giovedì 28 marzo 2013

i film - Il giorno del giudizio


1971 IL GIORNO DEL GIUDIZIO (The Drummers of Vengeance)
di Mario Gariazzo con Ty Hardin, Rossano Brazzi, Edda Di Benedetto, Craig Hill, Gordon Mitchell, Rosalba Neri, Raf Baldassarre, Rick Boyd, Ken Wood

Tornato dalla guerra un uomo trova la sua casa bruciata e la moglie indiana e suo figlio morti. Si vendicherà di mezza città, lasciando bare come biglietti da visita e servendosi di un sinistro giocattolino appartenuto al figlio per scandire i duelli. Il tocco originale è che si traveste da becchino scespiriano, dispensando aforismi e inneggiando ogni due per tre al Giorno del Giudizio. Il bello è che nessuno lo sospetta, nonostante la storia delle bare usate come firma e una gobba e una barba degne di un travestimento dell'ispettore Clouseau.



Non malaccio, però, questo torvo spaghetti girato come un thriller dove alla fine ci restano tutti secchi. Poverissimo, girato con quattro soldi, anche due, ma non così miserabile come viene descritto ad esempio ne Il dizionario del western all'italiana di Giusti: "...al posto dei cavalli ci sono uomini che trascinano i cavalli e così via". I cavalli ci sono e non ci sono scene di carri trainati da uomini in loro mancanza. Certo c'è un gran arrabattarsi con il montaggio, con primi piani e controcampi per far stare nelle stessa scena attori che hanno recitato visibilmente su set diversi, e qui e là si allunga il brodo senza vergogna (c'è un' interminabile sequenza con quattro tizi che fuggono su un carro nel bosco). Il cast è fatto di facce piuttosto note del genere che spuntano fuori un po' a caso e vengono fatte fuori due scene dopo. Ma pur con tutti questi limiti la regia non è male, tra inquadrature claustrofobiche, interessanti ellissi, bei flashback e curiosi fermo immagine durante i duelli.


La fotografia pumbea è efficace, con quel che di triste che hanno i non molti spaghetti western drammatici degli anni 70. L'atmosfera è sinistra, con il suono del tamburello del giocattolino, invisibile in tutta la prima parte del film, che diventa qualcosa di ossessivo anche per lo spettatore. Il finale, poi, è quasi bello: lo sceriffo assassino (non sveliamo davvero nessun colpo di scena, a parte il protagonista è l'unico altro personaggio in primo piano del film, ovvio che il "misterioso" capo degli assassini  non può essere che lui) tormentato nel sogno dai suoi delitti si sveglia e si trova davanti il protagonista sanguinante che credeva di aver ucciso. Dopo l'ultimo allucinato duello, vediamo il protagonista morente che guida il suo carretto da becchino e sogna i momenti felici con sua moglie e suo figlio. Forse con un budget più dignitoso poteva venirne fuori un buon film.



Gli allora ancora abbastanza famosi (almeno in America) Ty Hardin e Rossano Brazzi funzionano bene. Hardin si impegna e nonostante gli orridi baffoni anni 70 ha un certo carisma. Per tener fede alla sua fama da latin lover Brazzi lo si vede a letto con una tipa con le tette al vento, anche se non c'entra niente con il resto del film. Craig Hill e Gordon Mitchell invece sono sprecati nelle parti di un imbonitore e di un vicesceriffo. Al solito bellissima, Rosalba Neri appare solo in rapidi flashback come la moglie indiana uccisa. Non stupisce la reazione del protagonista, anche se c'è da dire che durante il film avrebbe modo di consolarsi con la non meno notevole Edda Di Benedetto, nelle parti di un' altra indianina che gli da una mano.

Ah, bellissima la colonna sonora. Ovvio, è un pezzo di Morricone bellamente fregato a "I crudeli" di Corbucci.

mercoledì 27 marzo 2013

prossimamente - Gli spietati remake



Solitamente sono i film orientali che vengono fatti oggetto di remake (spesso all’acqua di rose) da parte dei grandi studios statunitensi. Ora pare sia iniziato il processo opposto.
E se per anni è stato il western americano ad attingere a piene mani ai film di samurai giapponesi ora è la Warner Japan, la divisione nipponica della famosa casa di produzione, a preparare un film di samurai ispirato a un western americano.
Il western in questione è nientemeno che il capolavoro di Clint Eastwood Gli spietati, scelta che in qualche modo suona ironica se si pensa che il film che ha dato il successo ad Eastwood era proprio un western ricalcato, per di più senza autorizzazione, su un famoso chambara giapponese, La sfida del samurai di Akira Kurosawa.

La storia di questo rifacimento, che dimostra se non altro l'universalità del genere al di là degli archetipi nazionali, si svolgerà sempre nel 1880, ma la location è stata spostata nell’isola giapponese di Hokkaido, durante il periodo Meji. Il protagonista è un ex-samurai che, per sfamare i suoi figli, si appresta al suo ultimo assassinio.

Il regista di questo adattamento è Lee Sang-il e il titolo del film Yurusarezaru mono (“Qualcosa che non può essere perdonato”).
A interpretare il ruolo che fu di Eastwood è stato chiamato il celebre attore giapponese Ken Watanabe (L'ultimo Samurai, Inception, Lettere da Iwo Jima). Accanto a lui, Koichi Saito rivestirà il ruolo di Gene Hackman e Akira Emoto quello di Morgan Freeman.

L’uscita in Giappone è fissata per il 13 settembre 2013.

lunedì 25 marzo 2013

i film - La feccia


1972 La feccia (The Revengers) 
di Daniel Mann con William Holden, Ernest Borgnine, Woody Strode, Susan Hayward, Roger Hanin, Reinhard Kolldehoff, Jorge Luke, Jorge Martínez de Hoyos, Arthur Hunnicutt, Warren Vanders, Larry Pennell

Una banda di comancheros stermina la felice famigliola di un allevatore di cavalli, militare in pensione. In cerca di vendetta oltre confine l'uomo fa evadere sei balordi da un carcere messicano e forma una banda per dare la caccia agli assassini.

Bel titolo italiano, per una volta più efficace di quello originale, per un film da noi dimenticato, ma con un discreto culto in America. È un interessante "dirty western", parecchio anni 70, i cui modelli evidenti fin dal breve riassunto sono Il mucchio selvaggio di Peckinpah (di cui riprende i due attori principali) e Quella sporca dozzina di Aldrich. Chiariamo subito che tali modelli  restano ben distanti e che il risultato finale è inferiore alla somma delle parti, ma il film è comunque carino e non privo di spunti interessanti.



Lo spunto più interessante è che la vendetta si compie quasi per intero già a metà film. La banda di feroci comancheros viene interamente distrutta, a parte il capo che riesce a filarsela. Sulle tracce di questi il protagonista prende a vagare per il West con la sua banda di disperati. Finché non si accorge che i sei debosciati rischiano di diventare la sua nuova famiglia. Non lo aiuta accettare lo scambio il notare che i suoi compari seminano cadaveri e sono inclini alla violenza quanto la gente che gli ha massacrato la famiglia vera. Preso dai rimorsi va in crisi e tenta di svincolarsi dalla banda, ma la sua nuova "famiglia" reagisce all'abbandono del "padre" nel solo modo che conosce: il più giovane dei "figli", che si era persino proposto come sostituto dei figli morti (non è un film che va troppo per il sottile con i sottintesi psicologici), gli spara. Credendolo morto, il gruppo lo abbandona.

Invece, curato da un'amorevole zitella (un'intensa Susan Hayward, nella sua ultima interpretazione), il protagonista guarisce e riprende la sua caccia, ma finisce nel carcere da dove aveva fatto evadere i suoi ex-compari. Tocca quindi a questi ultimi ricambiare il favore. Ricreatasi la vecchia complicità, il gruppo riprende quindi l'inseguimento della sua preda. Finiranno per trovarlo già prigioniero in un campo militare sotto assedio dei comancheros.



Evidenti le tematiche care a registi come Peckinpah e Aldrich: l'ingovernabilità della violenza, la sottile linea tra legalità e illegalità, i personaggi ai margini della società e della sanità mentale. Tematiche finite però nelle mani del meno interessante dei Mann che hanno fatto, e fanno, i registi ad Hollywood. È infatti l'unico western della trentina di film girati dell'anonimo Daniel Mann (dirigerà poi qualche episodio della nota serie "Alla conquista del West"), in genere specializzato in drammi, commedie e film sentimentali. Non a caso si dimostra più a suo agio nella malinconica parentesi sentimentale tra Holden e la Hayward. Invece nelle parti  d'azione e violenza, la regia è esattamente quello ci si poteva aspettare da un mestierante di Hollywood di vecchia scuola come lui, quindi  piena di classici campi lunghi, con pochissimi primi piani, insomma assolutamente statica. Le sparatorie e le battaglie sono anche efficaci sul piano spettacolare, ma a parte le maggiori dosi di sangue e violenza sono girate con lo stile pulito di un western degli anni 50.

