giovedì 25 febbraio 2016

Bone Tomahawk



2015 BONE TOMAHAWK
di Craig S. Zahler, con Kurt Russell, Richard Jenkins, Patrick Wilson, Matthew Fox, Lili Simmons

Nell’attesa della recensione di The Hateful Eight, film-evento irrinunciabile per ogni appassionato di cinema (non solo) western, un sostanzioso antipasto (e anche un’occasione per rilanciare il nostro blog) può essere costituito da Bone Tomahawk, pellicola uscita lo scorso autunno negli Stati Uniti (ma reperibile attraverso le solite piattaforme online anche in Italia: una distribuzione nelle sale cinematografiche non pare per il momento prevista), se non altro per la particolarità di essere interpretata dallo stesso protagonista del film di Quentin Tarantino, un magnifico Kurt Russell, che sfoggia peraltro il medesimo look ottocentesco con barba e baffoni.
Bone Tomahawk è stato infatti girato immediatamente prima di The Hateful Eight, quindi nel 2015 c’è stata l’occasione di vedere Russell (che aveva frequentato il genere solamente una ventina d’anni addietro con il Tombstone di Pan Cosmatos) in ben due western, che speriamo costituiscano un’occasione di rilancio per questo bravo attore ultimamente poco utilizzato dal cinema americano.

Bone Tomahawk è scritto e diretto da quel Craig S. Zahler di cui abbiamo dato notizia sul nostro blog a proposito dell’annunciato progetto Brigands of Rattleborge, uno script particolarmente violento finito in cima alla Black List (la lista delle migliori sceneggiature non prodotte pubblicata annualmente dagli Studios americani) che dopo essere stato acquistato dalla Warner Bros era stato affidato nientemeno che al coreano Park Chan-wook (progetto che pare però purtroppo essersi arenato).
Quella di Brigands of Rattleborge è solo una delle venti sceneggiature finora vendute al cinema dal poliedrico Zahler, che è anche apprezzato romanziere (i diritti del suo ultimo romanzo, Mean Business on North Ganson Street, sono stati opzionati da Leonardo DiCaprio, che dovrebbe trarne un film a breve) e anche musicista (genere di riferimento l’heavy metal). Siccome l’unico suo copione ad essere finora diventato film è però quello di The Incident, un horror diretto nel 2011 dal francese Alexandre Courtes, Zahler, frustrato dai tanti progetti non andati in porto, ha deciso di compiere il grande passo e passare in prima persona dietro la macchina da presa.


Tra le varie declinazioni del Weird Western, genere negli ultimi anni quanto mai (mal) frequentato, mancava forse ancora quella ‘cannibal’, un sottofilone tra i meno rispettabili dell’horror, di matrice prettamente italiana, tornato di recente in auge grazie al film di Eli Roth The Green Inferno. Le similitudini, però, si fermano qui: se Roth sceglie per la sua pellicola come suo solito un approccio quanto mai ludico e superficiale Zahler sembra invece ben intenzionato a fare le cose sul serio e a maneggiare la materia con reverenza, scrupolo e competenza.

Il risultato è un oggetto quanto mai curioso e indecifrabile, che potremmo definire come una sorta di impossibile mix tra Sentieri selvaggi e La montagna del Dio cannibale.
Dopo un breve e fulminante prologo in cui vediamo Sid Haig tagliare (letteralmente) la gola a un gruppo di pionieri per poi venire a sua volta fatto a pezzi il film assume i ritmi piani e distesi di un autentico e classico western, nei quali l’autore si prende tutto il tempo, utilizzando come tema portante il tradizionale archetipo del viaggio, per mettere in scena e sbozzare i personaggi e per descrivere le dinamiche che intercorrono tra di loro, nelle quali si può apprezzare la sua capacità di delineare efficacemente caratteri e psicologie e l'ottimo senso per i dialoghi, arricchiti da un uso non banale di vocaboli desueti e vernacolari.
Paradossalmente questo rallentamento e rarefazione della pellicola, in cui di fatto poco o niente succede, contribuisce ad accrescerne esponenzialmente il livello di tensione.
Nell’ultima mezz’ora, con l’incontro con il clan di indiani cannibali, il film opera però uno scarto deciso e prende completamente le distanze dagli stilemi del western per abbracciare quelli di un horror graficamente molto violento, e si chiude con un finale teso e cattivo, di quelli che restano impressi.


Come detto l’autentico valore aggiunto del film è costituito da Kurt Russell, protagonista di un’interpretazione degna dei grandi del passato: la laconicità, l’essenzialità dei gesti,il portamento elegante e virile rimandano ai grandi divi del western classico, come il fatto di riuscire a riempire lo schermo con la sola presenza scenica o anche la semplice voce.
Anche il resto del cast funziona benissimo, a partire da Richard Jenkis che fornisce un’ironica e inedita interpretazione del classico “vecchietto” alla Walter Brennan, fino a due giovani promesse di formazione televisiva come Patrick Wilson e Matthew Fox. Soprattutto quest’ultimo è assai convincente nel ruolo di un compassato gentiluomo d’armi.
Merita sicuramente una menzione, infine, anche la deliziosa Lili Simmons.


