sabato 7 aprile 2012

nuovi western - 2006

Western del 2006

Un altro anno piuttosto interessante, che vede il ritorno di un maestro del genere con un classico del western recente e la presenza di due pellicole perlomeno affascinanti, anche se decisamente non per tutti i gusti.


Broken Trail - Un viaggio pericoloso (Broken Trail)
di Walter Hill. Con Robert Duvall, Thomas Haden Church, Greta Scacchi, Gwendoline Yeo, Chris Mulkey

Quarto western di Walter Hill (il sesto contando anche il western moderno alla Peckinpah “Ricercati: ufficialmente morti” e l'hard-boiled ambientato nel West “Ancora vivo”), il primo libero dall'impegno, a volte limitante, del rispetto della cronaca storica e dall’ombra di ingombranti maestri da ossequiare. Anche in questo non mancano comunque omaggi e citazioni al passato glorioso del genere. Girando la sua opera più posata e classica, con i personaggi più normali mai visti in una sua pellicola, Hill realizza probabilmente uno dei suoi migliori film in generale. Una pellicola fuori dal tempo e da ogni moda, che di certo non lo ha riportato nelle grazie della maggioranza degli appassionati di cinema, che sembra averlo dimenticato, come del resto sembra aver dimenticato molti altri maestri del cinema degli anni 70 e 80, le cui opere sono ancora saccheggiatissime dal cinema odierno. E men che meno lo ha riportato nelle grazie dei produttori, infatti ad oggi, dopo sei anni, resta il suo ultimo film.


Anche se scriviamo “film” in realtà si tratta di una miniserie di due episodi da un'ora e mezza, ma che non ha niente di televisivo nel senso negativo del termine (tipo "Desolation Canyon" di cui scriviamo qui sotto), a cominciare da una sfolgorante fotografia dai larghi spazi e i colori caldi. Anzi, come capita sempre più spesso ai registi esiliati dal mondo sempre meno dorato del cinema, grazie alla committenza televisiva Hill ritrova la possibilità di raccontare una storia con il ritmo e i modi che si adeguano al narrato e non viceversa,  prendendosi tre ore per raccontare tutto con comodo, lasciandosi volentieri guidare dagli attori e permettendosi numerose divagazioni ironiche o intimiste, che spesso diventano poesia fordiana. Lo stile è quello composto e asciutto dei classici degli anni 50, gli attori hanno facce vere e vissute, le splendide scene d’azione sono secche e veloci. Il tutto va a comporre un affresco umano e avventuroso avvolgente ed epico, girato ad altezza uomo, come si diceva dei film di Hawks, Mann e di altri maestri classici.

La storia delle cinque prostitute cinesi salvate da due cowboy dal cuore d'oro, e il conseguente viaggio di liberazione e riscatto, era ad alto rischio di patetismo e retorica, ma è soprattutto a questo livello che entrano in gioco la classe e la sapienza cinematografica di Hill, che riesce a dare al tutto un tono laconico e disincantato, profondamente western. Tra gli attori giganteggia un umanissimo Duvall che rifà praticamente lo stesso personaggio di "Open Range". Ottimi anche il sottovalutato Thomas Haden Church, che qui sembra un James Coburn giovane, e una sofferta Greta Scacchi. Carine e simpatiche anche le cinque attrici cinesi. Tutte interpretazioni che è possibile gustare solo in originale dato che, ancora una volta, il doppiaggio italiano realizzato al risparmio è avvilente.

Non mancano, come si diceva, le esplicite citazioni di classici come "Ombre rosse" e "Il fiume rosso", oltre a qualche riferimento a Peckinpah sempre presente in Hill. Ma sono omaggi e richiami perfettamente inseriti nella trama, che non evocano quell'aria da cinema di fantasmi che impregnava, e comunque rendeva affascinanti, opere come "I cavalieri dalle lunghe ombre", "Wild Bill" e "Ancora vivo". È un western dall’aria antica, ma vivo.


Dicono di lui…

“Un vero e proprio film fiume (effettivamente la pazienza ci vuole tutta per arrivare in fondo), destinato alla televisione via cavo americana, l’ultimo lavoro di Walter Hill, quasi tre ore di western, con tanto di tempi morti, ed una storia che si prende tutto il suo tempo, probabilmente pure troppo. Un film fuori tempo massimo per come è raccontato, anomalo, ma gradevole. [...] Hill dimostra di possedere ancora un certo tocco, la storia non è affatto originale, ma il tempo (tanto) scorre ugualmente veloce, perché i personaggi sono delineati con cura. Certo sa di operazione retrò, non è perfetto, ma merita comunque un po’ di pazienza, anche perché Duvall, non butta mai via una scena con la sua presenza che sa di esperienza e gli scenari rappresentati in campo lungo riempiono spesso gli occhi. Non il massimo della vita obiettivamente, ma comunque un prodotto che merita un po’ di considerazione, appunto perché affronta un genere ed un mondo ormai completamente ignorato senza piegarsi alla modernità, anteponendo gli ideali al resto. Coraggioso. [...]”