La regia servizievole, incapace di dare vera energia ciò che racconta, non solo impedisce di approfondire e sviluppare le interessanti ambiguità della storia e le divagazioni della sceneggiatura, ma finisce per sottolineare invece i lati più manichei dei personaggi. A cominciare da un finale un po' troppo riconciliante, dove restano in vita un po' troppi personaggi e dove il protagonista rinsavisce, vedendo in un giovane e coraggioso ufficiale l'ombra del figlio che voleva intraprendere la carriera militare (abbastanza discutibile che al protagonista abbiano fatto fuori moglie, due bambine e un bambino, ma il suo unico vero cruccio sembra quello di aver perso il primogenito maschio).



La riuscita di un film così la determinano in buona parte gli attori. E da questo punti di vista la pellicola da senz'altro le sue soddisfazioni. Dopo il capolavoro Il mucchio selvaggio e il bellissimo Uomini selvaggi di Blake Edwards, William Holden completa con questo titolo un trittico di western che ne hanno fatto il volto della vecchia Hollywood che meglio aveva saputo incarnare la fase crepuscolare del genere. Ernest Borgnine gigioneggia nella parte dell'ubriacone picaresco, mentre Woody Stroode fa il negrone forzuto e (neanche a dirlo) fedele. Efficacemente patibolari i ceffi del resto del cast.

Curiosità: nella stessa estate del 1972 in cui uscì questo film uscì anche "I magnifici 7 cavalcano ancora" con Lee Van Cleef, quarto ed ultimo capitolo della serie, con alcuni elementi narrativi molto simili, come la ricerca della vendetta oltre confine, il reclutamento in prigione e ovviamente lo stesso numero di protagonisti.

venerdì 22 marzo 2013

i registi 23 - Umberto Lenzi

UMBERTO LENZI
L’uomo dei mille generi



Se durante una carriera cinematografica lunga 35 anni e ben 65 film Umberto Lenzi (Massa Marittima, 1931), malgrado l’immancabile ammirazione di Tarantino, non è mai riuscito a guadagnarsi la patente di Maestro, nessuno gli potrà sicuramente togliere l’attestato di cineasta veloce, versatile e trasversale, pronto a cavalcare qualunque genere saliva alla ribalta nel ribollente mare magnum del cinema di genere italiano degli anni sessanta, settanta e ottanta.
Lo troviamo quindi di volta in volta buttarsi disinvoltamente nel thriller alla Dario Argento e in quello sexy alla Guerrieri, nel noir alla Di Leo e nel poliziottesco alla Castellari, nell’horror-splatter alla Fulci e perfino nell’infame cannibal-movie per stomaci forti alla Deodato. Una specie di mercenario della pellicola che ha attraversato una moltitudine di generi nei quali non si è forse mai distinto per originalità, ma senza dubbio lo ha fatto per professionalità.
Nonostante una carriera diseguale e con molti titoli francamente esecrabili, nei suoi risultati più riusciti – pensiamo soprattutto al poliziesco, nel quale ha stretto un fruttuoso connubio con Tomas Milian (con film come Milano odia, la polizia non può sparare, Napoli violenta o La banda del gobbo), e all’horror-gore – ci sentiamo infatti di riconoscere a Lenzi una spiccia e viscerale energia nella messa in scena, tale da donare a pellicole tutto sommato dalla forte connotazione commerciale una grezza ma riconoscibile forza stilistica ed espressiva, esplicitantesi spesso in situazioni crudeli e scene di violenza molto compiaciute.
Al western, genere al quale il regista non era interessato e probabilmente nemmeno versato, ha contribuito con due anonime pellicole senza infamia e senza lode girata una di seguito all'altra, che non hanno lasciato nessuna traccia nel genere.



1968 TUTTO PER TUTTO
di Umberto Lenzi, con Mark Damon, John Ireland, Fernando Sancho, Eduardo Fajardo, Raf Baldassarre, Mónica Randall, Spartaco Conversi, Armando Calvo, José Torres, Tito García, Frank Braña

Un giovane pistolero e un anziano bounty killer sono impegnati in una caccia al tesoro, composto da 200.000 dollari in lingotti d’oro, e tra un reciproco sgambetto e l’altro devono fare fronte comune contro un bandito messicano che con la sua banda vuole impossessarsene.



Lenzi ha sempre dichiarato di essere stato poco interessato al western (magari per giustificare i risultati poco convincenti) e si vede: il film è sull’anonimo andante. Non una pellicola indecente, perché un po’ di azione c’è, grazie anche a una sceneggiatura abbastanza strutturata, imperniata su una caccia a un tesoro in lingotti d’oro, e si lascia vedere senza vergogna, ma il tutto è legnoso, innaturale, con dialoghi pomposi e un ritmo da sceneggiato televisivo.
Non c’è assolutamente nulla, insomma, della modernità con cui Leone aveva rivoluzionato il genere, se non la disinvoltura nell’uccidere dei protagonisti e il cospicuo numero di morti ammazzati, cose che stridono ancora più con l’aria di imbalsamazione del prodotto.



Il regista riesce addirittura nell’impresa di far sfigurare un grande attore del western classico come John Ireland, quanto mai sottotono nel ruolo di un bounty killer soprannominato fumettisticamente “vecchio gufo”. Ed è pochissimo convincente anche Mark Damon, che cerca invano di replicare il personaggio furbo, venale e svelto con la pistola del Faccia d’angelo di Giuliano Gemma (anche il doppiatore è lo stesso). Dove Gemma era brillante, Damon è solo antipatico.
A salvare un po’ il tutto ci pensa il nutrito cast di veterani del western italiano: Fernando Sancho (che interpreta a memoria il solito ruolo del capobanda messicano), Eduardo Fajardo (inedito invece nella parte del bandito con poncho e sombrero), Raf Baldassarre, José Torres, Tito García, Frank Braña e molti altri.

Buona la fotografia di Alejandro Ulloa. Non male nemmeno la colonna sonora di Marcello Giombini.
Confessiamo che la cosa che abbiamo trovato più notevole, però, è la ragazza messicana interpretata da Mónica Randall (attrice spagnola presenza fissa in molti western girati in Almeria, vedi ad esempio Sole rosso).



1968 UNA PISTOLA PER CENTO BARE
di Umberto Lenzi, con Peter Lee Lawrence, John Ireland, Piero Lulli, Eduardo Fajardo, Gloria Osuna

Un reduce della Guerra di Secessione, testimone di Geova e pacifista, diventa pistolero per vendicare la morte dei genitori, uccisi da quattro banditi. Dopo aver mandato all’altro mondo i primi tre si allea con un predicatore per far fuori il quarto, che con la sua banda stringe d’assedio un paese, ma la resa dei conti finale riserverà alcune sorprese.



Senza infamia e senza lode. Che Lenzi (al suo secondo e ultimo western) fosse poco interessato al genere lo si capisce lontano un miglio: il film ha l'aria del compitino corretto ma senz'anima. Peccato perché il protagonista, un Testimone di Geova condannato ai lavori forzati per il rifiuto ad imbracciare le armi durante la Guerra Civile, era potenzialmente interessantissimo. Nel giro di qualche minuto però viene tramutato nel consueto pistolero in cerca di vendetta visto in centinaia di epigoni. La mano del regista toscano si riconosce soltanto nella sequenza dell'evasione notturna di un gruppo di pazzi, girata come fosse un thriller, con un incredibile Fajardo nei panni di uno psicopatico che si diverte a spaccar teste con una scure e un Victor Israel strabico e violentatore. Il resto non va al di là dell'ordinaria amministrazione.



Bravo John Ireland (ottimamente doppiato dal grande Renato Turi) nelle vesti di un poco raccomandabile predicatore. Girato, come il precedente, in Spagna nei dintorni di Madrid, nelle location rese famose da Per un pugno di dollari. Bella fotografia di Ulloa, anonimo commento musicale di A. F. Lavagnino.
Trascurabile, in definitiva.

M. Mihich & P. D’Andrea

giovedì 21 marzo 2013

i registi 22 - Martin Ritt

Il west di Martin Ritt e Paul Newman
...e di James Wong Howe

Martin Ritt (1914 - 1990) è stato un tipico esponente della generazione di registi progressisti emersi a Hollywwod a cavallo tra gli anni 50 e 60, molto attivo anche in teatro e in televisione, fedele ad una tradizione liberal tanto nobile e volenterosa quanto un po' noiosa. Ottimo direttore di attori, regista solido, a differenza di altri di quella generazione gli è però sempre mancata la scintilla del vero talento. Il che non gli ha impedito di dirigere molti film interessanti e qualcuno anche bello. Due di quelli belli sono western. In tutto ne ha diretti tre, tutti interpretati da Paul Newman. Una trilogia che oltre al regista e all'attore vede un terzo protagonista, più defilato, ma non meno fondamentale, il grande direttore della fotografia cino-americano James Wong Howe (1899-1976).