Il film, va detto, non è esente da difetti e in alcuni punti palesa la poca esperienza di Zahler dietro la macchina da presa, che si limita a una regia corretta ma abbastanza anodina, forse non all’altezza della sceneggiatura e carente soprattutto di immaginazione visiva (la poca mobilità delle inquadrature e l’ampio uso di campi medi d’altro canto evoca echi carpenteriani, come pure la raffigurazione metafisica del male e l’utilizzo dello spazio in funzione della creazione della suspense); in alcuni momenti anche i dialoghi, in particolar modo quelli di Richard Jenkins, pur efficaci nella loro straniante ironia (che segue consapevolmente la lezione di Tarantino) a volte spezzano eccessivamente la tensione finendo per risultare un po’ ridondanti, e forse l’intera pellicola avrebbe giovato di una minor durata.

Bisogna però dare atto al regista di avere girato con il budget minuscolo di un piccolo film indipendente (gli esterni sono stati girati interamente in California, non potendosi permettere il New Mexico) un western con un mood molto affascinante e non privo di preziosismi ed eleganza e lo aspettiamo fiduciosi alla sua seconda prova.

mercoledì 12 agosto 2015

mercoledì 4 marzo 2015

The Mountie



2011 THE MOUNTIE / THE WAY OF THE WEST / LAWMAN 
di Wyeth Clarkson con Andrew W. Walker, Jessica Paré, George Buza, Earl Pastko, John Wildman, Tony Munch , Matthew G. Taylor, Andrey Ivchenko

E' piuttosto sconcertante il numero di western amatoriali o semi-amatoriali che vengono prodotti ogni anno da un po' di anni a questa parte. A questa data, per il 2015 secondoIMDb ci sarebbero già in cantiere cento(!) film western. Lasciando perdere tutti quei film d'altro genere per cui l'etichetta "western" del sito sarà stata messa lì perché si vede un deserto o uno cavallo, stiamo parlando di almeno una cinquantina di titoli. Alcuni di questi non verranno mai completati e spariranno anche da IMDb, altri diventeranno i classici film fantasma di cui resterà solo un titolo, di altri ancora comparirà il trailer su youtube prima di scomparire a loro volta, i più fortunati finiranno in qualche sito streaming totalizzando visualizzazioni a una cifra e zero commenti. Pochi, pochissimi, troveranno un loro minuscolo pubblico e i loro 15 minuti di gloria. Quel che sconcerta è quindi la vastità della proposta in relazione alla quasi inesistente domanda di prodotti simili.

Eppure, pur considerando l'abbattimento dei costi (e della conseguente qualità media) dovuto alla tecnologia digitale, mettere in piedi anche il più banale dei film resta un'operazione per cui ci vuole comunque qualcuno che spenda tempo e risorse personali. Molto tempo e molte risorse.
Al che si potrebbe buttarla sul romantico, immaginando questo esercito di sognatori che producono e dirigono il loro film western contro ogni legge del mercato e del pubblico, spinti solo dall'amore per il genere. Ma poi basta guardarne qualcuno di questi pseudo-film per far sparire ogni alone poetico alla faccenda. C'è di buono (si fa per dire) che il livello è in genere talmente infimo che in genere bastano pochi minuti di visione o anche solo un trailer per decidere di dedicarsi ad altro.


Raramente ci sono invece titoli che si lasciano vedere dall'inizio alla fine, come questo "The Mountie", film canadese di quattro anni fa, circolato (e si rifà per dire) anche con i titoli "The Way of the West" e "Lawman". L'amatorialità del prodotto risalta già dalla povertà grafica del carattere scelto per i titoli di testa e di coda, ma per il resto a livello tecnico ci troviamo davanti ad un filmetto fatto con gusto, cura e consapevolezza dei pochissimi mezzi a disposizione.

Come ormai caratteristico di molti western di questi anni dieci, il film sceglie un'ambientazione atipica e intrigante, quella di una minuscola comunità russa dispersa tra le montagne del Canada, un accampamento di misere tende dove - bella intuizione visiva - l'unico edificio in legno è la chiesa. Il prete è in combutta con una banda di criminali che costringe la piccola comunità a coltivare l'oppio. Un giorno capita da quelle parti una giubba rossa che proprio a causa dell'oppio ha un tragico errore da riscattare: sotto effetto della droga durante una sparatoria in un fumeria d'oppio uccise per sbaglio una ragazzina.

Bella fotografia, bei costumi, colonna sonora professionale, tocchi di regia non banali, il fascino aristocratico delle giubbe rosse. Gli attori sono probabilmente tutti non professionisti, ma i buoni hanno le giuste facce (nota per gli spettatori maschietti: la figlia del prete, che - ovviamente - si innamora del protagonista è praticamente una sosia di Liv Tyler) e i cattivi le giuste ghigne. Tutto sembrerebbe concorrere alla realizzazione di un gioiellino misconosciuto. Dove il film frana rovinosamente è nella scrittura.