"E se Walter Hill non riesce più a trovare spazio per raccontare le sue storia poco "rassicuranti" ecco che spuntano i grandi network televisivi che gli mettono a disposizione piccoli budget per proseguire "il suo grande cinema" fatto di sudore, sangue, lealtà, onore... caratteristiche che rispecchiano appieno le fasi salienti di questo film per la tv, questo grande western ipercrepuscolare, dove ormai i cowboy sopravvivano a se stessi e al loro mito, ma che comunque hanno ancora onore e saggezza da vendere. Un western, comunque, atipico negli stilemi e fuori dal dogma classico anche della rinnovata visione dagli anni '70 in poi, dove Hill inserisce all'interno del dogma delle varianti del tutto personali come ad esempio la composizione dello strano, ed inusuale, gruppo di protagonisti, dove accanto al "vaccaro" tutta saggezza ed amarezza e ad un nipote un po' testa calda ma dal cuore tenero inserisce un gruppo di cinesi destinate al mercato delle schiave e quindi alla prostituzione. [...] Una storia che non cerca altro che mettere in mostra uno stile di vita che non esiste più, ma non nelle modalità ma nell'anima... Quell'anima che Hill mette in Broken Trail... un lungo viaggio alla ricerca di un tempo che non esiste più..."


Seraphim Falls - Caccia spietata (Seraphim Falls)
di David Von Ancken. Con Liam Neeson, Pierce Brosnan, Anjelica Huston, Wes Studi

Un uomo (Pierce Brosnan) fugge tra montagne, praterie e deserti inseguito da un gruppo di individui guidati da un uomo (Liam Neeson) che vuole vendicarsi di qualcosa accaduto durante la guerra Civile. Scorrerà molto sangue e niente andrà come previsto.

Uno di quei film in cui furbizia e autentica ispirazione si intrecciano senza possibilità di distinzione. La tendenza al simbolico, alla metafora, al riferimento biblico può annoiare e infastidire quanto risultare profonda e accattivante a seconda delle aspettative. Anche sul piano dello stile il regista e sceneggiatore è abile nel soddisfare certe esigenze spettacolari, soprattutto attraverso alcune scene di violenza decisamente d’effetto, e allo stesso tempo nel creare sequenze ambigue e sfuggenti. Comunque di sicuro una pellicola che corre i suoi rischi, in cerca com'è di una sua originalità e che certo non sembra nata per soddisfare nessun tipo di pubblico in particolare. Probabile valvola di sfogo creativa di un prolifico regista di serie TV, qui ad oggi al suo unico lungometraggio per il cinema.


Nonostante la sua ambiguità, o forse proprio per questo, è un film notevole, che evita molti luoghi comuni del cinema alternativo odierno (non è un titolo da Sundance Film Festival, per capirci), che può contare sul tono felicemente imprevedibile della storia e che mette in scena personaggi affascinanti ed imperscrutabili. Parte come un gran film d'inseguimento, crudo e violento, prosegue come un western metafisico, in cui i protagonisti fanno bizzarri e spiazzanti incontri, si conclude in un'atmosfera allucinata e onirica. Il riferimento principale sembrano essere i western allegorici e criptici di Monte Hellman, soprattutto “La sparatoria”, anche se Von Ancken non possiede lo stile prosciugato e visionario di Hellman e in confronto a quei film il suo risulta molto più abituale e canonico, soprattutto a livello di confezione. In questo senso più convenzionali del dovuto risultano i flashback durante la guerra civile, dal sapore troppo "spaghetti western" e la tendenza a mostrare quello che era forse meglio lasciare all'immaginazione degli spettatori. Ma il tono da ballata misteriosa e allusiva regge bene per tutto il resto del film. 