1963 Hud il selvaggio (Hud)
di Martin Ritt con Paul Newman, Melvyn Douglas, Patricia Neal, Brandon De Wilde, Whit Bissell, Crahan Denton, John Ashley, Val Avery

In Texas un vecchio allevatore vede andare in rovina il suo piccolo ranch. Non gli é di aiuto né sollievo il figlio trentenne e scapestrato Hud. Un nipote adolescente, diviso tra l'affetto per il nonno e la voglia di emulare lo zio, è testimone impotente della decadenza famigliare.



Il nipote è interpretato da Brandon De Wilde. Dieci anni prima era stato il bambino che ammirava il romantico pistolero Shane impersonato da Alan Ladd ne "Il cavaliere della valle solitaria". Impressiona pensare che tra quel celebre classico e questo film fossero passati solo dieci anni, perché sotto tutti i punti di vista sembrano due pellicole appartenenti a epoche lontanissime, non solo a livello di linguaggio cinematografico. La fiducia nel sogno americano pur velata da una profonda malinconica di "Shane" (il titolo originale de "Il cavaliere della valle solitaria") lasciava il posto al pessimismo senza speranze di "Hud" (altro titolo originale con un nome proprio monosillabico) e il poetico e cavalleresco Shane veniva soppiantato dal cinico e arido Hud, un antieroe che dieci anni prima sarebbe stato impossibile immaginare al centro di un film hollywoodiano. Qualcosa era decisamente cambiato nella società americana e qualcosa stava per cambiare per sempre nel genere western.



"In questo Texas c'è qualcosa di Čechov" ha ben commentato Morandini. "Hud" è un affascinante western di ambientazione moderna, soffuso e pessimista, con al centro un personaggio totalmente negativo, impersonato da un mitologico Paul Newman, al massimo del suo splendore divistico. "Un uomo con l'anima avvolta dal filo spinato" recitava il bellissimo slogan del film. E il protagonista sembra davvero prosciugato da qualsiasi impulso positivo: ubriacone, rissoso, scopatore di mogli altrui, privo di ogni scrupolo, disamorato del proprio lavoro e della propria terra. Lo vediamo far praticamente morire di crepacuore il vecchio padre e quasi violentare la materna governante, impersonata dalla straordinaria Patricia Neal, che vinse l'oscar per questo ruolo. E alla fine riesce a disgustare anche il nipote adolescente che lo ammirava (per altro figlio di un fratello "buono" morto per una bravata di Hud). Ma quando anche il ragazzo se ne va lasciandolo definitivamente solo, lui si limita ad un'alzata di spalle e a scolarsi l'ennesima birra.

Nonostante un tal concentrato di bastardaggine alla fine il personaggio suscita quasi una paradossale simpatia. Coltivando il suo sordo rancore contro tutti e contro tutto, Hud almeno emerge per vitalità dal mondo rassegnato e squallido che lo circonda. Perdente anche lui come tutti, ma almeno con una sua crudele lucidità e senza i melensi e vuoti alibi idealisti coltivati dal padre.



Con "Hud" Ritt faceva un passo decisivo verso la fase revisionista e crepuscolare del genere. Non solo facendo letteralmente a pezzi il mito dell'America dei cowboy, ma destrutturando il genere raccontando una storia senza catarsi punitive o redenzioni, priva persino di un reale sviluppo narrativo. Accompagnato dalle note malinconiche di una chitarra, Hud percorre con la sua Cadillac le polverose stradine sterrate di un Texas rinsecchito e desolato, letteralmente dipinto dalle sterminate inquadrature in cinemascope del maestro James Wong Howe. Un paesaggio desolato in cui il mito della colonizzazione del West è ridotto ad un mesto e tedioso sopravvivere in una terra arida e vuota, che pare capace di produrre solo rapporti umani altrettanto aridi e vuoti.

Abbastanza incredibile che all'epoca un film senza speranza e senza risposte come questo fosse giudicato un film commerciale, poco più che una passerella per il divo Paul Newman. Ma forse ancor più incredibile è che tale giudizio avesse pure una certa fondatezza.


1964 L'oltraggio (The Outrage)
di Martin Ritt con Paul Newman , Laurence Harvey, Claire Bloom, Edward G. Robinson, William Shatner, Howard Da Silva, Albert Salmi, Thomas Chalmers

Un giovane prete, un giocatore d'azzardo e un cercatore d'oro si incontrano in una fatiscente stazioncina ferroviaria e si raccontano le diverse versioni di un fatto di cronaca, quello di un predone messicano che ha assalito una coppia, uccidendo l'uomo e violentando la donna. Il fatto viene quindi raccontato da quattro punti di vista differenti (compreso quello del morto).



Folle trasposizione in chiave western del capolavoro "Rashomon" di Kurosawa. Curiosamente uscì in America nell'autunno del 1964, mentre in contemporanea in Italia usciva "Per un pugno di dollari", un altro western tratto da un film di Kurosawa. I due film ebbero decisamente diversa fortuna. Trasporre in western i film di Kurosawa era una vera e propria moda nella prima metà degli anni 60, considerato che quattro anni prima era uscito "I magnifici sette", notoriamente tratto da "I sette samurai". Ma se trasformare le storie di samurai in storie di pistoleri aveva decisamente un suo senso, molto diverso era fare la stessa cosa con una favola morale come "Rashomon".

Infatti è uno dei western più strambi e strampalati mai visti. La storia è fedelissima a quella del film di Kurosawa, con pochissime e trascurabili varianti, ma la differenza di ambientazione modifica fatalmente il tono e quindi anche il senso di tutta la vicenda. Pur raccontando le stesse identiche cose, senza la spiritata teatralità degli attori giapponesi e senza il ritmo quasi musicale della regia di Kurosawa, si creano scompensi insanabili nella coerenza del racconto. L'ambientazione quasi da favola della versione giapponese rendeva plausibile una sequenza come quella del morto che parla attraverso una maga, molto più dura digerire la variante western con lo stregone apache che fa da tramite al morto davanti ad un tribunale americano. Un effetto posticcio che si avverte per tutto il film e che sminuisce il racconto. A cominciare dal gioco sulle diverse versioni del fatto di cronaca, dove si incrociano falsità e dubbie verità, che da apologo sulla menzogna di cui si nutre ogni esistenza umana si riduce ad una banale constatazione dell'ambiguità dei punti di vista. Il tutto non certo nobilitato dagli ampollosi dialoghi filosofeggianti dei tre narratori.



Nonostante tutto, almeno per due terzi di film, il geniale meccanismo narrativo inventato da Kurosawa (giustamente accreditato tra gli sceneggiatori) funziona anche ne "L'oltraggio". Crolla però inesorabilmente nella parte finale. Anche qui come nell'originale nell'ultima parte viene svelata la meschinità di tutti personaggi, ma se nel film giapponese la pateticità dei personaggi non smorzava la tensione, ma accresceva anzi il senso di amarezza, nella versione di Ritt sembra improvvisamente di vedere una commedia western del peggior Burt Kennedy, con gag degne di titoli come "L'infallibile pistolero strabico". Colpo di grazia il ritrovamento del neonato abbandonato da parte dei tre narratori, il barlume di speranza finale. Colpo di scena coerente nel contesto di un medioevo giapponese devastato da guerre e carestie, ma involontariamente ridicolo e gratuito se ambientato in una stazioncina ferroviaria del West sperduta in mezzo al nulla.



Un film quindi profondamente sbagliato, ma non privo di un suo fascino strambo e malato. Soprattutto grazie al mostruoso lavoro di James Wong Howe, che compie autentici miracoli con il suo bianco e nero. Tanto luminose e vuote erano state le inquadrature di "Hud", tanto qui le immagini sono barocche e piene di chiaroscuri. Resta impressa l'atmosfera di un West allucinato e surreale, con momenti di grande suggestione, come la spettrale atmosfera crepuscolare in cui è immersa la stazioncina ferroviaria e il clima rarefatto e onirico durante le sequenze del processo. Ritt dal canto suo ci mette la sua solita abilità nel dirigere gli attori, riuscendo ad infondere un fascino teatrale a molte sequenze. Se Kurosawa si rifaceva alla tradizione del teatro Nō l'americano sembra guardare al teatro di Pirandello.

Per Newman, che fa il trucido truccato da messicano, si tratta con tutta probabilità della sua interpretazione universalmente più mal giudicata. Ma alla fine la palese assurdità della sua mascherata è coerente con lo spirito alterato e ambiguo di tutta la messa in scena. E se fa la macchietta la fa comunque da grande attore.