Anche a quel livello, in realtà, gli autori avrebbero fatto scelte intelligenti, mettendo in piedi una storiella semplicissima e riducendo al minimo i dialoghi. Ma a conti fatti la sceneggiatura si rivela una specie di collezione delle più tipiche ingenuità dello sceneggiatore dilettante. Un affastellarsi di idee anche buone, ma messe giù senza avere il senso del narrazione e senza capacità di dare una progressione drammatica agli eventi. Le cose sembrano succedere a caso, i personaggi fanno cose incoerenti e spesso in contrasto con la loro caratterizzazione, si passa senza soluzione di continuità da un tono realistico e crepuscolare a scene da spaghetti western. Per dire, il protagonista passa da sequenze in cui appare come lo straniero senza nome di Clint Eastwood ad altre in cui è un antieroe impotente. Nel finale appare tra i fumi delle esplosioni come in "Per un pugno di dollari" e uccide ad uno uno i suoi avversari come "Il cavaliere pallido, ma allo stesso tempo per cavarsela deve essere salvato dal suo cavallo(!), da una bambina(!!), da un ritardato(!!!) e infine da un suo collega.



Ma ha senso giudicare un prodotto di questo tipo come un film normale?
Ha più senso criticarlo per quello che non è riuscito ad essere o apprezzare quello che, nonostante tutto, è riuscito ad essere? E se da una parte il coevo Good for Nothing, con mezzi probabilmente altrettanto limitati, è riuscito ad essere un autentico gioiello, dall'altra è comunque meglio di un'infinità di direct-to-video senz'anima che magari godono di buona fama tra estimatori del trash. Alla fine è un'operina fatta con evidente amore, per il western e per il Canada, che non riesce ad essere un prodotto professionale, ma ci prova ad esserlo più di molti prodotti realmente professionali.

mercoledì 25 febbraio 2015

The Retrieval



2014 THE RETRIEVAL
di Chris Eska con Ashton Sanders, Tishuan Scott, Keston John Bill Oberst Jr., Christine Horn, Alfonso Freeman, Raven Nicole, Jonathan Brooks

Ormai si può certificare una piccola ma significativa tendenza in alcuni dei western prodotti in questo decennio ormai per metà già consumato. Una serie di film, spesso a basso costo, che mettono in scena situazioni ridotte all'osso con toni prosciugati e minimalisti e narrano storie di viaggio con ritmi lenti e anti-commerciali, spesso con un rifiuto o un disinteresse per l'iconografia classica del genere.

Ne è un buon esempio questo piccolo, ma interessante film indipendente dell'anno scorso.
Si racconta di due ex schiavi neri, un ragazzo e un adulto, che durante la guerra civile collaborano con una banda di cacciatori di disertori e schiavi fuggitivi, che i due  scovano e  tradiscono. Un giorno vengono incaricati dal mefistofelico capo della banda di andare tra le linee nordiste e attirare in trappola con una scusa un prezioso schiavo ricercato. Riusciranno nell'intento, ma durante il viaggio il ragazzo comincerà a vedere nell'uomo una figura paterna e il simbolo di  una dignità sconosciuta a lui e il compagno, a conti fatti comunque sempre "schiavi" di un bianco.



Per grande parte del film vediamo solo i protagonisti che camminano in mezzo splendidi paesaggi fatti di campi e boschi. Bellezza bucolica interrotta dai segni e dagli improvvisi squarci della violenza bellica (in una scena si addormentano e si risvegliano in mezzo ad una battaglia). Non è però un film poetizzante o vuotamente contemplativo. Il tono è asciutto, la bellezza delle immagini è priva di pomposità. Il ragazzo e il fuggitivo affrontano pericoli, fanno incontri, dialogano, raccontano, si conoscono in modo diretto ed efficace, non in modo molto diverso dai classici degli anni 50. I due protagonisti di questo film non sono "negri che vanno a cavallo" come il Django di Tarantino, sono realistici ex schiavi che se ne vanno in giro a piedi con vesti consunti, senza cinturoni e cappelli. Eppure, anche grazie alla rinuncia a molti cliché attoriali di molto cinema di colore, la loro caratterizzazione riesce a sfuggire alla trappola del realismo spoetizzante e a farli diventare personaggi fascinosi e allusivi, romanzeschi e "western".
La forza del film è in particolare il personaggio del ricercato, che pur nella sua umanità e fallibilità, diventa anche visivamente il simbolo di un'affascinante nobiltà "black". Merito anche della bella prova Tishuan Scott, faccia virile e aria seria da attore d'altri tempi.



I limiti del film sono una certa tendenza al didascalismo che rende la storia un po' prevedibile e l'esasperato protrarsi dei dubbi del ragazzo sul portare o meno a compimento il tradimento. Indecisione che alla lunga rischia di sembrare incoerente con quanto vediamo raccontato e che lo fa diventare un personaggio monocorde. Ma sono difetti che pesano poco nel conto finale, alla fine vince l'umanità dei personaggi, la bellezza poetica di molte sequenze, la solidità delle sequenze violente.

Nota a margine: possiamo star sicuri che questo film non arriverà mai in Italia, come del resto almeno altri due ottimi titoli usciti nel 2014 ("The Salvation" e "The Dark Valley" - qualche speranza in più per il capolavoro di Tommy Lee Jones "The Homesman", ma non stupirebbe più di tanto veder delusa anche questa attesa). In compenso abbiamo potuto godere della distribuzione di "Un milione di modi per morire nel West".

venerdì 19 dicembre 2014

Thousand Pieces of Gold / The Ballad of Little Jo

Continuando sul sentiero di Meek's Cutoff segnaliamo altre due interessanti pellicole dei primi anni 90 caratterizzate da uno sguardo femminile dietro la cinepresa.



