sabato 25 agosto 2012

i film 45 – Mi chiamavano Requiescat... ma avevano sbagliato


1973 MI CHIAMAVANO REQUIESCAT... MA AVEVANO SBAGLIATO
di Mario Bianchi, con Alan Steel, William Berger, Frank Braña, Fernando Bilbao, Gilberto Galimberti, Celine Bessy, Lorenzo Robledo, Paco Sanz, Karin Well

Western violentissimo girato da Mario Bianchi mentre il genere era in piena agonia, negli stessi set, ormai cadenti e in rovina, di Per un pugno di dollari e decine di film successivi.
L’atmosfera di disfacimento e l’aria di decadenza, da “fine di un’epoca”, che si respirano per tutto il film, anche se probabilmente non volute, sono tra le cose migliori della pellicola, insieme all’esagerato tasso di violenza e sadismo, con cui il regista decide di compensare l’evidente mancanza di mezzi (ci sono pochissimi attori e pochissimi cavalli), se non altro in ammirevole controtendenza rispetto alla deriva comica del genere.

Si comincia con una scena piuttosto schifosa in cui il protagonista, legato e bendato, viene ricoperto di sputi e poi mutilato con le mani esplose a colpi di pistola, per proseguire con torture con ferri ardenti, schiacciamenti di testicoli, forconi infilati in gola e sparatorie particolarmente sanguinose, il tutto messo in evidenza da frequenti close-up splatter.
C’è anche una insistita scena di sesso, del tutto anomala in un western italiano.



Peccato, però, che la sceneggiatura sia del tutto sconclusionata, con passaggi narrativi illogici (non si capisce, ad esempio, l’assurdo piano del protagonista di farsi catturare dai cattivi) e la regia di Bianchi sia quella che è, cioè abbastanza sotto il minimo sindacale (con abbondanza di momenti inutili e scene allungate a dismisura per raggiungere il metraggio previsto). Visto il successo ottenuto con i western – ne girerà più o meno in contemporanea e nelle stesse location altri due, Hai sbagliato... dovevi uccidermi subito e Nel nome del padre, del figlio e della colt – si butterà nel porno.
Il protagonista Alan Steel, alias Sergio Ciani, è espressivo quanto un monolite e pare abbia sempre una scopa in culo, però per il ruolo del vendicatore incazzato e pervaso dall’odio la sua fissità di sguardo riesce persino a essere funzionale.
A tenere su il film ci pensano i caratteristi spagnoli come Frank Braña e Lorenzo Robledo (che come al solito fa una bruttissima fine) e soprattutto un eccezionale William Berger, efficacissimo nel ruolo del capobanda sadico e sanguinario.



La collocazione storica, abbastanza inedita, è quella del Missouri post guerra civile, insanguinato da scontri tra soldati nordisti e bande di ex-confederati (purtroppo le uniformi sono davvero tremende, stile festa di carnevale). Il protagonista è appunto un ufficiale nordista che dopo esser stato lasciato per morto tornerà dopo un paio d’anni per vendicarsi abbigliato con un incredibile mantello nero alla Zorro.
Peccato anche per la colonna sonora di Gianni Ferrio totalmente fuori posto. Non che sia male, ma sarebbe stata più adatta a una commedia romantica.

La cosa migliore del film è il finale nella ghost town abbandonata (che sarebbe il celebre villaggio western di Golden City – Hoyo de Manzanares, ormai ridotto a un cumulo di catapecchie) dove Steel prima affronta in duello Berger sfoggiando una ingegnosa protesi con la pistola al posto della mano invalida e poi molla in mezzo al fango della main street la squaw innamorata di lui e che gli aveva salvato la vita (Celine Bessy, che sfoggia un completino da indiana tremendo) e se ne va via da solo a cavallo verso il tramonto.

venerdì 24 agosto 2012

i film 44 - "Doc''



















1971 'DOC'
di Frank Perry, con Stacy Keach, Faye Dunaway, Harris Yulin, Michael Witney, Denver John Collins, Dan Greenburg, John Scanlon