1967 Hombre
di Martin Ritt con Paul Newman, Fredric March, Richard Boone, Margaret Blye, Martin Balsam, Diane Cilento, Cameron Mitchell, Frank Silvera, Barbara Rush

John Russell detto Hombre, un bianco adottato dagli apache, riceve in eredità una pensione gestita da una vedova. Recatosi in città vende la pensione e licenzia la donna. I due si ritrovano su una diligenza che durante il viaggio viene assalita da cinque banditi. Toccherà al mezzo indiano, disprezzato dagli altri passeggeri, fronteggiare la banda e salvare tutti. Ma a caro prezzo.



Tratto da un romanzo di Elmore Leonard (Hombre, 1961), l'ultimo dei western di Ritt e Newman è quello relativamente più tradizionale, pur comunque non privo di elementi originali. Notevole soprattutto la trovata paradossale di mostrare come vittima di pregiudizi razziali un personaggio interpretato da Paul Newman, che produce l'ovvio spaesamento di veder emarginato un bianco dai tratti apollinei e gli occhi azzurri, una contraddizione visiva che mette a nudo con efficacia i meccanismi sociali e culturali del razzismo. Un'intuizione a forte rischio ridicolo involontario riuscita alla perfezione soprattutto grazie alla straordinaria prova dell'attore. Infatti, nonostante appaia in costume da indiano solo nelle prime sequenze e poi sia sempre vestito come un bianco, è impareggiabile la capacità di Newman di atteggiarsi, muoversi e impugnare le armi come fosse davvero un apache. Da vita così ad uno dei migliori personaggi del western americano degli anni 60, un guerriero glaciale, imperturbabile e imperscrutabile, "una perfetta e magistrale interpretazione del classico e tormentato personaggio dell'anti-eroe newmaniano" (M. Mihich)



Tutto il film è all'insegna del paradosso. I noti liberal Ritt e Newman mettono in scena una realtà spietata, dove gli scrupoli morali e la pietà umana hanno solo effetti negativi e la sopravvivenza è legata alle scelte apparentemente amorali e opportunistiche del protagonista. In questo senso da antologia la sequenza in cui Hombre tenta di uccidere a sangue freddo un bandito che era venuto per parlamentare ("How you going to get back down that hill?"), dove non solo infrange una regola cavalleresca, ma anche una convenzione cinematografica che il pubblico in genere si aspetta venga rispettata anche dai personaggi negativi. Non è però un semplice ribaltamento di prospettiva, l'esaltazione del buon selvaggio libero dalle ipocrisie dei bianchi rispettosi delle convenzioni anche mentre si ammazzano, dato che il protagonista si dimostra anche cinico e opportunista, apparentemente indifferente alle sofferenze e ai problemi altrui. L'unico personaggio positivo del film è quella della vedova, la cui bontà scatenerà involontariamente però proprio la tragedia conclusiva. Il finale è infatti beffardo e crudele. Di fronte alla vigliaccheria e impotenza dei bianchi tocca al "selvaggio" indifferente tentare il gesto eroico, ma pagherà caro quel suo primo gesto di umana solidarietà.



Il film è carico di quell'atmosfera fatalista, sospesa ed ambigua, tipica di un certo cinema americano degli anni 60 e interpretato da gente uscita dall'Actors Studio come Newman. Il ritmo è lento e disteso, ma la tensione monta in maniera inesorabile, arrivando a splendidi momenti di tensione (la rapina, l'agguato sul crinale, il finale) che deflagrano in fulminee e memorabili esplosioni di violenza. I personaggi sono delineati con eleganza e sicurezza, soprattutto il capo dei banditi interpretato da Richard Boone, che tiene testa a Newman con il suo solito personaggio sornione e canagliesco, in fondo quasi simpatico.

James Wong Howe fa il solito magistrale lavoro anche con il colore. La fotografia in "Hombre" è al servizio della storia, più "invisibile" e neutra, meno spettacolare rispetto ai due film precedenti, ma ugualmente capace di trasmettere il senso dello spazio e di catturare il calore e l'aridità dell'ambientazione. Fu il suo dodicesimo ed ultimo western, il primo a cui aveva lavorato era del 1919, quasi cinquant'anni prima.

martedì 19 marzo 2013

i film - O' Cangaceiro



1969 O’ CANGACEIRO
di Giovanni Fago, con Tomas Milian, Ugo Pagliai, Renato Rossini, Eduardo Fajardo, Leo Anchóriz, Jesús Guzmán, Alfredo Santa Cruz, Claudio Scarchilli, Quinto Gambi, Mário Gusmão

Brasile, 1920. Espedito, giovane agricoltore unico sopravvissuto a un massacro compiuto da un sadico colonnello, dopo essersi autonominato Il Redentore forma un proprio gruppo di banditi rivoluzionari (cangaceiros), ma non capendo i giochi del potere è vittima del doppio gioco del governatore locale.

Tecnicamente non è un western in senso stretto, ma una specie di Tortilla Western ambientato nel Sertão – una regione del Nordest del Brasile teatro nella prima metà del 20° secolo di una ribellione banditesca contro lo strapotere dei latifondisti–, sempre con i soldati, ma con i cangaceiros al posto dei rivoluzionari messicani.
Il film nasce evidentemente con delle ambizioni e anche con un budget di tutto rispetto, almeno a giudicare dagli esterni a Bahia e dai nomi coinvolti, tra i quali lo storico sceneggiatore felliniano Bernardino Zapponi.

La regia è affidata a Giovanni Fago, uno dei numerosi registi attivi nella lunga stagione del western italiano ora ingiustamente misconosciuti e di cui è anche difficile reperire informazioni che non siano brevi note biografiche. Fago, nato a Roma nel 1931, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia e aiuto-regista negli anni sessanta per tra gli altri Monicelli, De Sica, Pontecorvo e Rossellini, aveva esordito come regista l’anno precedente con ben due western, il notevolissimo Per 100.000 dollari t’ammazzo e l’introvabile Uno di più all’inferno, ma dopo questo terzo film, che concluderà la sua carriera western, si dedicò prevalentemente a lavori per la televisione e a sceneggiature per altri registi. Il suo ultimo film, Pontormo - Un amore eretico, è del 2004.



Purtroppo a differenza di Per 100.000 dollari t’ammazzo, che era un western di prim’ordine, in questa pellicola non funziona quasi niente. Probabilmente il “problema” principale del film è Tomas Milian, che costruisce in totale autonomia il suo personaggio di redentore-rivoluzionario, doppiandosi da solo con un assurdo idioma ispano-portoghese-romano e andando in overacting con la sua recitazione istrionica, ottenendo come risultato una specie di protoMonnezza zazzeruto e parolacciaro, non molto in linea con la serietà degli intenti.
Anche il film appare male amalgamato, procedendo più come una serie di scene scollegate tra di loro che come un’opera unitaria, forse per la sceneggiatura non molto a fuoco o per qualche taglio effettuato dalla produzione per mantenere la pellicola nella durata canonica di un’ora e mezza.

Sono assolutamente notevoli, però, la fotografia dello spagnolo Alejandro Ulloa, i costumi dei cangaceiros e la colonna sonora di Riz Ortolani, che riprende temi tradizionali brasiliani, come la canzone “Olé Mulher Rendeira”, che non potrà non far provare un déjà vu ai lettori dei fumetti di Mister No.



Come in ogni Tortilla Western che si rispetti c’è anche l’europeo dandy che fa il doppio gioco, interpretato da Ugo Pagliai, purtroppo abbastanza improponibile, e il messaggio populista, che in questo caso è anche decisamente anticlericale.
Non manca nemmeno Eduardo Fajardo, che ovviamente fa il viscido e corrotto governatore.

Il momento migliore del film è il duello con il machete tra Milian e il cangaceiro negro (doppiato da Glauco Onorato), ripreso probabilmente da Il Dio nero e il diavolo biondo di Glauber Rocha, preannunciato dalla tipica battuta western “il machete è più lungo della mano, ma il fucile è più lungo del machete”.