1991 THOUSAND PIECES OF GOLD
di Nancy Kelly con Rosalind Chao, Chris Cooper, Michael Paul Chan, Dennis Dun, Beth Broderick

Figlia di una poverissima famiglia di contadini cinesi la bella Lalu viene data in moglie ad un connazionale immigrato in California. Ma giunta in America la poveretta scopre di essere stata invece venduta come prostituta da saloon in un paesino di minatori. Dovrà lottare per riscattare la propria libertà e mantenere la propria dignità. Alla fine un commerciante e scapolone bianco si innamorerà di lui e la sposerà. 
Ispirato a un omonimo romanzo di Ruthanne Lum McCunn e bastato sulla vera (e pare molto più prosaica) vita di Polly Bemis, oggi considerata una sorta di eroina del femminismo americano delle origini.

A dispetto di quel che si potrebbe immaginare dalla trama è un sobrio e persino raffinato film-tv, che evita sia le trappole del più facile melodramma romantico che quelle del parabola platealmente edificante. La storia è quella di un'affermazione di dignità e di una duplice crescita umana. Molto americana la parabola della protagonista, che partendo dalla condizione più sventurata conquista un'indipendenza e una dignità che le sarebbero state probabilmente negate nella terra natia. Più sfumata quella del protagonista maschile, che deve superare parecchi tabù sociali e personali, prima di accettare di essersi innamorato di una cinese.
Gran merito della riuscita del tutto va alla classe dei due attori protagonisti, due ottimi caratteristi raramente messi così in primo piano. Ad una prevedibilmente molto coinvolta Rosalind Chao fa da spalla il solitamente "cattivo" Chris Cooper, il cui aspetto massiccio e vagamente minaccioso è probabilmente uno dei motivi per cui la storia non scivola mai nel melenso.



I limiti sono quelli dell'autocensura televisiva che, se non edulcora troppo lo squallido scenario in cui la protagonista si trova a vivere, non può e non vuole spingersi troppo in là nella descrizione di quella che comunque resta una storia di prostituzione e schiavismo. Appare un po' troppo facile ad esempio il modo in cui la protagonista evita di "esercitare il mestiere": difficile credere che i minatori di un paesino dell'800 fossero in larga parte tutti così comprensivi e di buon cuore. Comunque il lieto fine personale viene adeguatamente inquinato da un finale molto amaro a livello sociale, con i protagonisti costretti a fuggire dal paese dove si è scatenato un folle linciaggio dei cinesi.

Nonostante tempi e luoghi siano quelli canonici, c'è davvero poca aria western. La distanza dal genere la si misura subito con il prologo ambientato addirittura in Cina, mentre il resto del film mette in scena un'ambientazione mineraria più alla London che da classico western.



1993 THE BALLAD OF LITTLE JO
di Maggie Greenwald con Suzy Amis, Bo Hopkins, Ian McKellen, David Chung, Heather Graham, René Auberjonois, Carrie Snodgress, Melissa Leo

Si racconta la storia incredibilmente vera di "Jo" Monaghan, un rispettato piccolo ranchero dell'Oregon che solo dopo la morte, avvenuta per cause naturali nel 1904, si scoprì essere una donna (Josephine). Nella realtà le motivazioni pare fossero principlamente economiche, quella di una donna in cerca di lavoro per sfuggire alla miseria che l'aveva costretta a far internare il suo unico figlio in un manicomio, nel film decide invece di vestirsi da uomo perché traumatizzata da un tentativo di stupro.



Storia interessante, confezione curata e rigorosa, ma a differenza del film precedente "The Ballad of Little Jo" soffre di un eccesso di realismo che finisce quasi per soffocare la narrazione. Quella raccontata è forse una storia troppo particolare per rappresentare qualcosa di diverso dal caso in sé o comunque gli autori non riescono ad andare oltre alla mera esposizione dei fatti.

In netto contrasto con la maggioranzai dei film che mettono al centro della storia delle cowgirl, in genere maschiacci che sanno farsi valere in un mondo di uomini, qui per tutto il tempo non vediamo altro che una poveretta infagottata nel suo travestimento, traumatizzata e autolesionista (si sfregia da sola), costretta per tutta la vita a negare la propria femminilità in un universo maschile in cui tutti gli uomini che la avvicinano, indipendentemente dalle intenzioni e amici o nemici che siano, finiscono per rivelare un'indole aggressiva e invasiva. L'unica nota di sollievo e unica concessione a un minimo di romanticismo è la pudica e segreta storia d'amore che la protagonista vive con un servo cinese, non a caso l'unico maschio del film non aggressivo (anzi decisamente passivo), mostrato a livello visivo con caratteristiche per l'epoca femminili, come i capelli lunghissimi e un forte senso dell'igiene.

