderio", sempre diretto da Kazan. Brando che interpreta il leader rivoluzionario come un personaggio shakespeariano, con dei baffi ridicoli e truccato da messicano è il massimo della faccia tosta hollywoodiana di quegli anni. Quindi insopportabile o affascinante a seconda di quanto si riesce a prenderlo sul serio.

Pur non essendo un vero western, insieme a "Viva Villa!" del '34 (prodotto come questo da Zanuk), "Viva Zapata!" sarà il film più saccheggiato dai tortilla western italiani. Alcune scene, come quella dei peones che corrono in aiuto di Zapata arrestato dai rurales o come quella delle donne che fanno saltare il portone del forte, sembrano uscire da un film di Sergio Corbucci. In particolar modo i personaggi del rivoluzionario canagliesco (Anthony Quinn) e quello dell'intellettuale gelido, che manovra e tradisce a seconda dei suoi interessi, sono i primi abbozzi della coppia del messicano cialtrone e del gringo professionista che si ritroverà in praticamente tutti i western rivoluzionari nostrani. La bella scena dell'omicidio di Madero sotto la pioggia doveva avercela ben presente anche Leone quando girava "Giù la testa!". Mai più ripresa invece la bella idea di descrivere i potenti non come despoti crudeli, ma come melliflue figure paterne.

Quella volta che Sam Peckinpah e Stanley Kubrick quasi…


La storia della realizzazione del primo vero western e dell'unico film come regista di Brando è già di suo un film, basterebbe anche solo dire che andò molto vicino ad essere un'opera basata su una sceneggiatura di Sam Peckinpah e diretta da Stanley Kubrick. Va anche detto che della storia produttiva di questo film esistono infinite versioni spesso assolutamente contraddittorie tra di loro, di cui qui abbiamo tentato di fare una sintesi.  

L’idea del film pare sia nata da un soggetto dello stesso Brando, tratto da un romanzo di cui aveva comprato i diritti "The Authentic Death of Hendry Jones" di Charles Neider (ironica allusione alla biografia "The authentic life of Billy the Kid" scritta nientemeno che da Pat Garrett). Pare che fin dall'inizio Brando avesse intenzione di esserne anche il regista, ma nella rigida divisione dei ruoli della Hollywood degli anni 50 non era così facile neanche per un divo passare dall'altra parte della macchina da presa. Una differenza non da poco che si trova in altre versioni della vicenda è che Brando avesse assunto il compito di regista controvoglia, solo quando la produzione del film era arrivata con l'acqua alla gola. Comunque, sia stato per mettere alle strette la produzione e diventare regista, sia stato solo per via della sua caotica personalità, il fatto è che attorno a Brando iniziò un carosello di sceneggiatori e potenziali registi che uno dopo l'altro gettarono la spugna, di fronte alle infinite discussioni e litigi che dovevano sostenere con l'attore. Brando arrivò da solo ad una scrittura quasi completa del copione durante la sua permanenza in Giappone, mentre girava film come "La casa da tè alla luna d'agosto" e "Sayonara ". L'influenza della cultura orientale si rivelerà fondamentale per il film. Nel 1957, tornato Brando in America, la sceneggiatura finì nella mani di Sam Peckinpah, allora
sceneggiatore televisivo agli inizi di carriera, che ne scrisse un ulteriore trattamento. Dopo che erano stati caldeggiati - tra i tanti - i nomi di autori come Elia Kazan e Sidney Lumet, il regista scelto dalla produzione a quel punto era il giovane Stanley Kubrick.

Nonostante avesse girato solo tre film, Kubrick era già noto per il carattere glaciale e per il controllo assoluto che riusciva ad esercitare sui suoi set. Un osso duro anche per un attore come Brando, perennemente in attrito con i registi che lo dirigevano. Con un modo di fare a lui consueto, l'attore tentò di prendere per sfinimento Kubrick, costringendo lui e lo sceneggiatore Calder Willingham ad interminabili discussioni sul film, scoprendo però che il regista era ancora più maniacale e ossessionato dai dettagli di lui. La situazione di stallo che si era venuta a creare pare si risolse in modo decisamente comico e sconcertante. Dal suo viaggio in Giappone Brando era tornato innamorato dalla cultura giapponese e aveva arredato casa sua di conseguenza, per cui le discussioni con Kubrick si svolgevano stando seduti sul pavimento in perfetto stile nipponico. Un giorno, per mettere ulteriormente in imbarazzo il regista, Brando si presentò con una corta vestaglia orientale e sotto niente altro. Quando Brando si sedette a gambe incrociate davanti a lui, mettendo in bella mostra quello che aveva da mostrare, la reazione di un imperturbabile Kubrick fu semplicemente chiedere "Marlon, stai cercando di dirmi qualcosa?". Al che finalmente l'attore confessò il suo desiderio di essere lui stesso il regista del film. Kubrick alla fine rinunciò serenamente al progetto, anche perché aveva delle perplessità a vedersi alle prese con il western.