La sparatoria all’O.K. Corral di Tombstone, nella realtà storica né più epocale né più cruenta di tante altre del Selvaggio West, è una di quelle vicende della Frontiera assurte ad epica ed entrate nell’immaginario collettivo grazie alla mitologia hollywoodiana, che l’ha trasformata in leggenda per mezzo di film come Sfida infernale e Sfida all’O.K. Corral.
Ovviamente nelle pellicole di John Ford e John Sturges lo scontro tra gli Earp e i Clanton era occasione per una marcata contrapposizione tra gli sceriffi e i fuorilegge, con i primi che rappresentavano l’incarnazione del bene e della giustizia, contrapposte in maniera netta e senza sfumature alla selvaggia anarchia dei secondi.
Nella “New” Hollywood degli anni settanta, gravida di cattiva coscienza e contrassegnata dal crollo di molte illusioni, tale dicotomia viene invece recisamente rifiutata e il film di Frank Perry, regista di altre pellicole pregne di disincanto come Brevi giorni selvaggi e Diario di una casalinga inquieta, si inserisce nella grande corrente degli anti-western di Penn e Altman, con cui rivaleggia in quanto a demolizione dei miti e rifiuto degli schemi codificati.

Il regista, innanzitutto, sceglie una prospettiva decentrata, inquadrando la celebre vicenda non attraverso le gesta dello sceriffo Wyatt Earp – tratteggiato come la figura cinica e opportunistica quale probabilmente era nella realtà – ma dell’amico Doc Holliday, che se nelle precedenti incarnazioni cinematografiche di Victor Mature e Kirk Douglas era la spalla fedele dell’eroe qui si trasforma in una figura problematica e dubbiosa, alla disperata ricerca di sé stesso e di una vita avulsa dalla violenza che lo ha sempre accompagnato.
Anziché un atto di coraggio ed eroismo la sparatoria con i Clanton rappresenta quindi per lui il fallimento di queste aspirazioni e la consapevolezza di non poter fuggire dal proprio destino, come viene chiaramente esemplificato nell’uccisione a sangue freddo del giovane pistolero che voleva seguire le sue orme, come una metaforica uccisione di se stesso.



La versione della sfida all'OK Corrall pare più vicina alla versione storica: un regolamento di conti tra mafiosi più che una sfida tra uomini di legge e fuorilegge. Protagonista per una volta è Doc Hollyday, interpretato da un marmoreo Stacy Keach, pistolero dall'area funerea ma in fondo molto più umano del Wyatt Earp interpretato dall'ottimo caratterista Harris Yulin, un gelido opportunista che con indifferenza porta alla rovina amici e famigliari, pur di perseguire i suoi meschini scopi politici. Molto bello anche il personaggio della prostituta interpretata da una radiosa Faye Dunaway, uno dei rari western (un altro che mi viene in mente è La Ballata di Cable Hogue) in cui la protagonista femminile fa la prostituta non solo per sentito dire. Particolare la regia di Perry: se da una parte mette in scena il West tutto fango sudore e polvere da sparo tipico dei western autunnali, dall'altra dirige attori e sequenze con una stilizzazione tipica dei classici anni '50. Bel film, non all'altezza di Sfida infernale, forse alla pari di Sfida all'Ok Corral, decisamente superiore ai due film degli anni '90. (Tommaso Sega)



Il ritmo imposto alla pellicola da Perry è lento e indugiante, attento all’introspezione psicologica dei vari personaggi, dipinti tutti in chiave realistica e antieroica, e in pratica gli spari e le scene di violenza sono riservati unicamente alla sfida finale, risolta peraltro in maniera secca e asciutta in non più di una decina di secondi. La visione del Far West che traspare dal suo film è quella di un consesso umano basato sulla coercizione (tramite la violenza delle armi da fuoco e quella della politica), la prostituzione (fisica e morale) e il gioco d’azzardo. Uno sguardo amaro e senza speranza, che il regista estende metaforicamente anche alla società americana degli anni settanta del secolo scorso.

Pur essendo un western di ambientazione prevalentemente cittadina la fotografia di Gerald Hirschfeld si concede suggestivi scorci dei paesaggi desertici di Tabernas e Cabo de Gata, in Almeria, dove il film è stato interamente girato.
Decisamente efficace la prova di Stacy Keach, grande attore sottovalutato con una faccia perfetta per i loser degli anni settanta, in seguito interprete di una altro storico personaggio della frontiera, Frank James, nel film di Walter Hill I cavalieri dalle lunghe ombre.



Alla sparatoria dell’O.K. Corral verranno successivamente dedicati altri due film negli anni novanta: Tombstone di Pan Cosmatos e Wyatt Earp di Lawrence Kasdan, nei quali gli sceriffi torneranno a essere gli eroi e i Clanton i cattivi, il segno che i tempi erano nuovamente cambiati.

mercoledì 8 agosto 2012

i registi 18 - Carlo Lizzani

CARLO LIZZANI
Achtung! Autore!