Anche qui il western lo si prende piuttosto alla lontana, nonostante i costumi e ambientazione siano più canonici. L'unica sparatoria (e unica volta in cui la protagonista reagisce) è spoglia e totalmente priva di qualsiasi catarsi, a conferma del rigore anti-spettacolare persino eccessivo con cui la storia è raccontata.
Un tocco di classe il crudele e morboso finale: la protagonista viene trovata morta e la società misogina che la assediava può entrare nella sua intimità, svelare il suo segreto e disporre del suo corpo.

Lo stringente realismo della narrazione rende a tratti stridente la scelta come attrice protagonista di Suzy Amis, troppo bella per essere credibile nella parte di una donna che tutti credono un uomo, ma comunque abbastanza brava e intensa per far digerire il più delle volte la forzatura. Ottimo anche il resto del cast.

mercoledì 17 dicembre 2014

Meek's Cutoff



2010 MEEK’S CUTOFF
di Kelly Reichardt, con Michelle Williams, Rod Rondeaux, Bruce Greenwood, Will Patton, Shirley Henderson, Paul Dano, Zoe Kazan, Neal Huff, Tommy Nelson

Il film è ambientato lunga la famosa Oregon Trail e Meek's Cutoff è il nome della scorciatoia attraverso la quale nel 1845 la guida Stephen Meek condusse duecento carri e circa mille persone a perdersi nel bel mezzo del deserto dell’Oregon, da cui non tutti riuscirono ad uscire, episodio storico che ha ispirato il film della Reichardt, con la differenza che nel suo film i carri sono solamente tre e gli attori in scena sono nove contati.

Presentato anche al Festival di Venezia del 2010, è un piccolo western davvero atipico e fuori dagli schemi, diretto verosimilmente con un budget ridotto all’osso e in controtendenza sia rispetto al genere che a tutto il cinema contemporaneo: lentissimo e con pochissimi dialoghi, senza un morto e una singola scena di violenza. Un western esistenzialista e quasi herzoghiano, fatto soprattutto di silenzi e spazi vuoti, senza “paesaggismi” e tramonti alla Malick, ma con la raffigurazione di una natura arida, selvaggia e insensibile. Nonostante non succeda praticamente niente il film riesce a non annoiare e con il suo tono scarno, essenziale e minimalista trasmette un’idea del west più concreata e reale di molte altre viste al cinema. Il finale aperto contiene tutta una metafora sull’esistenza, vista come un lungo sentiero in cui si procede a casaccio senza punti di riferimento sperando di arrivare a qualcosa ma che verosimilmente non conduce verso nulla.
(Mauro Mihich)



Affrontando per la prima volta un film in costume e di genere, per quanto preso molto alla lontana, la regista Kelly Reichardt non tradisce il suo cinema ultra-indipendente e minimalista. È anzi ad oggi il suo film più riuscito, almeno insieme al bellissimo e toccante (e sempre delittuosamente inedito in Italia) Wendy e Lucy del 2008, che vede come protagonista ancora Michelle Williams. Attrice che diventata famosa per la serie "Dawson's Creek" è poi riuscita a costruirsi un'intelligente e ragionata carriera cinematografia, come raramente riescono a fare gli attori diventati noti grazie alla televisione. Per gli standard del cinema indipendente è un film quasi all star, considerato che presenta altre facce molto conosciute, se non proprio famose, come Paul Dano, Bruce Greenwood e Will Patton.

Ruba la scena a tutti però lo sconosciuto Rod Rondeaux, nella parte di un enigmatico indiano che i pionieri catturano e obbligano a fare da guida. Faccia davvero poco convenzionale, recitazione straniante (del resto Rondeaux è prima di tutto uno stuntman) il suo è uno degli indiani più autenticamente "alieni" mai visti sullo schermo. A differenza dello stereotipo è un gran chiaccherone, ma né i personaggi né gli spettatori possono o riescono a cogliere il senso di quello che dice. Raramente è stata visualizzata con tanta potenza lo sgomento e l'incomunicabilità che i veri pionieri dovevano provare quando incontravano un indiano.



Il fulcro del film è la contrapposizione tra una donna e un universo maschile, con il personaggio di Michelle Williams che porta nel film un punto di vista femminile positivo, la cui apertura e disponibilità entrano in conflitto con lo sguardo contaminato dalla diffidenza e dal desiderio di possesso degli uomini. Il tutto senza però facili generalizzazioni. Se il polo opposto della protagonista è il cialtrone e violento Meek (e in questo senso ogni tanto il personaggio rischia di trasformarsi in caricatura: l'unico vero limite del film), gli altri uomini della caravona si rivelano molto più ragionevoli e sensibili, a cominciare dal saggio e anziano marito della Williams, mentre chi più alimenta la paranoia e la tensione è proprio una delle altre donne, la più spaventata e fragile. La stessa figura dell'indiano, per quanto positiva, non è quella del banale Buon Selvaggio, ma conserva una dose di inquietante ambiguità.

Intelligente e in controtendenza anche l'idea di trovare il realismo più attraverso il tono  prosciugato della narrazione e delle immagini che non con una certosina ricostruzione storica, anzi costumi e carri sembrano e probabilmente sono semplici costumi e oggetti da parata e sagra di paese. Il che da vita ad un West spogliato da ogni traccia di colore e mito, ma comunque di grande e rarefatto fascino.