Difficile capire se sia restato qualcosa delle lunghe discussioni dell’attore con Kubrick. Sarebbe facile vedere nel ritmo lento del film, nella ricercata composizione delle immagini e nel tono a volte distaccato della narrazione un'influenza del regista di "2001 Odissea nello spazio". Ma è più probabile che tali aspetti Brando li avesse mutuati piuttosto dall’amato cinema giapponese. D’altra parte sono soluzioni formali che nel cinema di Kubrick emergeranno soprattutto a cominciare da "Spartacus", che è proprio il film che andrà a dirigere dopo aver rinunciato al film con Brando. Resterà per sempre il rimpianto che un regista del calibro di Kubrick non si sia confrontato anche con il genere western.

Dopo l’abbandono di Kubrick la preparazione del film era costata già troppi soldi per poter rimandare ancora l'inizio delle riprese, quindi i produttori consentirono a Brando di esserne anche il regista. O l'attore accettò per salvare la produzione come vogliono altre versioni. Brando riprese la sceneggiatura elaborata da lui stesso in Giappone, tenendo pare solo due scene  del trattamento scritto da Peckinpah, litigò anche con l'ultimo sceneggiatore incaricato dalla produzione di concludere una volta per tutte la stesura del copione (Guy Trosper) e iniziò le riprese nel dicembre del 1958. Sarà l’inizio di un delirio. Le riprese sarebbero dovuto durare due mesi, tra una cosa e l’altra durarono il triplo e si spalmarono nell’arco di due anni. I costi lievitarono a proporzioni da kolossal, sia per l'ossessività di Brando come regista, sia a causa della perdita di molti metri di pellicola, con conseguenti scene che dovettero essere rigirate rimettendo insieme il cast un anno e mezzo dopo la fine ufficiale delle riprese. 


La fine delle riprese non fu certo la fine delle tribolazioni del film. Brando fece stampare 35 ore di proiezione e iniziò un’interminabile opera di montaggio. Dopo quasi un anno se ne uscì con un film dalla durata di 4 ore e 42 minuti. A quel punto la produzione intervenne imponendo tagli che ridussero la durata della pellicola esattamente della metà e con un finale diverso a quello pensato da Brando. Costato 6 milioni di dollari il film uscì nel marzo 1961, cioè proprio in un periodo di grave crisi del western americano nella sale, finendo per incassare 4 milioni. Anche se il film diventerà un'opera di un certo culto e sarà ridistribuito varie volte in giro per il mondo, facile comprendere perché fu la prima ed ultima opera di Brando come regista.

1961 I DUE VOLTI DELLA VENDETTA (One-Eyed Jacks)
di Marlon Brando con Marlon Brando, Karl Malden, Pina Pellicer, Katy Jurado, Ben Johnson, Larry Duran, Slim Pickens

Western inclassificabile, affascinante e maledetto come il suo autore, "I due volti della vendetta" è il classico caso di grande film malato, una di quelle opere che ammaliano anche grazie ai loro difetti e squilibri. Caratterizzato da un ritmo lentissimo, ispirato al cinema e al teatro orientale, ogni scena è carica di una sorta di tensione cerimoniale, magnetica ed estenuante al tempo stesso. Per contrasto le poche scene d’azione sono invece veloci e brucianti, decisamente avanti in quei tempi per realismo e crudezza, come la fulminea e brutale sequenza della rapina in banca in cui muore anche una ragazzina.


Nonostante fosse visibilmente in sovrappeso Brando riesce a dare vita al suo tipico personaggio ombroso e seducente, una specie di Amleto nel far west, dalla personalità aggrovigliata e con tendenze masochiste, spesso vestito di nero e con poncho messicani indossati come fossero mantelli regali. Il suo Rio è un personaggio indecifrabile, su cui lo spettatore non riesce mai ad avere le idee chiare, come del resto anche riguardo agli altri personaggi.


Chissà quanto la mancanza di un chiaro giudizio morale sui personaggi può essere attribuita all'influenza di Peckinpah. Nonostante Peckinpah dichiarasse che del suo trattamento non era rimasto praticamente nulla, non si può non notare che il film di Brando anticipa parecchi elementi, personaggi e situazioni dei suoi futuri western, con ben tre attori che saranno cari al suo cinema come Katy Jurado, Ben Johnson, Slim Pickens, alle prese con personaggi del tutto simili a quelli che ritroveremo nei suoi film. Oltre al rifiuto di una divisione manichea dei personaggi, tipico di Peckinpah c’è il montare irrazionale e casuale della violenza, le atmosfere sature e cariche di foschi presagi e quella specie di sguardo attonito che i suoi personaggi hanno spesso di fronte alla morte. In questo senso bellissima la crudele sequenza della morte dell'amico messicano di Rio, ucciso a sangue freddo da Ben Johnson. 


