Continuando sul sentiero di Meek's Cutoff segnaliamo altre due interessanti pellicole dei primi anni 90 caratterizzate da uno sguardo femminile dietro la cinepresa.
1991 THOUSAND PIECES OF GOLD
di Nancy Kelly con Rosalind Chao, Chris Cooper, Michael Paul Chan, Dennis Dun, Beth Broderick
Figlia di una poverissima famiglia di contadini cinesi la bella Lalu viene data in moglie ad un connazionale immigrato in California. Ma giunta in America la poveretta scopre di essere stata invece venduta come prostituta da saloon in un paesino di minatori. Dovrà lottare per riscattare la propria libertà e mantenere la propria dignità. Alla fine un commerciante e scapolone bianco si innamorerà di lui e la sposerà.
Ispirato a un omonimo romanzo di Ruthanne Lum McCunn e bastato sulla vera (e pare molto più prosaica) vita di Polly Bemis, oggi considerata una sorta di eroina del femminismo americano delle origini.
A dispetto di quel che si potrebbe immaginare dalla trama è un sobrio e persino raffinato film-tv, che evita sia le trappole del più facile melodramma romantico che quelle del parabola platealmente edificante. La storia è quella di un'affermazione di dignità e di una duplice crescita umana. Molto americana la parabola della protagonista, che partendo dalla condizione più sventurata conquista un'indipendenza e una dignità che le sarebbero state probabilmente negate nella terra natia. Più sfumata quella del protagonista maschile, che deve superare parecchi tabù sociali e personali, prima di accettare di essersi innamorato di una cinese.
Gran merito della riuscita del tutto va alla classe dei due attori protagonisti, due ottimi caratteristi raramente messi così in primo piano. Ad una prevedibilmente molto coinvolta Rosalind Chao fa da spalla il solitamente "cattivo" Chris Cooper, il cui aspetto massiccio e vagamente minaccioso è probabilmente uno dei motivi per cui la storia non scivola mai nel melenso.
I limiti sono quelli dell'autocensura televisiva che, se non edulcora troppo lo squallido scenario in cui la protagonista si trova a vivere, non può e non vuole spingersi troppo in là nella descrizione di quella che comunque resta una storia di prostituzione e schiavismo. Appare un po' troppo facile ad esempio il modo in cui la protagonista evita di "esercitare il mestiere": difficile credere che i minatori di un paesino dell'800 fossero in larga parte tutti così comprensivi e di buon cuore. Comunque il lieto fine personale viene adeguatamente inquinato da un finale molto amaro a livello sociale, con i protagonisti costretti a fuggire dal paese dove si è scatenato un folle linciaggio dei cinesi.
Nonostante tempi e luoghi siano quelli canonici, c'è davvero poca aria western. La distanza dal genere la si misura subito con il prologo ambientato addirittura in Cina, mentre il resto del film mette in scena un'ambientazione mineraria più alla London che da classico western.
1993 THE BALLAD OF LITTLE JO
di Maggie Greenwald con Suzy Amis, Bo Hopkins, Ian McKellen, David Chung, Heather Graham, René Auberjonois, Carrie Snodgress, Melissa Leo
Si racconta la storia incredibilmente vera di "Jo" Monaghan, un rispettato piccolo ranchero dell'Oregon che solo dopo la morte, avvenuta per cause naturali nel 1904, si scoprì essere una donna (Josephine). Nella realtà le motivazioni pare fossero principlamente economiche, quella di una donna in cerca di lavoro per sfuggire alla miseria che l'aveva costretta a far internare il suo unico figlio in un manicomio, nel film decide invece di vestirsi da uomo perché traumatizzata da un tentativo di stupro.
Storia interessante, confezione curata e rigorosa, ma a differenza del film precedente "The Ballad of Little Jo" soffre di un eccesso di realismo che finisce quasi per soffocare la narrazione. Quella raccontata è forse una storia troppo particolare per rappresentare qualcosa di diverso dal caso in sé o comunque gli autori non riescono ad andare oltre alla mera esposizione dei fatti.
In netto contrasto con la maggioranzai dei film che mettono al centro della storia delle cowgirl, in genere maschiacci che sanno farsi valere in un mondo di uomini, qui per tutto il tempo non vediamo altro che una poveretta infagottata nel suo travestimento, traumatizzata e autolesionista (si sfregia da sola), costretta per tutta la vita a negare la propria femminilità in un universo maschile in cui tutti gli uomini che la avvicinano, indipendentemente dalle intenzioni e amici o nemici che siano, finiscono per rivelare un'indole aggressiva e invasiva. L'unica nota di sollievo e unica concessione a un minimo di romanticismo è la pudica e segreta storia d'amore che la protagonista vive con un servo cinese, non a caso l'unico maschio del film non aggressivo (anzi decisamente passivo), mostrato a livello visivo con caratteristiche per l'epoca femminili, come i capelli lunghissimi e un forte senso dell'igiene.
Anche qui il western lo si prende piuttosto alla lontana, nonostante i costumi e ambientazione siano più canonici. L'unica sparatoria (e unica volta in cui la protagonista reagisce) è spoglia e totalmente priva di qualsiasi catarsi, a conferma del rigore anti-spettacolare persino eccessivo con cui la storia è raccontata.
Un tocco di classe il crudele e morboso finale: la protagonista viene trovata morta e la società misogina che la assediava può entrare nella sua intimità, svelare il suo segreto e disporre del suo corpo.
Lo stringente realismo della narrazione rende a tratti stridente la scelta come attrice protagonista di Suzy Amis, troppo bella per essere credibile nella parte di una donna che tutti credono un uomo, ma comunque abbastanza brava e intensa per far digerire il più delle volte la forzatura. Ottimo anche il resto del cast.
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