Minuscolo e prezioso gioiellino cinematografico, forse uno dei più interessanti titoli del decennio in corso anche al di fuori del genere, probabilmente ad oggi il miglior dei per altro rarissimi western diretti da una regista donna. Non a caso, nonostante la distribuzione limitata, sembra essere diventato un piccolo cult movie citato da più parti.

mercoledì 10 dicembre 2014

La banda di Jesse James



1972 LA BANDA DI JESSE JAMES (The Great Northfield Minnesota Raid)
di Philip Kaufman con Cliff Robertson, Robert Duvall, Luke Askew, R.G. Armstrong, Dana Elcar, Donald Moffat, John Pearce, Matt Clark, Wayne Sutherlin, Robert H. Harris, Elisha Cook Jr.

E chi se lo ricorda più Philip Kaufman? Del resto è solo una delle tante personalità dimenticate - appunto - del cinema americano pre-anni 80. Svantaggiato in particolare dal non aver mai legato, da regista, il suo nome ad un film realmente famoso, ma tutt'al più a qualche cult movie piuttosto di nicchia. C'è il rischio che il suo film più noto sia oggi uno dei suoi peggiori, "Sol levante", mentre è quasi una certezza che l'ormai brevissima memoria degli appassionati di cinema odierni leghi il suo nome più al primo film di Indiana Jones, di cui fu sceneggiatore, che alla sua carriera di regista. Che pure per vent'anni fu interessante e notevole. C'è da dire che anche lui ci ha messo del suo per farsi dimenticare, dirigendo titoli indifendibili come "Henry e June", il già citato "Sol levante" (che a dire il vero ha una prima parte molto interessante, prima di svaccare indecorosamente) o, quasi peggio, pellicole assolutamente anonime come "La tela dell'assassino".

Ma le prime due decadi di carriera furono ben altra storia. Dai due film indipendenti degli anni 60 influenzati dalle sperimentazioni della nouvelle vague Goldstein e Fearless Frank (esordio al cinema di Jon Voigt), alle cinque pellicole decisamente "New Hollywood" dirette tra il  '72 e '83: La banda di Jesse James oggetto di questo post, lo sfortunato apologo polare e satirico The White Dawn, il sottovalutato remake (che in realtà racconta tutta un'altra storia) de "L'invasione degli ultracorpi" Terrore dallo spazio profondo, il sovreccitato action teppistico The Wanderers e la bellissima elegia dei collaudatori di aerei Uomini veri.

Nel 1978 doveva dirigere anche Il texano dagli occhi di ghiaccio con Clint Eastwood, ma venne licenziato e sostituito dopo due settimane dall'ingombrante attore/regista. Se l'idea di Kaufman era di girare qualcosa di simile al suo western precedente, non viene difficile immaginare i motivi dello scontro tra i due autori.



Tra i tanti e forse troppi film dedicati al discutibile mito di Jesse James e della sua banda, La banda di Jesse James / The Great Northfield Minnesota Raid ne propone indiscutibilmente la versione più eccentrica. A cominciare dalla scelta di mettere al centro del film non i due fratelli James, ridotti praticamente a comprimari, ma piuttosto i loro complici, in particolare il Cole Younger interpretato da un intenso Cliff Robertson. Originale anche l'idea di concentrare la narrazione solo sulla disastrosa rapina alla banca di Northfield, che mise fine alle attività criminali della banda. Seguiamo quindi lo svagato viaggio della banda verso la cittadina, la loro permanenza e infiltrazione tra la popolazione, le allucinate sequenze della rapina e della fuga.

Kaufman sceglie un taglio grottesco e impressionista, ancora debitore del cinema francese, destrutturando il racconto con uno stile divagante e libero, che narrativamente preferisce i tempi morti e sembra procedere per libere associazioni, variando continuamente tono e atmosfere. Si passa ad esempio dai titoli di testa, che raccontano l'epopea dei James con la tecnica e la retorica roboante dei film classici, alla prima vera sequenza del film, in cui i due James discutono mentre cagano in una latrina, pulendosi il culo con i giornali che parlano di loro. Ma il film non procede per accostamenti sempre così didascalici, è anzi pieno di visioni e simboli misteriosi (Younger che continua a sognare degli enigmatici visi femminili), schegge improvvise di poesia (una prostituta che canta in un bordello una triste nenia slava), atmosfere surreali (il clima onirico nel bordello o in casa di una vecchietta in cui trova rifugio la banda) e trovate stranianti in un contesto western (come una rissosa partita di baseball agli albori). Sì passa dal comico al tragico anche all'interno della stessa sequenza, come quando dopo la rapina dei probi cittadini in cerca di giustizia impiccano quattro poveracci a caso sorpresi in un bordello.



Di grande effetto le esplosioni di violenza, debitrici tanto della secca durezza di un Arthur Penn quanto della caoticità di un Peckinpah (da notare che ben quattro attori del cast - Luke Askew, Matt Clark, Elisha Cook Jr., R. G. Armstrong - li si ritroverà l'anno dopo in Pat Garrett e Billy The Kid). Il pezzo di maggior effetto è ovviamente quello caotico, buffo e sanguinoso della rapina, ma lasciano il segno anche la strage iniziale davanti ad un bordello e la fulminea sequenza della cattura dei protagonisti.