Come molti attori che passano dietro alla cinepresa, Brando mostra una sensibilità particolare nel dirigere i colleghi e ottiene da tutto il suo cast - del resto straordinario - delle interpretazioni memorabili. A cominciare ovviamente da Karl Malden, perfetto nella parte del mellifluo Dad, un meschino traditore non privo però di sfumature umane. Particolarmente forte fu la scelta di Brando di mettere nella parte della ragazza messicana di cui si innamora il suo personaggio, non la classica attrice americana truccata come era la regola allora ad Hollywood, ma una vera attrice messicana. È la minuta e spigolosa Pina Pellicer, tutt’altro che una bellezza canonica, che dona al suo personaggio un'intensa e malinconica luminosità. Purtroppo l'attrice morirà suicida pochi anni dopo a soli trent'anni, diventando una figura di culto in Messico.


Il film ha un'aria eccentrica, con Brando che riempie il suo west di particolari bizzarri. Il film si apre con il suo personaggio che con fare indolente mangia delle banane e giochicchia con una bilancia durante una rapina in banca, e si chiude con un duello finale tra Brando e Malden dove i due personaggi invece di affrontarsi a viso aperto, come nella classica iconografia del genere, si nascondono dietro ad una fontana. Ma soprattutto è il caso più unico che raro di un western girato in riva all’oceano, il che da al tutto un'atmosfera strana e surreale.

Visivamente il film è splendido. La straordinaria fotografia di Charles Lang ritrae un west ventoso e iperrealistico, dove cavalli e pallottole sollevano nubi di polvere e gli alberi in riva all’oceano sembrano usciti da stampe giapponesi. Da lustrarsi gli occhi anche le costosissime scenografie. Il paesino di Monterey ha un'aria barocca e affollata, la casetta in riva al mare di Karl Malden e il villaggio dei cinesi hanno un'atmosfera quasi metafisica. Brando gestisce da vero regista l'alternanza tra campi lunghissimi e primi piani dove i personaggi giganteggiano e sembrano bucare lo schermo.


I tagli della produzione si accanirono soprattutto sulla parte in cui Rio è convalescente nel villaggio di pescatori cinesi. A quel punto la versione di Brando prevedeva praticamente un film nel film, con il protagonista che viveva  una storia d’amore con una ragazza cinese, l’attrice Lisa Lu, totalmente sparita dalla pellicola. Ovviamente la cosa avrebbe reso ben più complessa e molto meno convenzionale la parte melodrammatica della storia. Altro pesante cambiamento è il finale, che prevedeva la morte di Rio, ferito mortalmente da Dad. Si preferì un finale smielato in cui Rio promette alla sua amata di tornare a vedere il figlio che lei sta aspettando, anche se la scena gronda talmente retorica da essere quasi ironica.

Il titolo originale si riferisce ai Jack di cuori e di picche dei mazzi tradizionali delle carte da gioco, che stando di profilo mostrano solo un occhio e quindi simboleggiano le persone ambigue che mostrano solo un lato della loro personalità. 

1966 A SUD-OVEST DI SONORA (The Appaloosa)
di Sidney J. Furie, con Marlon Brando, Anjanette Comer, John Saxon, Emilio Fernández, Frank Silvera, Alex Montoya, Miriam Colon, Rafael Campos

Brando torna al western cinque anni dopo. Sarà l'influenza dell'ingombrante personalità dell’attore, sarà un semplice caso, ma "A sud-ovest di Sonora" ha parecchie affinità con "I due volti della vendetta". Anche qui abbiamo un ritmo lento, una sontuosa e magnifica fotografia (di Russel Metty), atmosfere bizzarre e irreali, personaggi contorti, scene d’azione girate contro l’iconografia classica.

Del resto entrambi i film appartengono a quello strano limbo del western americano degli anni 60, compreso tra la fine del periodo classico ad inizio decennio e l’inizio della fase crepuscolare a fine decennio. Un periodo in uscivano strani western cerebrali e inclassificabili, titoli come "L'occhio caldo del cielo" di Robert Aldrich, "Invito ad una sparatoria" di Richard Wilson, "Tempo di terrore" di Burt Kennedy, "La notte dell'agguato" di Robert Mulligan, "Hombre" e "L’oltraggio" di Martin Ritt e soprattutto "Le colline blu" e "La sparatoria" di Monte Hellman.


