1992 SILENT TONGUE
di Sam Shepard con Richard Harris, Sheila Tousey, Alan Bates, River Phoenix, Dermot Mulroney, Velada McCree
Bellissimo e affascinante western dalle atmosfere arcane e sospese, purtroppo mai arrivato in Italia e poco visto anche in America. Seconda ed oggi ultima regia del grande Sam Shepard, che girò il film nel 1992, probabilmente a ridosso del coevo e affine (almeno come ambientazione) Cuore di tuono, ma scarsamente distribuito solo due anni dopo. Per anni se ne è parlato quasi esclusivamente in relazione alla morte di River Phoenix, essendo l'ultimo film interpretato dall'attore morto nel 1993 ad essere stato distribuito.
Impazzito per la morte della moglie indiana un giovane ne veglia morbosamente il cadavere. Per strapparlo all'albero su cui giace il corpo, il padre rapisce la sorella della morta, sperando che la ragazza riesca a farlo ragionare. Sulle loro tracce si mettono il premuroso fratellastro bianco della ragazza e il padre, laido capocomico di un Medicine Show, che aveva violentato la madre delle due sorelle, una donna sacra (la Silent Tongue del titolo). A complicare le cose ci sono le inquietantissime apparizioni del fantasma della defunta.
Non è certo un film d'azione, non ci sono sparatorie o scazzottate, ma è un film attraversato da una bella tensione e da un grande senso di inquietudine. Sam Shepard scrive e dirige un film crudo e poetico, dai ritmi dilatati, ma dallo stile asciutto. C'è un grande senso del folclore dell'epoca, con una splendida e sentita ricostruzione dei Medicine Show ambulanti, popolati da freak, comici scalcinati e immancabili nani.
Un'opera profondamente malinconica, narrativamente divagante e dai ritmi meditativi, che si muove sul difficile confine tra poetico e poetizzante, ad esempio dispiegando a livello visivo rischiose immagini di meravigliosi crepuscoli e di paesaggi mozzafiato, ma che non diventa mai un esercizio di stile fine a se stesso o di bella e vuota calligrafia. Shepard non perde mai di vista i suoi personaggi e riesce a raccontare una fiaba crudele, dove anche i momenti più esplicitamente metaforici conservano un sapore acre e concreto. Se Bergman avesse mai girato un western probabilmente sarebbe venuto fuori qualcosa di molto simile. D'altra parte il maestro svedese è esplicitamente citato nel bel finale (lo stesso de "Il settimo sigillo") e anche le scene di vita del Medicine Show ricordano molto i suoi film.
Riuscitissima anche la mescolanza tra western e inquietanti squarci fantastici, con il personaggio dello spettro femminile probabilmente influenzato dalla tradizione cinematografia giapponese. Nonostante il film sia un chiaro atto d'amore verso la cultura dei nativi americani, non si scade mai nella facile idealizzazione dello spiritualismo e spiritismo indiani. Il tema centrale è piuttosto l'ossessione per il possesso dei bianchi, esemplificata dall'orrido e dickensiano personaggio del capocomico interpretato da Alan Bates (la cui cattiveria fin troppo sottolineata è forse l'unico grosso limite del film) e anche dall'attaccamento morboso del ragazzo alla moglie defunta, che in fondo altro non è che una continuazione del fatto che la donna le era stata comprata come un oggetto dal padre.
Shepard tira fuori la sua esperienza teatrale e fa un gran lavoro anche con gli attori. Del resto il cast è semplicemente straordinario, con al centro un grandissimo Richard Harris, che in quello stesso periodo bissava nel genere con Gli spietati di Eastwood. L'unico un po' monocorde è proprio il povero Phoenix, che però qui ha il non trascurabile merito, almeno agli occhi dei cultori del western, di ricordare il Jeffrey Hunter di "Sentieri Selvaggi".
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