Notevole l'intuizione di visualizzare la cittadina di Northfield come un simbolo di quel sviluppo meccanico e borghese che preannunciava la modernità e il grigiore del 900, in netto contrasto con il sud arcaico e contadino da cui proviene la banda dei James, dove ancora si aggirano streghe e gli uomini danno retta alle superstizioni: non a caso il Jesse James interpretato da un invasato Robert Duvall ha molto dei predicatori visionari (e cialtroni). Genialoide in particolare l'uso di un organetto a vapore, che casualmente durante la rapina diventa un precursore degli allarmi elettronici moderni. Il film destabilizza infatti anche da un punto di vista sonoro con una colonna sonora che mette insieme tradizione americana e europea, suggestioni psichedeliche e sonorità a tratti più da poliziesco moderno che da western.

Anche la recitazione è sovraccarica e sempre al limite, ma affidata ad un cast stratosferico, tanto per quanto riguarda gli attori di primo piano (ma è davero esistito un tempo in cui attori come Robertson e Duvall erano considerati di richiamo?) che le facce secondarie, una valanga di faccioni appartenenti ai migliori caratteristi di quegli anni.



Descritta l'originalità dell'approccio di Kaufman alla materia narrativa, va comunque sottolineato che l'atmosfera del film vuole e riesce a restare comunque all'interno del genere. Pur concedendo molto poco alle aspettative del pubblico è lo stesso un film che costruisce una sua stramba spettacolarità. Quella di un'opera che usa la ricerca di una messa in scena realistica per trovare la deformazione satirica, riuscendo a evocare  quelle atmosfere sature, vivide e allusive, che solo certo cinema americano degli anni 70 sembra aver avuto il potere di mettere su pellicola con tanta intensità.

domenica 7 dicembre 2014

The Tracker [1988]



1988 RICERCATO VIVO O MORTO (The Tracker / Dead or Alive)
di John Guillermin con Kris Kristofferson, Scott Wilson, Mark Moses, David Huddleston, John Quade, Don Swayze, Geoffrey Blake, Leon Rippy, Ernie Lively, Karen Kopins, Celia Xavier, Jennifer Snyder

Cupo e violento tv movie decisamente da recuperare.

Quattro balordi, tra cui uno squilibrato con manie religiose (Wilson), lasciano dietro di sé una lunga scia di sangue. Quando rapiscono una ragazza e una bambina, un anziano sceriffo chiede aiuto ad un ex-cercatore di tracce (Kristofferson). Nella caccia all'uomo li seguirà anche il figlio di quest'ultimo un avvocato appena tornato dall'est. Sarà un'ecatombe.  

La storia d'inseguimento e i personaggi sono tipici di molti western prodotti dalla tv americana negli ultimi trent'anni, in genere incentrati sul recupero di attori in là con gli anni e vecchie glorie sul viale del tramonto. Molto meno tipica la  cupezza del tono. A parte qualche dettaglio sanguinario (la banda di assassini lascia messaggi sui muri scritti con il sangue stile famiglia Manson), le scene di violenza sono risolte in modo asciutto e fuori campo, come nei film degli anni cinquanta, ma comunque la dose di nefandezze lasciate alla fantasia del pubblico è decisamente atipica per la tv dell'epoca, con un corollario di sgozzamenti, stupri e omicidi a sangue freddo che lascia decisamente il segno.



La trama e l'interazione tra i personaggi sono convenzionali e ampiamente prevedibili, ma è lo stesso notevole la messa in scena di un west spietato e senza giustizia, dove il Male pare essere di casa, gli innocenti subiscono di tutto e il minimo barlume di umanità contro il nemico può avere conseguenze tragiche.
La cruda parabola del film è vista dal punto di vista del giovane avvocato. Inizialmente sconcertato e incapace di adeguarsi ai metodi brutali che vede applicati dal padre, dovrà suo malgrado e a caro prezzo imparare la spietata lezione. Come in un certo cinema del decennio precedente, il film è attraversato da un interrogativo morale che continua a riproporsi in varie situazioni: i confini in cui può essere lecito e giustificato un omicidio a sangue freddo. L'amarissimo finale lascia protagonisti e spettatori con più dubbi che risposte.

Va da sé che Kristofferson nella parte del cercatore di piste è monumentale, una sorta di Clint Eastwood più malinconico e umano. Memorabile la sequenza in cui deve fare strage di una banda di cacciatore di taglie senza lasciare sopravvissuti. Nella parte dell'invasato capo degli assassini, un cattivo davvero inquietante e odioso, c'è invece Scott Wilson, un attore la cui carriera a cavallo degli anni 60 e 70 sembrava lanciatissima in ruoli di primo piano ("A sangue freddo", "Grissom gang", "Ardenne '44", "I temerari"), per poi essere progressivamente dimenticato, almeno fino ad oggi, visto che fa parte del cast della fortunatissima serie "Walking Dead". A far da contorno i familiari e mitologici faccioni di caratteristi enormi  (in tutti i sensi) come David Huddleston e John Quade. Un po' schiacciato dal confronto con i colleghi se la cava dignitosamente, nel ruolo del figlio di Kristofferson, Mark Moses, faccia frequente nei primi film di Oliver Stone.