Per quanto affascinante "A sud-ovest di Sonora" è un'opera meno originale e complessa de "I due volti della vendetta". Manca probabilmente una visione d'insieme, che dia vero senso a ciò che si narra. L'impotenza del protagonista riscattata dall’amore per una donna, le ossessione feudali dell’antagonista messicano, sono temi interessanti che però non prendono mai veramente vita nel film. "I tempi del film, tutto incentrato sulla guerra psicologica tra un reduce americano e un bandito messicano per il possesso di uno stallone, sono distesi e dilatati e le scene tradizionalmente western (sparatorie e ammazzamenti) sono in pratica riservate all’ultimo quarto d’ora. La regia del canadese Sidney J. Furie, nonostante dei tocchi barocchi e visionari anche piuttosto efficaci, risulta alla fin fine un po’ anonima. (Mauro Mihich)"


Brando è allo stesso tempo il punto di forza e il vero limite del film. Al solito ebbe pessimi rapporti con il regista, che lo accusò di voler portare il caos sul set. "Il grande attore porta nel genere la sua recitazione intellettuale e introspettiva da Actor's Studio, con ampio spazio per primi piani corrucciati e monologhi un po’ sentenziosi, ma non riesce forse a definire completamente il suo personaggio, un uomo si perdente e tormentato ma anche fondamentalmente violento: l’unico ad essere perfettamente credibile in ruoli del genere era Paul Newman. (Mauro Mihich)"

Resta un film disunito, ma con numerose sequenze di grande effetto. La tesissima sequenza di Brando che entra in un tugurio messicano, la sfida a braccio di ferro con degli scorpioni dall’inaspettata conclusione, la notevole sequenza quasi da film horror dell’omicidio del pecoraio, con Brando e la donna nascosti in una tomba, l’originale duello finale tra le montagne innevate, con i due protagonisti che neanche riescono a vedersi.


Ancora oggi attiva come caratterista, soprattutto in serie televisive, Anjanette Comer ebbe allora una breve notorietà grazie a film come questo, l’acidissimo "Il caro estinto" di Tony Richardson e "I cannoni di San Sebatian" a fianco di Anthony Quinn. "John Saxon, attore americano di origine italiana, che poi avrà una lunga carriera nel poliziottesco nostrano, interpreta un messicano come nel successivo Joe Kidd di Sturges. Decisamente più credibile il vero messicano Emilio El Indio Fernandez, il crudele generale Mapache de Il mucchio selvaggio. (Mauro Mihich)"

1966 LA CACCIA (The Chase)
di Arthur Penn con Marlon Brando, Jane Fonda, Robert Redford, E.G. Marshall, Angie Dickinson, Miriam Hopkins, Robert Duvall, James Fox

Non è un western, ma merita comunque una citazione questo appassionante dramma corale di Arthur Penn, dove Brando regala una delle sue interpretazioni più memorabili nei panni di un coraggioso sceriffo. Contrariamente ai suoi soliti personaggi moralmente ambigui stavolta Brando interpreta l'unico personaggio completamente positivo del film. Proprio perché onesto e incorruttibile lo sceriffo Calder è isolato nella sua stessa comunità, mal sopportato da tutti e vittima di maldicenze. Perderà la sua battaglia, ma se ne andrà a testa alta. Ancora oggi impressionano la scena del suo pestaggio nell'ufficio, uno dei momenti più alti del tipico masochismo di Brando, e la furente reazione finale contro un assassino.

Con "La caccia" Penn fa a pezzi il luogo comune americano della provincia tranquilla e pacifica, portatrice sana di valori, in contrasto con la corruzione delle grandi città. Non solo il film descrive la provincia come un covo di serpi dedite al massacro reciproco, ma la ritrae proprio come l'incubatrice dei peggiori mali della società: corruzione, razzismo, violenza, sessismo, idiozia di massa. Un'America dedita, non solo metaforicamente, all'uccisione dei suoi figli migliori.

1976 MISSOURI (Missouri Break)
di Arthur Penn con Jack Nicholson, Marlon Brando, Randy Quaid, Kathleen Lloyd, Frederic Forrest, Harry Dean Stanton, John McLiam

Altro film di Arthur Penn, uno dei rari registi con cui Brando ebbe un buon rapporto (per quanto Penn dichiarò che Brando non capiva nulla dei personaggi che interpretava). Questo è un vero western, anche se parecchio fuori dagli schemi, ma come gli altri western diretti da Penn (Furia selvaggia e Piccolo Grande Uomo) merita un approfondimento tutto suo.