Alcuni veri film di cangaceiros brasiliani, in ogni modo, erano arrivati anche in Italia, rimontati e rimusicati per tentare di essere spacciati per degli spaghetti western nostrani, come O' Cabeleira di Milton Amaral (rititolato per l’occasione Se incontri Sjango cercati un posto per morire) e addirittura il celebre Antonio Das Mortes dello stesso Rocha (che non appena si accorse dell’operazione compiuta alle sue spalle fece immediatamente ritirare il film dalle sale).
Il cosiddetto Cinema novo brasiliano e in particolare lo pseudo-western tropicale e neolatino di Glauber Rocha, del resto, presentavano diversi spunti tematici in comune con lo spaghetti-western rivoluzionario e inoltre, sul finire degli anni sessanta, sempre in Brasile nacque una corrente di western – o meglio faroestes – autoctoni, ispirati nei tratti stilistici a quelli italiani, ma ben più spinti in fatto di erotismo e violenza, i cosiddetti Western Feijoada o bangue-bangues, sui quali torneremo.

sabato 16 marzo 2013

i film - E divenne il piu spietato bandito del sud



1967 E divenne il piu spietato bandito del sud (El hombre que mató a Billy el Niño)  
di Julio Garcia Buchs (e Nick Nostro?) con Peter Lee Lawrence, Fausto Tozzi, Dyanik Zurakowska, Gloria Milland, Carlos Casaravilla, Luis Prendes, Antonio Pica, Enrique Avila, Frank Braña, Francisco Sanz, Luis Rivera

Film su cui pesa l'ambiguità di una doppia attribuzione alla regia. L'italiano Nick Nostro sosteneva di averlo diretto interamente e che lo spagnolo Buchs firmò solo per esigenze produttive. Tutto può essere, ma il film ha un'aria parecchio spagnola nello stile e nel tono. Cioè quella di un western più classico e posato, più vicino a quello americano, ma con caratteristiche comunque riconoscibili, come ad esempio una forte componente malinconica e tragica. Una strada nel genere come l'aveva indicata Joaquìn Luis Romero Marchent e che gli spagnoli ogni tanto tentavano di percorrere per differenziarsi dai soci italiani. Si può supporre che l'influenza di Marchent su questo film potesse essere anche abbastanza diretta, vista la presenza nel cast della bellissima moglie Gloria Milland e altre facce tipiche dei suoi film.



Caso rarissimo, se non unico, di western europeo ispirato a circostanziati fatti storici con nomi e date autentici, sia pure trattati ovviamente con enorme libertà. È infatti la versione in salsa spaghetti della ben nota vicenda di Billy The Kid e Pat Garrett. La figura storica e ambigua di Billy The Kid, priva della retorica (in positivo o in negativo) di altri miti della storia del West, era probabilmente l’unica che poteva interessare il western europeo e l'unica che poteva essere adattata con una certa credibilità.

Interessante notare come nei western americani incentrati su una coppia di amici che diventavano nemici era quasi sempre il più anziano che uccideva il più giovane o comunque il saggio che uccideva lo scapestrato, mentre negli spaghetti accadeva quasi sempre il contrario. Anche in questo caso le cose cambiano parecchio rispetto alla realtà storica, in un finale che è un chiaro riferimento a L’uomo che uccise Liberty Valance, riferimento reso ancora più esplicito dal titolo spagnolo "El hombre que mató a Billy el Niño". Altre differenze rispetto alla tradizione: mancano la cattura del protagonista nella baracca e la conseguente fuga dalla prigione, ci sono invece l’omicidio del quasi padre adottivo Tunstall e in versione liofilizzata la guerra di Lincoln.



Purtroppo non è una proprio una vera versione spaghetti della celebre vicenda, perché manca tutta la tipica iconografia del genere, a cominciare dalla violenza. Di tipicamente spaghetti ci sono solo i bei titoli di testa pop e le bellissime musiche di Gianni Ferrio. Invece sceneggiatura, personaggi, dialoghi e stile di regia guardano assolutamente ai classici americani. Visto che il film può contare su un budget adeguato, è confezionato con una certa classe ed è diretto in modo anonimo, ma elegante, tira un po' un'aria da solida serie B hollywoodiana. Siamo logicamente molto lontani dai livelli dei capolavori di Penn e Peckinpah, che raccontavano la medesima storia, ma il film ha la sua giusta dose di personalità.

Alcune sequenze sono notevoli. A cominciare da bel prologo, che vede Garrett in visita alla tomba di Billy (tutto il film è un lungo flashback). Belle ed efficaci le secche scene d'azione, come la sparatoria in un emporio o un'altra in cui Billy stende quattro uomini in riva al fiume. Ma in particolar modo è l’ultimo quarto d’ora del film ad essere western di gran classe. Grande la scena in cui Billy torna a Fort Summer terrorizzando i suoi ex-concittadini, scopre che la madre è morta di crepacuore, distrugge furioso un saloon e poi fredda un tizio che lo accusa di aver fatto morire la mamma (ha qualche problema edipico il nostro Billy... e ci mancherebbe non li avesse visto che la madre è Gloria Milland, bellissima anche se truccata da donna di mezz'età).



Billy non poteva che essere il Kid per eccellenza degli spaghetti, il biondissimo Peter Lee Lawrence, una delle star di seconda fila dei western all'italiana, qui al suo esordio come protagonista. Assolutamente perfetto dato che nonostante la sua aria delicata riusciva comunque ad essere credibile anche come duro e implacabile assassino. Il suo è probabilmente uno dei Billy The Kid più efficaci mai visti sullo schermo, lontanissimo dalla realtà storica, ma ideale incarnazione dell'icona.
Assolutamente defilato invece il Pat Garrett barbuto interpretato da Fausto Tozzi, che più che un amico del Kid sembra suo padre o uno zio (infatti era un amico fraterno del padre) e come tale si comporta.

giovedì 14 marzo 2013

i film - Sole rosso



1971 SOLE ROSSO (Soleil Rouge)
di Terence Young, con Charles Bronson, Toshiro Mifune, Alain Delon, Ursula Andress, Capucine, Anthony Dawson, Luc Merenda, Guido Lollobrigida, Barta Barri, Monica Randall

In seguito alla rapina ad un treno, un desperado americano tradito dai compagni e un samurai giapponese stringono una strana alleanza per recuperare una preziosa katana donata dall'imperatore del Giappone al Presidente degli Stati Uniti.

Ci sono attori che diventano famosi già da giovanissimi e altri invece che per raggiungere la celebrità devono passare attraverso una gavetta lunga decine di pellicole, raggiungendo l’affermazione solo in età avanzata. Charles Bronson, attore americano di origine lituane, è stato tra questi ultimi: pur avendo interpretato (dopo una giovinezza trascorsa tra il lavoro in miniera e i campi di battaglia della seconda guerra mondiale) più di un centinaio di ruoli come caratterista, specializzandosi in "duri" dall’aspetto etnico (nei western gli toccavano invariabilmente le parti dell’indiano o del mezzosangue), sia al cinema che alla televisione – anche in pellicole illustri come I magnifici sette, La grande fuga e Quella sporca dozzina –, ha dovuto attendere solo la metà degli anni settanta, la soglia dei cinquant’anni e il film Il giustiziere della notte per essere consacrato finalmente come una star negli Stati Uniti.
Prima del riconoscimento americano Bronson era stato però “scoperto”, in modo non diverso da altre icone western (pensiamo solo a Clint Eastwood), dal cinema europeo, in primis quello italiano, che gli regalò il memorabile ruolo di Armonica in C’era una volta il West di Sergio Leone [1], e poi soprattutto quello francese, che diede all’attore le prime parti da protagonista assoluto (precedentemente ci risulta avesse interpretato come prim’attore solo il B-Movie La legge del mitra di Roger Corman).



Il regista con il quale Bronson nella sua esperienza francese ha instaurato il rapporto professionale più stretto è stato Terence Young. Young, un gentleman inglese dalla vita avventurosa nato in Cina e trasferitosi in Costa Azzurra, amante del jet-set e delle belle donne, è rimasto famoso soprattutto per aver diretto tre dei primi quattro film di 007, ma nel corso degli anni sessanta e settanta ha girato molte altre pellicole di genere soprattutto spionistico ed avventuroso (tra cui un gioiello thriller come Gli occhi della notte) e nonostante la sua reputazione sia costantemente diminuita dopo ogni film realizzato aveva fama di regista avvezzo alle grandi produzioni internazionali e alla direzione di divi e scene d’azione.
Sotto la sua regia Bronson ha interpretato alcuni dei ruoli più atipici e particolari della sua carriera, con i quali si mise alla prova con altre tipizzazioni e sfumature che non fossero la maschera impassibile e lo sguardo di ghiaccio per i quali è universalmente conosciuto.
Il miglior film del sodalizio Bronson-Young è il primo, L’uomo dalle due ombre, un polar solido e robusto, mentre il peggiore indubbiamente l’ultimo, Joe Valachi – I segreti di Cosa Nostra, un pasticciaccio gangsteristico prodotto da Dino De Laurentiis sulla scia del Padrino dove Bronson interpreta, peraltro efficacemente, addirittura il celebre pentito italoamericano.

Nel western Sole rosso, l’unico diretto da Young in tutta la sua carriera, Bronson è protagonista di uno dei pochissimi ruoli (quasi) brillanti del suo lungo curriculum e ha modo di esibire degli aspetti della sua recitazione in seguito non più sfruttati, dimostrando insospettabili doti di istrione e commediante, soprattutto nei duetti con Toshiro Mifune.
Dopo Tetsuya Nakadai in Oggi a me… domani a te Mifune è il secondo attore giapponese a calpestare le praterie cinematografiche dell’eurowestern, a conferma di una sua sempre maggiore “contaminazione”. Negli anni settanta grazie soprattutto al successo mondiale di Bruce Lee i film orientali, sia quelli giapponese di samurai che quelli cinesi di arti marziali, divennero molto popolari anche presso il pubblico occidentale e quindi, probabilmente nel tentativo di agganciare un pubblico sempre più numeroso, non mancarono gli ibridi con i generi nostrani (vedi anche Il mio nome è Shanghai Joe e Là dove non batte il sole).