A differenza di altri autori provenienti dal cinema cosiddetto impegnato come Damiani, Brass e Questi, che negli anni d’oro del western italiano si inserirono nel filone calandosi dall'alto, dimostrando scarsa considerazione per il genere, Lizzani è il caso di un autore militante che fece western con una certa convinzione, anche come produttore, avvicinandosi al genere con rispetto e sapienza artigianali. Pur proponendo una sua lettura personale, nei suoi western Lizzani non cerca di destrutturare il genere, ma cerca piuttosto l’accesso ad un tipo di narrazione all'epoca autenticamente popolare. Incappando, manco a dirlo, anche in qualche tirata d’orecchi della critica ortodossa di allora più ottusa e trombona.

1966 UN FIUME DI DOLLARI
di Carlo Lizzani con Thomas Hunter, Henry Silva, Dan Duryea, Nicoletta Machiavelli, Gianna Serra, Nando Gazzolo, Loris Loddi

Il primo dei due western di Lizzani ha decisamente un'impostazione classica. Per quanto la trama abbia elementi tipicamente "spaghetti", come il protagonista ossessionato dalla vendetta e il villaggio diviso tra fazioni, lo stile, i dialoghi, i costumi e persino le musiche di Morricone guardano senza dubbio più ai modelli  americani che non ai canoni imposti dalle pellicole di Leone. In particolare sembra potente l’influenza dei film di  Anthony Mann, dai cui film è ripreso direttamente l'attore Dan Duryea, con quella solita aria da affascinante relitto che avevano un po' tutte le vecchie glorie hollywoodiane che venivano a cercar nuova fortuna in Italia. Se lo stile e l’iconografia sono classici il tutto è però condito dalla violenza e dal clima morboso tipico del western nostrano. Ambiguità ben visibile nel gran scontro finale, dove se l’azione è coreografata con le tipiche inquadrature geometriche dei film americani, i protagonisti fanno però grande uso della dinamite: esagerazione spettacolare tipicamente "spaghetti" e infrazione dei codici cavallereschi che nessun "buono" di un western classico si sarebbe mai permesso.


Pur senza arrivare allo stravolgimento grottesco più caratteristico dei western all'italiana, Lizzani estremizza alcune peculiarità dei personaggi tipici. A cominciare dal protagonista, talmente divorato dal desiderio di vendetta da essere spesso mostrato con un'aria febbricitante e malata, pronto a qualsiasi atto masochista pur di giungere al suo scopo, come farsi pestare o a farsi tagliare un tatuaggio dal braccio. Per quanto un po’ anonimo, l'attore Thomas Hunter ha la giusta aria spiritata e malinconica.


È anonimo e basta invece il capo dei cattivi interpretato da Nando Gazzolo, ma poco male perché a rubargli la scena c’è il suo braccio destro, un incontenibile Henry Silva, che pur nerovestito gioca ad andare contro al suo classico personaggio del killer glaciale, interpretando un pistolero messicano dall’allegria decisamente inquietante. Il personaggio di Nicoletta Macchiavelli, splendidamente decorativo, moriva nella versione italiana mentre sopravviveva nella versione americana. Futuro rinomato doppiatore e specializzato nei ruoli da bambino in moltissimi "spaghetti", il piccolo Loris Loddi è un caso raro di moccioso simpatico in un western.


Pur considerandola un’ opera su commissione Lizzani si mette rispettosamente e seriamente al servizio del genere, ma non si annulla come autore, rivelando un bel talento per le scene d’azione e violenza. Una bellissima sequenza, che evidentemente sconfina dall'estetica convenzionale dei western italiani, è quella del protagonista che dopo anni torna nel suo ranch e lo ritrova monocromatico, perché totalmente ingrigito dalla polvere. Quando l'uomo inizia a leggere il diario della moglie la macchina da presa inizia a vagare per la casa vuota e si sente la voce della donna come quella di un fantasma.

1966 REQUIESCANT
di Carlo Lizzani con Lou Castel, Mark Damon, Pier Paolo Pasolini, Franco Citti, Pietro Ceccarelli, Barbara Frey, Nino Davoli, Rossana Martini, Rosanna Crisman

Anche se è probabilmente il primo western italiano esplicitamente politicizzato, non è, come si legge quasi ovunque, un western rivoluzionario, ma piuttosto un tipico western gotico di quel periodo. Si respira la stessa aria, affascinante e tragica, di film come Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro, Texas addio, Sette dollari sul rosso e 1.000 dollari sul nero. In quest’ultimo appare lo stesso tempio azteco (ovviamente finto) presente anche in “Requiescant”. (Scenografie che appaiono anche in Killer Kid, notevole e misconosciuta pellicola con Anthony Steffen, quella sì un vero western rivoluzionario, anche se non viene mai citato tra i film del filone.)  