Non che in un certo senso l'attore non si "impossessi" a modo suo anche di questo film, trasformando quello che sulla carta era un convenzionale antagonista del protagonista in un personaggio incredibile, mai visto in un western. Il suo Lee Clayton è un cacciatore di uomini psicopatico ed imprevedibile, sessualmente ambiguo, con tendenze necrofile e zoofile, rompiscatole e impiccione, capace - tra le tante - di travestirsi senza alcuna ragione da vecchia nonna per andare ad ammazzare qualcuno. Forse è uno dei personaggi che rischia di assomigliare di più al Brando attore: incontrollabile, affascinante, eccessivo, umorale, dispettoso, narcisista, bastian contrario. Probabilmente un vero matto. Sicuramente unico.

mercoledì 27 giugno 2012

i registi 15 - Antonio Margheriti 2

ANTONIO MARGHERITI
Ombre sulla frontiera


Parte II


1974 LÀ DOVE NON BATTE IL SOLE di Antonio Margheriti. Con Lee Van Cleef, Lo Lieh, Karen Yen, Patty Shepard, Femi Benussi.


«Kung-fu western - o soja western, come lo definisce il Giusti nel suo dizionario - che mette assieme la star degli spaghetti Lee Van Cleef e quella dei gongfu movies cinesi Lo Lieh - l’interprete di Cinque dita di violenza (1972) -, in una bizzarra produzione mista italo-americano-hongkonghese, con addirittura l’intervento del famoso Studio Shaw.
Le stramberie non si fermano qui, ma si estendono anche alla trama, che vede i due protagonisti alla ricerca di un tesoro per mezzo di una mappa tatuata sul fondoschiena di quattro peripatetiche – i culi sono quelli di Erika Blanc, Femi Benussi, Patty Shepard e Karen Yeh e sono di gran lunga la cosa migliore del film – da cui il geniale titolo italiano.
Purtroppo nonostante l’ottimo budget e un regista professionale ed esperto come Antonio Margheriti, che si firma con l’abituale pseudonimo di Anthony M. Dawson, il film è una patacca di proporzioni colossali e le cose che funzionano sono veramente poche: il ritmo è soporifero in maniera quasi mortifera, i dialoghi che vorrebbero essere brillanti spesso e volentieri fanno venire il latte alle ginocchia, le quattro starlette non sono assolutamente sfruttate come meriterebbero, l’audace commistione tra commedia e violenza - con effetti splatter anche particolarmente sanguinosi - non funziona per niente, anzi in piú di un’occasione stride di brutto, i personaggi sono tutti variamente ridicoli, grotteschi e fuori posto e il finale con Lee Van Cleef vestito da mandarino che si accinge a fare il giro della Cina è semplicemente terribile.
Da salvare l’interpretazione in bilico tra serietà e ironia di un Van Cleef in ottima forma, che si sbatte per quattro tra sparatorie e inseguimenti e che nel finale, dove impugna la gatling a torso nudo, sfoggia un fisico ancora asciutto e invidiabile all’età di cinquant’anni. Sulla contaminazione western-arti marziali aveva fatto decisamente di meglio Mario Caiano con Il mio nome è Shanghai Joe.» (M. M.)


1975 LA PAROLA DI UN FUORILEGGE... È LEGGE! di Antonio Margheriti. Con Lee Van Cleef, Jim Brown, Fred Williamson, Catherine Spaak, Jim Kelly.