In questo caso, come si dice, ce n'è per tutti i gusti: western all'italiana, di produzione francese, girato in Spagna, da regista inglese, con star francese, star americana, star giapponese e bellona svizzera. Un tempo era un classico delle programmazioni estive insieme a L'oro di Mackenna.

Young, nonostante uno stile poco personale e non molto interessante (non è detto comunque che in un western ciò sia per forza un difetto), con il suo solido artigianato aveva capito meglio di altri la lezione degli spaghetti western e, mantenendosi in equilibrio non sempre stabile tra truce violenza e sdrammatizzante ironia, dirige delle grandiose scene d'azione, dall'iniziale rapina al treno, ai fulminei massacri nella fattoria e nel bordello, culminando nella grande battaglia finale nel canneto (dove, come fa notare Marco Giusti nel suo Dizionario del Western all’italiana i fintissimi indiani hanno delle improbabilissime parrucche), omaggio forse a Kurosawa. Molto felicemente “spaghetti” il fatto che, a parte il nobile samurai, tutti i personaggi sono delle inguaribili carogne, felici di esserlo. I dialoghi non sono niente di particolarmente memorabile, ma sono comunque ottimi. L’amicizia tra Bronson e Mifune è raccontata con il giusto brio e la giusta simpatia.



Cast strepitoso. Di Delon è ormai quasi obbligatorio parlar male, ma intanto qui è impeccabile nella parte della gelida carogna dalla faccia d'angelo. Capelli lunghi e giacca con le frange Bronson pare disegnato tanto è perfetto. Mifune è alle prese con lo stereotipo del samurai, ma con grandi squarci d'autoironia. Ursula Andress… beh, la scena in cui si alza nuda dal letto comprendonsi a malapena con un lenzuolo crediamo abbia frequentato i sogni adolescenziali di molti spettatori. Meritano anche una ancora affascinante Capucine nel ruolo della tenutaria del bordello e la splendida e anonima ragazza con cui va a letto Mifune. Tra la banda di fuorilegge capitanata da Delon si può riconoscere un giovane Luc Merenda.

Gradevole ma un po’ troppo convenzionale la musica di Maurice Jarre. Probabilmente grandiosa la fotografia dai grandi spazi di Henri Alekan, uno dei migliori direttori della fotografia del cinema francese, ma l’orrenda copia in formato 4:3 che passa sia in televisione che in dvd lo lascia purtroppo solo intuire.

M. Mihich & T. Sega
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[1] « Bronson era proprio quello che volevo. Quando andai in America a cercarlo, ero ormai conosciutissimo e quindi avevo un codazzo di agenti che mi offrivano i nomi più grandi (Rock Hudson, Warren Beatty…). E quando chiedevo di Charlie Bronson quelli mi rispondevano esterrefatti “Chi?” (…) Per me Bronson era importantissimo perché era proprio quello che con la faccia che si ritrova è capace di fermare le locomotive. Il giustiziere che, anche se vai in Groenlandia, lì ti trova e lì ti segue. Era proprio un archetipo preciso (…) » Marcello Garofalo, Tutto il cinema di Sergio Leone, Baldini&Castoldi, 1999

martedì 12 marzo 2013

i registi 21 - Jack Lee Thompson

JACK LEE THOMPSON
L'uomo che faceva tremare le montagne

Regista inglese attivo per quasi quarant'anni di carriera sia in patria che a Hollwood, Jack Lee Thompson (1914 - 2003) a voler essere generosi è stato un artigiano tuttofare del cinema. A voler essere onesti è stato un regista mediocre. Dei quasi cinquanta film da lui diretti si notano le molte collaborazioni con Charles Bronson, con cui però condivise soprattutto la parte finale e più opaca della carriera. Gli unici suoi film che non sembrano caduti nel dimenticatoio sembrano essere il polpettone bellico I cannoni di Navarone del 1961 e il thriller Il promontorio della paura del 1962, senza dubbio il suo film migliore, ma che probabilmente oggi deve gran parte della sua relativa fama al remake del 1991 di Scorsese Cape Fear.

Meritano però una piccola riscoperta i suoi due western, per altro abbastanza noti (il primo è stato un classico delle programmazioni estive televisive degli anni 80 e 90). Non certo due capolavori, ma due pellicole divertenti e fuori misura, accomunate da caratteristiche singolari per il genere: inserti onirici, un senso dell'azione più vicino al classico avventuroso, l'affascinante visione di un selvaggio West visto come una terra di leggende al limite del fantasy e soprattutto una certa tendenza al catastrofico, con sequenze in entrambi le pellicole di canyon e montagne che crollano.



1969 L'oro di Mackenna (Mackenna's Gold)
di Jack Lee Thompson con Gregory Peck, Omar Sharif, Telly Savalas, Camilla Sparv, Keenan Wynn, Julie Newmar, Ted Cassidy, Lee J. Cobb, Raymond Massey, Burgess Meredith, Anthony Quayle, Edward G. Robinson , Eli Wallach, Eduardo Ciannelli

Entrato in possesso di una mappa di un leggendario canyon pieno d'oro, l'onesto e pragmatico sceriffo Mackenna la distrugge ritenendola fasulla. Così non la pensano però tutti gli altri personaggi del film che, accecati dal miraggio dell'oro, lo coinvolgeranno suo malgrado in una sanguinaria caccia al tesoro.

Nell'anno in cui esplodeva il fenomeno del western crepuscolare e revisionista, soprattutto grazie all'enorme successo commerciale di "Butch Cassidy", questo western avventuroso dalla trama abbastanza atipica provava a prendere un'altra via per la rinascita commerciale del genere (sul suolo americano), ovvero quella di una insistita e un po' bislacca esasperazione spettacolare, che col senno di poi sembrava anticipare la moda dei film catastrofici degli anni 70 e un certo gusto anni 80 per l'eccesso auto-ironico. È un film in effetti all'insegna dell'esagerazione: esagerato nella durata, esagerato nel cast straboccante di facce note, esagerato nel numero e nella caratterizzazione dei personaggi, esagerato nelle scelte di regia, che ammassa effetti ed effettacci tramite lenti deformanti, vezzi di montaggio, effetti speciali. Il risultato è tanto grossolano quanto in definitiva gustoso.



Si respira un'atmosfera vagamente fantasy. Il film è tutto ambientato in esterni (anche se alcune sequenze sono palesemente girate in studio) e lascia il segno la visione di un West come terra di nessuno, fatta solo di rocce, canyon, montagne, antichi e misteriosi pueblo abbandonati. I vasti e desolati paesaggi in cui si muovono i personaggi sembrano inospitali scenari lunari. O meglio ancora marziani, tenendo conto che i colori dominanti della pellicola sono il rosso, l'arancione, l'ocra.

Memorabile il finalone nel canyon dell'oro, che riesce a trasmettere un discreto senso di angoscia giocando sul senso di vertigine provocato da cavalcate su precipizi e arrampicate su pareti rocciose. Decisamente spostato verso il cinema fantastico, per non dire nel peplum, la sequenza catastrofica in cui un devastante terremoto distrugge il canyon. Probabilmente l'uso evidente di modellini e pietroni di cartapesta doveva apparire già piuttosto goffo all'epoca, anche se la scena doveva comunque fare la sua porca figura nella spettacolarità del cinemascope. Sequenza che oggi può risultare insopportabilmente ingenua o simpaticamente "camp" a seconda della disponibilità di chi guarda.



La sceneggiatura è tratta da un romanzo di Will Henry, adattata dallo sceneggiatore Carl Foreman, che è anche produttore del film insieme al compositore di tante celebri colonne sonore western Dimitri Tiomkin (in questo caso però la colonna sonora è dell'allora più moderno Quincy Jones). Ed è proprio la sceneggiatura il maggior punto debole del film. Incerta nella soluzione di alcune sequenze (a ben vedere anche la famosa e spettacolare sequenza della scalata al pueblo e il conseguente duello tra Gregory Peck e Omar Sharif si risolve in un nulla di fatto), si incarta decisamente nella parte centrale, quando ha l'ambizione di diventare una specie di metafora alla Moby Dick sulla cupidigia umana, mettendo in scena tutto un campionario di personaggi ossessionati in vario modo dall'oro. È qui che entra in scena uno stuolo impressionate di facce note di quegli anni: Eli Wallach, Lee J. Cobb, Keenan Wynn, Raymond Massey, Burgess Meredith, Anthony Quayle, Edward G. Robinson, Eduardo Ciannelli... splendidi faccioni da cinema, ma troppi e troppo ingombranti. E infatti dopo la lunga sequenza che li introduce, esaurita la loro funzione narrativa, vengono subito tutti sbrigativamente massacrati dagli apache. L'unico che riesce a ritagliarsi il suo spazio è Telly Savalas, nel suo solito ruolo di marpione traditore.