C'è molta ironia in "Requiescant", soprattutto riguardante la figura del bizzarro protagonista, ma Lizzani non commette l’errore di molti registi impegnati che, alle prese con il cinema di genere, spesso calcano la mano con il sarcasmo per sottolineare il proprio distacco dalla materia tratta. Semmai in questo caso, soprattutto nel finale, ci si prende anche un po’ troppo sul serio, con due o tre sermoni politici di troppo, soprattutto in quel paio di momenti in cui il pubblico magari avrebbe preferito veder gente che sparava. Ma nonostante qualche isolata tirata terzomondista nei dialoghi, in effetti decisamente mal invecchiata, è fortunatamente più un film di atmosfere e personaggi che non di ideologie. Significativo, ad esempio, che i campesinos che combattono contro lo yankee aristocratico e schiavista sono per quasi tutto il film lasciati fuori campo, quasi una presenza spettrale. E anche nel finale vagamente shakespeariano funzionano più come incarnazione dei fantasmi psicologici dei due protagonisti, che non come soggetti politici.


Lou Castel "è" il film. L’attore svedese crea uno dei personaggi più originali e strampalati mai visti in un western, esatto opposto del ruolo gelido e calcolatore che interpreterà l’anno dopo in Quien Sabe?. Specie di San Francesco con la colt o Candido volterriano nel Far West, Requiescant attraversa il film con la sua aria lunare, maldestro quanto imprevedibilmente letale, incapace di cavalcare (guida il suo cavallo con una padella), perde continuamente cappello e pistola, che è costantemente costretto a inseguire e raccattare. Con la sua recitazione fuori dagli schemi, sottilmente nevrotica e svagata Castel riesce nell’impresa di rendere  un personaggio simile coerente e credibile. Un personaggio tanto eccentrico che ancora oggi è incompreso e rifiutato da molti appassionati, pur capaci di digerire le caratterizzazioni più inverosimili e anodine della fase comicarola del genere. Suo contraltare perfetto un Mark Damon spiritato e teatrale, che crea un cattivo davvero inquietante e affascinante, un nobile decadente, tormentato e omosessuale che sembra uscito da uno dei film di Corman ispirati a Poe.

Pasolini nei panni di un prete rivoluzionario è una specie di totem vivente, la cui presenza risulta ancor più straniante per il fatto che viene doppiato. Proveniente dal suo cinema risulta rilevante la presenza di Franco Citti. Si vede poco invece Ninetto Davoli nella strampalata parte di un trombettiere.


Parecchie le scene dall'impatto notevole: tutte le uccisioni e i laconici sermoni di Requiescant, una gara di tiro a bersaglio tra ubriachi con una donna che regge i bersagli, Castel che si aggira nel tempio tra le ossa dei suoi famigliari, il duello tra “impiccati”, la morte di Damon. Peccato invece per due scene di tortura malamente sforbiciate già all’epoca.

Se è vero che per molti anni in Italia sul cinema di genere nostrano è gravata una cappa di disprezzo e (peggio) di indifferenza, è anche vero che da anni si è affermato un luogo comune uguale e contrario riguardante il cinema e gli autori “impegnati”, bollati come noiosi e pesanti per partito preso. Tanto è vero che un fama simile aleggia da sempre anche su “Requiescant”. A conti fatti, nonostante i suoi difetti e squilibri, si tratta invece di un ottimo film di genere, originale, bizzarro e soprattutto piuttosto divertente.

venerdì 3 agosto 2012

news - I cancelli del cielo a Venezia



“It’s getting dangerous to be poor in this country.”

Notizia importante per tutti gli amanti di cinema (non solo) western: MICHAEL CIMINO sarà presente alla 69° Mostra del cinema di Venezia (29 agosto - 8 settembre 2012) alla proiezione del suo film I CANCELLI DEL CIELO (Heaven's Gate, 1980) nella versione di 219 minuti restaurata digitalmente da Criterion con la supervisione dell'autore.
La "première" veneziana dovrebbe essere di prodromo a una imminente release della leggendaria pellicola del regista statunitense nell'ambito della celebre Criterion Collection.