«Altro western “contaminato” di Margheriti - a dimostrazione che alla metà degli anni Settanta il genere si stava ormai perdendo in mille rivoli -, stavolta addirittura con la blaxploitation.
Di produzione quasi interamente americana - addirittura della 20th Century Fox - il film è stato costruito per sfruttare il grosso successo commerciale di cui godevano al tempo, soprattutto presso il pubblico afroamericano, attori di colore come Jim Brown, Fred Williamson e Jim Kelly, che vengono affiancati per l’occasione da un Lee Van Cleef che pare mummificato, con un incredibile parrucchino e un’unica espressione facciale per tutto il film.
Oltre a loro il resto del cast conta vecchie glorie hollywoodiane come Harry Carey Jr., Dana Andrews e Barry Sullivan, e anche la nostra Catherine Spaak, un po’ sciupata ma ancora notevole.
Il film purtroppo soffre, anche se forse in misura leggermente minore, degli stessi difetti del precedente Là dove non batte il sole: le varie scene non appaiono ben legate tra di loro tanto che la coerenza narrativa va presto a farsi benedire, molte “invenzioni” di sceneggiatura - come il trucco dei serpenti a sonagli - sono totalmente sballate e inverosimili, i dialoghi sono ampollosi e pallosi, il registro brillante e quello drammatico si sposano piuttosto male tra di loro, nessuno dei personaggi funziona molto bene - anche perchè Jim Brown come eroe buono alla John Wayne è totalmente inadeguato mentre Williamson che sarebbe molto piú efficace è un po’ limitato dal perenne sorriso che ha stampato sul viso - e il finale, infine, è completamente folle: in pratica a seguito di un’esplosione in mezzo al deserto si aprono d’improvviso le cascate del Niagara.
Molto buona, però, la parte puramente action, con le scene acrobatiche e il lavoro degli stuntman coordinati dallo specialista Hal Needham, anche regista della seconda unità.
Bella ma un po’ monocorde anche la colonna sonora di Jerry Goldsmith e come sempre valida, anche se un po’ troppo luminosa, la fotografia di Riccardo Pallottini - grande operatore italiano che morì nel 1982 in un incidente aereo nelle Filippine proprio sul set di un altro film di Margheriti, Fuga dall’arcipelago maledetto.
La cosa piú curiosa e che più colpisce del film, però, è il fatto di essere girato interamente nelle Isole Canarie - si riconoscono immediatamente i selvaggi ambienti del Pico del Teide a Tenerife -, la cui origine vulcanica dona una strana conformazione e uno strano colore alle rocce a ai canyon, non rendendole forse adattissime come scenario per un western.» (M. M.)


1976 WHISKEY E FANTASMI di Antonio Margheriti. Con Tom Scott, Fred Harris, Maribel Martin, Francesco Ferracini, Ricardo Palacios.


Il mesto addio al genere di Margheriti è un pochissimo visto western comico-picaresco con incursioni nel soprannaturale, irrimediabilmente datato (probabilmente già alla sua uscita visto che l'epoca degli spaghetti, comici e non, era nel 1976 ormai bella che finita) e un poco avvilente. La trama vede un giovane e indolente scavezzacollo alla Trinità - che si diletta leggendo nientemeno che La vita è sogno di Calderón de la Barca - guadagnarsi da vivere spacciando una volgare purga per un miracoloso elisir, con conseguenti inevitabili gag scatologiche; dopo essere fuggito dai cittadini inferociti di un piccolo villaggio, finito per caso in un cimitero indiano il nostro entra in contatto col fantasma di Davy Crockett, che da allora in poi gli fungerà da amico e protettore, accompagnadolo in svariate ed improbabili peripezie sino allo scontato lieto fine.
Sceriffi che espletano le proprie funzioni fisiologiche nel bel mezzo della prateria, bandoleros messicani affetti da flatulenza, fantasmi beoni che fanno i dispetti, camerieri pasticcioni che si tirano le torte in faccia... Tanto per far capire il livello delle trovate comiche - le meno peggio sono copiate dai prototipi di successo, i due Trinità su tutti -, con ogni probabilità indigeste anche per un bimbo di dieci anni. La cosa sorprendente è che il film venne girato con un budget piú consistente della media - produzione di Carlo Ponti e distribuzione della United Artists (!) - e con collaboratori tecnici di tutto rispetto come l'ottimo direttore della fotografia Alejandro Ulloa: non fosse per questo e per la professionalità di Margheriti sarebbe qualcosa di assolutamente impresentabile. Cast modestissimo, a partire dai due cloni di Bud & Terence Alberto Terracina e Fernando Arrien.
 

lunedì 25 giugno 2012

i film 38 - Io grande cacciatore



1979 IO, GRANDE CACCIATORE (Eagle's Wing)  
di Anthony Harvey, con Martin Sheen, Sam Waterston, Harvey Keitel, Stéphane Audran, John Castle, Caroline Langrishe

Tardo e bellissimo western lirico e paesaggistico, diretto da Anthony Harvey, montatore (per Kubrick) e regista britannico di raffinata eleganza.
Il punto di vista adottato dall’autore sul genere è del tutto originale, soprattutto per la collocazione storica in un West primordiale, precedente alla nascita dei miti (i riferimenti più immediati sono forse a Corvo rosso non avrai il mio scalpo), messa singolarmente in contrasto con l’ambientazione classica nei deserti messicani (il film è stato girato nei dintorni di Durango, in zone peckinpahiane).



La pellicola è del tutto atipica anche per l’esiguità dei dialoghi e la pochissima violenza, oltre che per un montaggio strano e ipnotico, che sovrappone le immagini in maniera piuttosto libera e non sempre consequenziale.