Gregory Peck fa la sua solita figura, ma soffre l'inevitabile inerzia di un personaggio che per tutta la durata del film è ostaggio dei suoi avversari, mentre risulta decisamente incolore il personaggio della bella biondina che deve proteggere. Rubano quindi la scena con tutta comodità i personaggi negativi, a cominciare dal bandolero Colorado di Omar Sharif, il quale per una volta lontano dal suo solito cliché romantico dimostra che avrebbe potuto avere una carriera anche come simpatica carogna. Notevoli anche i due freak indiani che lo affiancano, impersonati da due piccoli miti televisivi di quegli anni: il gigantesco Ted Cassidy, noto per il personaggio di Lurch, il maggiordomo stile creatura di Frankenstein della Famiglia Addams, impersona il tenebroso guerriero apache Hachita, mentre la conturbante Julie Newmar, nota come la Catwoman del Batman televisivo con Adam West, impersona l'inquietante squaw Hesh-Ke, muta, sfregiata e psicopatica; la sequenza in cui fa il bagno nuda e poi lotta con Peck in un laghetto è di quelle che non si dimenticano facilmente.



1977 Sfida a White Buffalo (The White Buffalo)
di Jack Lee Thompson con Charles Bronson, Jack Warden, Will Sampson, Kim Novak, Clint Walker, Stuart Whitman, Slim Pickens, John Carradine

Uno stanco e delirante Wild Bill Hicock si associa ad un vecchio trapper per andare a cacciare sulle Colline Nere un mostruoso bisonte bianco che tormenta i suoi sogni e fa stragi negli accampamenti indiani. Troveranno un riluttante alleato in Cavallo Pazzo, anche lui in cerca del mostro per vendicare la morte della figlioletta.

Film che gode in generale di una pessima fama, maltrattato un po' ovunque. Si tratta invece di un'altra pellicola curiosa e originale, girata con uno stile grezzo e votato (ancora) all'esagerazione, ma a suo modo efficace e con qualche bella idea. Rispetto al titolo precedente può contare su un protagonista decisamente più carismatico e su una storia più coerente e compatta, adattata dallo sceneggiatore Richard Sale da un suo romanzo "The White Buffalo". Visivamente è quasi un contraltare de "L'oro di Makenna", con i colori caldi, luminosi e rossastri che vengono rimpiazzati da colori gelidi, invernali e bluastri. Una cupezza cromatica che crea un'affascinante atmosfera oscura e plumbea, che opprime tutti i personaggi dalla prima all'ultima sequenza. Tutto sembra svolgersi in una dimensione notturna e irreale, che ha poco del western e molto del racconto pauroso raccontato attorno al fuoco. Fanno il loro bell'effetto come al solito le ambientazioni innevate.



I riferimenti della trama a Moby Dick sono chiari, come è chiaro anche il volersi agganciare ad un blockbuster dell'epoca come "Lo squalo" di Spielberg. Thompson non possiede certo la maestria di Spielberg nella costruzione della suspense, ma procede piuttosto per grezzo accumulo di effettacci, andando a parare più dalle parti di un film di mostri che di un thriller. Non va per il sottile, ma questo è un pregio, neanche nel descrivere un West fosco e sordido, quasi anticipatore di quello di Dead Man (la sequenza iniziale dell'arrivo in treno di Charles Bronson ricorda non poco un'analoga sequenza del film di Jarmusch).

Usa l'accetta anche per intagliare i suoi personaggi, dei veri concentrati di luoghi comuni e stereotipi, ma che in un certo rozzo modo riescono a diventare delle figure archetipiche da leggenda. Charles Bronson è quasi la caricatura del pistolero funereo, un Wild Bill allucinato e dark, che accoppa gente a carrettate e si sveglia dagli incubi sparando. L'ottimo caratterista Jack Warden interpreta il vecchio trapper impellicciato, un po' saggio e un po' cinico. Il grande (in tutti sensi) Will Sampson, l'indimenticabile Grande Capo di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", interpreta un Cavallo Pazzo coraggioso e pronto al sacrificio. Anche stavolta il cast di contorno è affollato di facce e nomi noti, ma usati con più equilibrio e criterio rispetto a "L'oro di Mackenna".



Uno degli elementi più criticati del film è la presunta mal riuscita del bufalo bianco creato da Carlo Rambaldi. In effetti non c'è inquadratura dove la creatura non riveli il suo essere un pupazzone meccanico che si muove su dei binari (persino ben visibili in un'inquadratura durante la sfida finale). Ma proprio grazie alla sua visibile artificiosità il bestione diventa un elemento talmente incongruo e fuori posto che finisce per accrescere l'atmosfera onirica del film. Sfidando spesso il ridicolo involontario l'animale viene caratterizzato come un'autentica forza della natura, capace di dilatare il tempo e lo spazio con la sua presenza e di provocare frane con il solo muggito.
Identico effetto straniante fanno le numerose sequenze visibilmente girate in studio. Come accadeva nei film hollywoodiani classici una finzione talmente evidente da diventare più vera del reale, un effetto che qui accentua ulteriormente il clima da fiaba nera.



Lascia il tempo che trova il lato crepuscolare della vicenda, con l'improbabile amicizia "segreta" tra Wild Bill Hicock e Cavallo Pazzo, nella realtà storica morti a pochi mesi di distanza, un paio d'anni dopo gli eventi del tutto inventati del film. Tutto sommato se i protagonisti fossero stati dei personaggi inventati il film ne avrebbe giovato.

lunedì 11 marzo 2013

segnalazioni - Il cinema di Michael Winner



La scomparsa del regista inglese Michael Winner, avvenuta dopo lunga malattia il 21 gennaio scorso, è passata sotto il colpevole silenzio del media. L’ennesimo segno di un riconoscimento critico, di cui lamentavamo nella nostra scheda dedicata all’autore, che ancora tarda a venire. Ci pare quindi d’uopo segnalare la bella monografia delle Edizioni Il Foglio Letterario del 2011, che costituisce il primo serio studio critico dedicato a Winner in Italia (che, comunque, anche l’estero non gode purtroppo di maggior fortuna). Curata da Fabio Zanello è strutturata in agili schede, ognuna a firma di un diverso critico e dedicata a un differente film, che prendono in esame quasi l’intera produzione di Winner. Un lavoro accurato e indispensabile per comprendere il lascito di uno «tra i registi più archetipici […] degli anni settanta, che aspetta in Italia ancora qualcuno che ne spieghi il portato intellettuale», che se ha un difetto è paradossalmente quello della sottovalutazione, ad esempio degli ultimi lavori del regista, oggettivamente non all’altezza dei capolavori degli anni settanta, ma liquidati forse un po’ troppo sbrigativamente.

A margine segnaliamo anche il sito del regista, dove si può trovare un’ampia e interessate documentazione fotografica dei set dei suoi film.

venerdì 8 marzo 2013

Damiano Damiani 1922 - 2013

ADDIO A DAMIANO DAMIANI

ROMA, 7 MAR - E' morto questa sera a Roma nella sua abitazione, per insufficienza respiratoria, il regista Damiano Damiani. Lo conferma all'ANSA la figlia Sibilla. Nato a Pasiano di Pordenone il 23 luglio 1922, Damiano Damiani in una lunga carriera e' stato regista al cinema tra l'altro del Giorno della civetta e per la tv de La Piovra. (ANSA)

Addio dunque ad uno dei rari esempi di regista italiano trasversale a tutti i filoni del (fu) nostro cinema. La sua fama è legata ai drammi di denuncia sociale e alla serie televisiva "La piovra", ma ha anche realizzato film con ambizioni d'autore, ha frequentato la commedia all'italiana e non ha disdegnato il cinema di genere. E anche lui ha subito la triste decadenza della cinematografia italiana. Una lunga carriera la sua, che in gran parte andrebbe riscoperta. Noi avevamo già scritto di lui trattando ovviamente dei suoi due western.


giovedì 7 marzo 2013

i registi 20 - Ted Kotcheff

TED KOTCHEFF
Dall’Outback australiano al Western israeliano



Nato nel 1931 a Toronto da genitori provenienti dalla Bulgaria ma di origine macedone Ted Kotcheff è stato un regista decisamente versatile e cosmopolita. Dopo aver iniziato a lavorare per la televisione canadese già a metà degli anni cinquanta, nel decennio successivo si trasferisce in Inghilterra dove gira i primi film per il cinema e la televisione, quindi all’inizio degli anni settanta realizza uno dei capolavori della cinematografia australiana, che ne farà da apripista alla cosiddetta new wave, e infine approda a Hollywood, dove esordisce con un western girato in Israele e diventa poi famoso come regista del primo Rambo (1982), senza dubbio il film a cui è indelebilmente legato il suo nome.