È l'ultima regia della carriera del prolifico John Guillermin (oggi quasi novantenne), tuttofare del cinema che resterà negli annali per due film appartenenti più ai produttori che al regista: il classico catastrofico "L'inferno di cristallo" e  il famigerato remake di "King Kong" degli anni 70 con Jeff Bridges e Jessica Lange. Gli appassionati di western invece lo possono ricordare per il divertente El Condor. Non proprio un fulmine di guerra dunque. E infatti anche nel caso di quest'ultima opera la sua regia non ha particolari guizzi, limitandosi ad una narrazione corretta e anonima. Ma comunque nel respiro delle inquadrature si nota l'occhio del regista abituato all'ampiezza dello schermo cinematografico, piuttosto che alle ristrettezze televisive. D'altra parte il tutto è girato in spettacolari scenari naturali, tra cui la Monument Valley, non le classiche e spoglie location californiane di molti western a basso budget.

Da segnalare anche l'originale colonna sonora, fatta con tocchi di moderata elettronica, che invece di risultare fastidiosamente anacronistica, come altri tentativi simili, si amalgama bene col clima duro del racconto e contribuisce a far lievitare la tensione.

giovedì 4 dicembre 2014

Harry Tracy, un fuorilegge speciale



1982 HARRY TRACY, UN FUORILEGGE SPECIALE (Harry Tracy / Harry Tracy Desperado / Harry Tracy: The Last of the Wild Bunch)
di William A. Graham. Con Bruce Dern) di William A. Graham. Con Bruce Dern, Helen Shaver, Michael C. Gwynne, Gordon Lightfoot, Jacques Hubert

Un altro interessante western crepuscolare del 1982 da riscoprire. Anche questa una produzione canadese, che deve avere avuto qualche problema di distribuzione a giudicare dai molteplici titoli. Racconta con molte licenze gli ultimi anni di vita, dal dicembre del 1889 all'estate del 1902, di Harry Tracy, celebre fuorilegge che pare avesse fatto parte del mucchio selvaggio di Butch Cassidy e che divenne famoso per le sue evasioni e le sue fughe attraverso il nord-ovest americano. Il Tracy originale non assomigliava per nulla a Bruce Dern e pare fosse un sanguinario bestione che nulla aveva a che vedere con la versione romantica di questa pellicola.



Il film infatti tenta di riproporre la formula che tredici anni prima aveva fatto la fortuna di "Butch Cassidy", con quel suo mix di commedia, romanticismo e squarci di violenza. Ma il pur grandissimo Bruce Dern non ha certo il fascino di Paul Newman o Robert Redford e i tempi erano irrimediabilmente cambiati. Se vogliamo, questa pellicola è un ulteriore esempio di come il genere avesse imboccato una strada revisionista che ne aveva irrimediabilmente spostato i confini etici ed estetici. Anche in questo caso abbiamo un west paradossalmente trasfigurato dal realismo dei costumi e delle scenografie, e un protagonista totalmente antieroico, non particolarmente simpatico né particolarmente intelligente, che significativamente fa la sua prima comparsa mentre fugge nella neve in mutandoni. Un comune delinquente, comunque migliore della grigia e deprimente società che lo circonda, perché capace di slanci anche non razionali, come quando insegue la donna di cui è innamorato dopo una rapina, finendo per farsi catturare.



La prima mezz'ora picaresca, con Tracy che fugge, trova in un pittore morto di fame un complice, e ricomincia a rapinare treni e banche, è carina, ma sa di già visto e non ha decisamente la verve e dialoghi di un "Butch Cassidy". Il film trova la sua personalità nella seconda parte, più drammatica e violenta, con la fuga attraverso montagne, boschi e campagne di Tracy con la sua donna, una raffinata borghese innamorata di lui. L'atteggiamento indolente, quasi distratto e infine rassegnato, con cui il protagonista fugge ai suoi sempre più numerosi inseguitori dona un tono quasi poetico alla romantica fuga. La bella fotografia autunnale e la classe degli attori fanno il resto. Anche il televisivo Graham, regista convenzionale e didascalico, trova lampi di ispirazione nel bellissimo finale, con la morte di Tracy assediato in un campo di grano da decine di scagnozzi e la desolata tristezza della compagna che si allontana da sola, mentre sciacalli e fotografi (sullo sfondo del film si descrive la nascita della cronaca nera) dispongono a loro piacimento del cadavere di Tracy.

Giulio Questi 1924 - 2014



E' morto ieri a Roma Giulio Questi.
Regista, scrittore, critico e irriducibile appassionato di cinema, 90 anni compiuti il 18 marzo scorso. Nella sua pur lunga carriera cinematografica e televisiva, come regista aveva firmato solo tre film, la satira pop La morte ha fatto l'uovo e il maledetto e grottesco Arcana. Ma era soprattutto noto per la sua violentissima opera d'esordio, il western Se sei vivo spara. Un titolo a cui questo blog deve ovviamente qualcosa.