La trama è incentrata sul duello tra un cacciatore di pellicce bianco (Martin Sheen, reduce da Apocalyse Now) e un indiano comanche (Sam Waterston) per il possesso di un bellissimo stallone bianco, che diviene metafora del materialismo e della brama di possesso da parte dei bianchi e di trascendenza spirituale per i pellerossa, e che si chiude con una lezione di vita ai primi da parte di questi ultimi.
Il titolo italiano cita proprio la frase finale “Tu piccolo uomo bianco, Io grande cacciatore”, mentre l’originale Eagle's Wing si riferiva più semplicemente al nome del cavallo.



Il film inizia su ritmi lenti e contemplativi, per poi vivacizzarsi nell’ultima parte con un crescendo emozionante, e non mancano inserti onirici e metafisici, con funerali indiani, preti cattolici, missioni messicane, una diligenza che scorta un carro funebre e quattro donne, tra cui una bionda irlandese (la bellissima Caroline Langrishe), che viene rapita dal comanche per poi essere liberata in un finale altamente simbolico.
E’ chiaro come la sceneggiatura di John Briley, premio Oscar per Gandhi, abbia delle ambizioni e voglia farsi allegoria su concetti come l’incontro/scontro tra culture diverse, la contrapposizione tra tradizioni millenarie e l’avanzare del progresso, l’inseguimento dei sogni e la ricerca della felicità, il desiderio di possesso e la brama di ricchezza, e non mancano nemmeno scoperte metafore religiose.



Molto riuscita la raffigurazione dei pellerossa, tutti circondati da un'aurea metafisica e con il corpo coperto di piumaggio.
La grande e suggestiva fotografia di Billy Williams incornicia magnificamente la bellezza primitiva della natura selvaggia e incontaminata.
C’è anche Harvey Keitel, ma lo fanno fuori dopo nemmeno un quarto d’ora.

 

giovedì 21 giugno 2012

western brutti 4 - Taglia che scotta



1995 TAGLIA CHE SCOTTA o CACCIATORI DI TAGLIE (Hard Bounty)
di Jim Wynorski, con Matt McCoy, Kelly LeBrock, Kimberly Kelly, Felicity Waterman, John Terlesky, Rochelle Swanson

Forse qualche lettore di questo blog ricorderà che una decina d’anni fa la Rai mandò improvvidamente in onda un film hard in piena fascia mattutina, cosa che le cagionò una terribile reprimenda da parte del Moige (il temutissimo movimento italiano genitori) con conseguente lavata di capo dell’allora direttore generale agli sprovveduti programmatori.
Ebbene, pare difficile crederci ma il film era questo. E la cosa più divertente è che non si tratta assolutamente un film erotico, quanto di un trash western di serie Z con non più che un paio di scene molto softcore e qualche topless (notevole, peraltro).



Risulta difficile anche scriverci sopra un commento, in quanto è un’"opera" talmente brutta, naif e dilettantesca, perfino per abituali frequentatori dei bassifondi del genere come l’estensore di questo articolo, da ispirare addirittura simpatia.

Anche se infierire sulle magagne del film – che in tv ovviamente non si è più visto, per fortuna – è come sparare sulla croce rossa, onestamente non sappiamo dire cosa sia peggiore, se la trama assurda, che vede un bounty killer chiamato Spirito Santo come l’eroe dei western-barzelletta di Giuliano Carmineo redimersi dopo aver ammazzato per errore un paio di innocenti e cambiare attività rilevando un bordello gestito da un'irriconoscibile Kelly LeBrock (cioè la mitica "signora in rosso", che secondo noi dovrebbe fare causa al suo chirurgo estetico) e da un gruppo di donnine allegre che sembrano uscite dal paginone centrale di Playboy e che improvvisamente si trasformano in delle pistolere ammazzacristiani che neanche Clint Eastwood, o la recitazione degli interpreti che fa sembrare qualsiasi attore del peggior spaghetti-western come proveniente dall’Actor’s Studio.



Brilla per la sua totale incapacità anche la regia di Jim Wynorsky – un forzato della serie B con oltre 75 film all’attivo, e probabilmente il regista più sbeffeggiato di tutti i tempi sui forum di cinema, su cui è stato girato anche un documentario dall’illuminante titolo Come fare un film in tre giorni – dall’andamento televisivo e con deliranti “omaggi” a Sergio Leone. Anche se sembra incredibile il doppiaggio italiano da soap-opera probabilmente contribuisce addirittura a peggiorare il tutto.
Le conigliette, se non altro, meritano.

martedì 19 giugno 2012

i film 37 - Outlaw Justice


1999 OUTLAW JUSTICE (o THE LONG KILL)
di Bill Corcoran con Willie Nelson, Kris Kristofferson, Travis Tritt, Chad Willett, Sancho Gracia, Jonathan Banks, Waylon Jennings

Scritto da Gene Quintano, con Tony Anthony come "supervising producer", è il film gemello di Dollar for the Dead, anche se non sembrerebbe. In realtà fa più parte del filone di film western per la Tv interpretati da star - spesso attempate - del country americano, che ha come capostipiti film come Kenny Rogers as The Gambler (1980) e in questo caso soprattutto Gli Ultimi Giorni di Frank e Jesse James (1985), il primo di una piccola serie di film che vede protagonisti, in varie formazioni, i componenti del supergruppo country Highwayman.