Per quanto trasmetta un’immagine dei reduci del Vietnam falsa e colpevolmente sensazionalista il Rambo di Kotcheff non ha nulla a che spartire con i sciocchi e ridicoli – cinematograficamente prima ancora che ideologicamente – seguiti realizzati in prima persona da Sylvester Stallone ed è un film di grande forza e compattezza con un convincente ritratto psicologico dei personaggi, anche se in fondo costituisce un po’ un compromesso commerciale per un regista più raffinato ed autoriale di quanto si creda, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino nel 1974 con Soldi ad ogni costo e nominato alla Palma d’Oro a Cannes nel 1971 per Wake in Fright.

Se il successo mondiale di Rambo ha portato grande fortuna al suo attore protagonista ne ha riservata invece poca al regista del film, e la stella di Kotcheff, appena assurta alla ribalta hollywoodiana dopo decenni di variegata attività in giro per il mondo, comincia ben presto a declinare, fino a finire costretta, negli ultimi due decenni, nelle produzioni televisive.
Ed è davvero un peccato, vedendo i due film qui presi in esame e la potenza della loro messa in scena, che il regista si sia perso tra poco riuscite commedie e discutibili film di cassetta anziché perseverare in un percorso artistico che avrebbe potuto portarlo tra i grandi del cinema d’azione.



1971 WAKE IN FRIGHT
di Ted Kotcheff, con Donald Pleasence, Gary Bond, Chips Rafferty, Sylvia Kay, Jack Thompson, Peter Whittle, Al Thomas, John Meillon

Non è un western in senso stretto, ma data la sua importanza all’interno della filmografia di Kotcheff, di cui costituisce l’indiscutibile capolavoro, ci pareva doveroso includerlo in questa nostra breve scheda riguardante la fase meno conosciuta e più autoriale della carriera del regista canadese, tanto più che si tratta di un film tuttora completamente inedito in Italia e quindi speriamo con la nostra segnalazione di invogliare qualche lettore a recuperarlo.

Autentico “capolavoro perduto” anche in Australia, dove è stato invisibile per più di trent’anni, finendo per essere ammantato da un’aura di leggenda, è stato infine sottratto all’oblio alla fine dello scorso decennio (in condizioni quantomeno avventurose: pare che l’unico negativo esistente sia stato rinvenuto all’ultimo momento su un container destinato al macero), quindi restaurato digitalmente e nel 2009 rilasciato di nuovo nei cinema e pubblicato in home video, con tanto di presentazioni in pompa magna a pubblico e stampa.



Definito oggi come il classico film “seminale” Wake in Fright pone le basi stilistiche e tematiche di molto del cinema australiano degli anni a seguire, in particolare per quella corrente chiamata “Outback Gothic”, e fissa lo stereotipo dell’ocker, cioè il campagnolo australiano ignorante, volgare, maschilista, violento ed alcolizzato, elemento ricorrente di una fervida stagione cinematografica durata almeno fino a metà degli anni ottanta, che nella sua declinazione più commerciale (comprendente anche western come La taverna dei dannati di Terry Bourke e Braccato a vita di Philippe Mora) viene definita ozploitation.

Moderno cuore di tenebra ambientato nell’outback, lo sconfinato deserto australiano, e nel bush, le desolate ed emarginate campagne, questa trasposizione dell’omonimo romanzo di Kenneth Cook è una potente riflessione sulla natura violenta e feroce dell’Australia rurale, strutturata come società maschile ed aggressiva, dove l'alcol serve da catalizzatore dei rapporti umani e affermazione della propria identità.



La pellicola racconta la storia da incubo di un insegnante di scuola elementare (Gary Bond) e della sua discesa in un abisso di degrado e umiliazione mentre si trova bloccato in un piccolo paese nell'entroterra australiano, dove viene a contatto con una popolazione di ubriachi, derelitti e squilibrati – tra cui un medico luciferino interpretato con il consueto istrionismo da Donald Pleasence – dediti ad allucinanti adunate di gioco d’azzardo, estenuanti maratone alcoliche e sconvolgenti battute di caccia al canguro.

Il progressivo ingresso del protagonista – e, attraverso il suo punto di vista, di noi spettatori – in una spirale sempre più incontrollata e senza senso di violenza e autodistruzione che ne porta alla luce i lati più oscuri e sconosciuti – che diventano metafora di quelli di una nazione intera – viene raccontato con sguardo lucido, distaccato e assolutamente non compiaciuto; anzi la regia curata ed elegante di Kotcheff, che non manca di preziosismi e soluzioni originali, la fotografia satura e accesa di Brian West e il montaggio frammentato e moderno di Anthony Buckley si pongono in disturbante contrasto con la crudezza del narrato.



Il risultato è un film tanto duro e realistico quanto sgradevole e scioccante, accostato dalla critica al Paradiso perduto di Milton, che consegna un’immagine dell’entroterra australiano come desolata frontiera fatta di sudore, alcol, polvere e mosche, i cui immensi spazi vuoti più che simbolo di libertà diventano le sbarre di un’invisibile prigione.



1974 LA MIA PISTOLA PER BILLY (Billy Two Hats)
di Ted Kotcheff, con Gregory Peck, Desi Arnaz Jr, Jack Warden, David Huddleston, Sian Barbara Allen, John Pearce

Il primo film statunitense di Kotcheff è un western tanto notevole quanto poco conosciuto, pienamente calato nella fase crepuscolare del genere.
La demitizzazione e il revisionismo erano caratteristiche peculiari del cinema americano della prima metà degli anni settanta (prima che i blockbusters di George Lucas e Steven Spielberg le spazzassero via per sempre) ma proprio nel western, il genere cinematografico tradizionale statunitense per eccellenza, esse vennero espresse con ancora più amarezza e disincanto.

Come altre pellicole di quel periodo il film di Kotcheff opera un radicale ribaltamento di prospettiva all’interno del genere: i personaggi positivi sono dei fuorilegge, il Far West mitico dei pionieri non esiste più, i bisonti sono scomparsi e i pochi indiani rimasti sono caricature grottesche e alcolizzate; gli stessi “eroi” di un tempo sono vecchi e soli.
A resistere ancora è l’amicizia virile tra un esule scozzese, fuorilegge per caso e disperazione, e un giovane meticcio sradicato, ma i loro sogni, come quello di andare a rifarsi una vita in California, sono inevitabilmente destinati a morire.



Narrativamente il film si regge su una robusta sceneggiatura di Alan Sharp, grande sceneggiatore (ma anche romanziere) scozzese recentemente scomparso, autore dei copioni di western come Nessuna pietà per Ulzana di Robert Aldrich e Il ritorno di Harry Collings di Peter Fonda, ma anche di Bersaglio di notte di Penn e Osterman Weekend di Peckinpah, che intreccia le dinamiche tra i diversi personaggi con ammirevole profondità, anche quelli minori come il cacciatore di bisonti in pensione interpretato con la consueta esuberanza da David Huddleston (caratteristica passato alla storia del cinema per due ruoli: il Jeff Lebowsky de Il grande Lebowsky e “il Tigre” di Nati con la camicia) e la timida mogliettina di un’intensa Sian Barbara Allen.

Il fulcro del film è però giocato sul rapporto tra l’anziano pistolero interpretato da Gregory Peck – attore che ha sempre compensato la poca espressività con una grande presenza scenica e che al suo ultimo western non si fa problemi a mostrarsi vecchio e zoppo per quasi tutto il film in un’interpretazione semplicemente commovente – , il giovane meticcio di Desi Arnaz Jr. e lo sceriffo razzista che dà loro la caccia, un bravissimo Jack Warden perfetto nella parte del difensore della legge tanto implacabile quanto stolto.



La regia di Kotcheff , fluida ed elegante, è pressoché perfetta nel muoversi con calma intorno ai personaggi e nel costruire un’atmosfera di tensione venata di tristezza e fatalismo, ben appoggiata dall’ottima fotografia di Brian West.
La struttura del film – in pratica una lunga caccia all’uomo seguita alternativamente dagli occhi del cacciatore e da quelli delle prede –, l’empatia per gli inseguiti e la caratterizzazione del tutore delle legge cieco ed arrogante così simile a quella di Brian Dennehy non possono che far venire il mente il film più famoso di Kotcheff, Rambo, che si muove lungo binari narrativi molto simili.



La pellicola è stata girato interamente in Israele, nei Desert Studios di Eilat e nel deserto del Negev, che servì da location negli anni settanta anche per altri western (tra cui gli italiani Execution di Domenico Paolella, Black Jack di Gianfranco Baldanello e Diamante Lobo di Gianfranco Parolini) e che con i suoi paesaggi aridi e brulli trasmette efficacemente l’idea di una landa desolata e senza vita, nonostante a un occhio esperto la vegetazione possa apparire del tutto fuori luogo.

Come al solito da censurare il liberissimo doppiaggio italiano che trasforma il nome indiano del protagonista, Billy Two Hats, in Billy Due Gilet!