I due fuorilegge nerovestiti Kris Kristofferson e Willie Nelson si mettono in viaggio per vendicare l’uccisione del loro vecchio compare Waylon Jennings (che a dispetto delle locandine fa giusto un cameo di un minuto nel prologo), ammazzato dal cattivo Sancho Gracia (lo splendido protagonista di 800 balas). Ad accompagnarli un giovane e coraggioso sceriffo interpretato da Travis Tritt (un altro cantante country) e il figlio dell’ucciso, il quale vorrebbe condurre una vita diversa rispetto a quella irregolare del padre e dei suoi amici. Prima di poter compiere, a caro prezzo, la loro vendetta in Messico troveranno il tempo di far piazza pulita di razzisti in un paese, salvare una carovana in pericolo e recuperare il bottino di una rapina in banca di cui sono stati ingiustamente accusati.


Di spaghetti western ha solo i cari e inconfondibili paesaggi dell’Almeria (e una fulminea apparizione di Aldo Sambrell nei panni di un tizio spaventato dallo sguardo di Kristofferson) e non c’è nemmeno il tentativo di rinnovarsi con qualche improbabile contaminazione come provato in "Dollar for the Dead". Siamo più dalle parti dei western essenzialmente basati sui caratteri dei personaggi di Howard Hawks, dove quindi la storia è più che altro un canovaccio e lo spettacolo funziona se funzionano i personaggi. Scontato che l'anonimo e iper-prolifico regista televisivo Bill Corcoran non è Hawks. E non corre neanche il rischio che qualcuno possa fare confusione. Detto che tra le centinaia di cose che ha diretto quel che spicca di più è qualche episodio de "Il mio amico Ultraman" e "McGyver", non c’è probabilmente da aggiungere altro. 

E infatti "Outlaw Justice" è un blando e anonimo western per la TV girato con quattro soldi. Come molti prodotti analoghi è un film dal ritmo titubante, che si sofferma più volentieri su un dialogo durante un bivacco che non su un duello all’ultimo sangue. Praticamente privo di una storia è poco più di una sequela di tipiche situazioni western, intervallate da cavalcate commentante da qualche canzone country, magari cantata da uno degli attori protagonisti. Le motivazioni che spingono i personaggi ad agire sono puramente accessorie, compreso il pretestuoso percorso formativo del figlio del compare morto. Il senso dello spettacolo si esaurisce essenzialmente nel mostrare i protagonisti che dicono e fanno delle cose. Ancora più corretto dire che lo spettacolo è mostrare gli ATTORI che impersonano i protagonisti che dicono e fanno delle cose. Infatti il carattere dei personaggi è poco più che un'appendice delle facce degli attori, che nel caso di Kristofferson e Nelson sono quasi più due vere e proprie maschere. Se tali maschere affascinano e fanno simpatia il film è vedibile e anche gradevole, altrimenti è una noia mortale. O comunque uno spettacolo assolutamente anonimo, che comunque all'attivo della pellicola va messa una discreta dose di scene d’azione, dirette magari con scarsa verve, ma con un gran lavoro degli stuntman spagnoli.


Per quanto ancora in perfetta e invidiabile forma fisica l’allora sessantasettenne Nelson e il sessantaquattrenne Kristofferson sembrano due novantenni, forse per contrasto con il gusto troppo moderno del loro look dark. Anche così, dominano la pellicola con il loro carisma. Kristofferson fa un personaggio taciturno alla Clint Eastwood, Nelson il vecchio pistolero pieno di umanità. I momenti migliori del film sono ovviamente tutti loro. Spassosa la scena in cui entrano disarmati in un saloon pieno di bulli che se la stanno prendendo con mamma e figlio indiani, escono apparentemente con la coda fra le gambe, vanno a riarmarsi, tornano dentro e fanno una strage. Il film si collega anche alla filosofia del cosiddetto outlaw country, il movimento musicale di cui Kristofferson e Nelson sono due dei principali esponenti, per cui abbiamo come protagonisti sì dei fuorilegge, ma dotati di un loro senso dell’onore e di incrollabili valori.

In America conosciuto anche come The Long Kill, inedito in Italia e uscito nella sale cinematografiche solo in Spagna.