Non sempre a fuoco ma comunque in parte Pierce Brosnan, forse aiutato dal pizzo che gli leva l’aria sempre un po’ da manichino (e lo rende uguale a Kit Carson, il pard di Tex Willer), ottimo anche l’implacabile Liam Neeson e perfetti tutti i comprimari, tra cui si ritaglia la solita parte da maniaco Michael Wincott, il cattivo de "Il corvo" e "Strange Days". Il finale allucinato è impreziosito dalle apparizione sulfuree di un enigmatico Wes Studi, sorta di Caronte indiano, e di un'inquietante Anjelica Huston, maliarda e ciarlatana con il carrozzone, una delle apparizioni più criptiche del film.


Dicono di lui…

"Archetipi e simboli solenni sfilano in parata in "Seraphim Falls", un affascinante vecchio western di poche parole e allo stesso tempo una pesante elucubrazione che si sviluppa con la pomposità di una bigotta allegoria biblica. In questo dramma accademico, di vendetta e perdono, ambientato nel 1868, Pierce Brosnan e Liam Neeson sono soldati che hanno combattuto sui lati opposti della guerra civile e sono ora impegnati in un inseguimento mortale che li porta dai monti del Nevada ad uno scontro finale nel deserto. [...] È chiaro in ogni sequenza che "Seraphim Falls" ha tutti i geni del classico western nel suo DNA. Ma non si scioglie mai abbastanza, preso com’è a convincerci che Carver e Gideon sono le pedine di una più ambiziosa allegoria. E quando arriva il momento critico per il film di svelare il nocciolo della questione, si vira sul pretenzioso, sul gioco di prestigio surreale. [...] Il suo elemento più forte è la maestosa austeritò della fotografia John Toll ("Braveheart", "La sottile linea rossa"), in cui la severa bellezza del paesaggio western sovrasta i personaggi come un rimprovero silenzioso."
(Stephen Holden, “New York Times”, 26/1/2007)

“Pareva un fondo di magazzino e invece è una mirabile rapsodia della violenza che lascia il segno. È uscito in sordina senza manco i flani, in una manciata di sale in tutto, in ritardo (è del 2006), con un titolo da fondo di magazzino action anni 80, magari con Chuck Norris e tagliato di 20 minuti. Epperò è un film di quelli che lasciano il segno, un western duro e puro, sanguigno e sanguinante, appassionante come pochi. [...] Nessuno dimentica, difficile dire chi è buono e chi è cattivo. Non è tempo d’eroi. Resta la forza primordiale della natura che non fa sconti, costringe ad arrivare all’essenza di se stessi anche per trovare la forza di scaldarsi le mani congelate nelle budella di un cadavere ancora caldo. Produce Mel Gibson, dirige un giovinastro che viene da Californication, The Shield, CSI: NY. Rapsodia della violenza, realistica, cannibalica, mai banale né gratuita. [...]”


Summer Love
diPiotr Uklanski, con Val Kilmer, Boguslaw Linda, Karel Roden, Katarzyna Figura, Anna Baniowska, Marek Barbasiewicz

Il discorso fatto per "Seraphim Falls" sulla fumosità dei contenuti di un'opera è applicabile all’ennesima potenza per questa incredibile oggetto cinematografico: "Pubblicizzato come “il primo western polacco” è un folle esperimento del famoso (ma non in Italia) artista visuale Piotr Uklanski, che, da appassionatissimo del genere, tenta la strada del western allegorico e concettuale."

Un film “d’arte” più vicino al concetto di video installazione che non una pellicola indirizzata ad un pubblico canonico, sia pure d'essai. Eppure è senza dubbio un western ed è indubbia l'efficacia con cui vengono riprodotti lo stile trasandato e “libero”, i colori granulosi e l’aria dimessa dei più poveri spaghetti western degli anni 60 e 70, imitati perfino nello stile delle scritte dei titoli di testa. Più dubbia la capacità di usare questo materiale per dire qualcosa di nuovo, dato che i vezzi anti-narrativi e i simboli stranianti che costellano l’opera sanno spesso di già visto e già detto. A meno che l’intenzione non fosse anche quella di riprodurre, e in un certo senso parodiare, certi vezzi del cinema sperimentale e d’autore sempre degli anni 60 e 70. In effetti un paio di lunghi ed estenuanti monologhi verso la fine (in un film in cui gli attori più che altro mugugnano monosillabi) sono la ripresa di un tale usurato luogo comune del cinema più artistoide di quegli anni che la caricatura sembra dietro l’angolo. È del resto molto probabile che il film sia ricco di riferimenti politici e sociali sulla Polonia che rimangono del tutto oscuri allo spettatore occidentale. Ad ogni modo sono i momenti western i più riusciti, con lo stile sospeso ed ellittico del regista che riesce a creare momenti suggestivi ed interessanti.

"In un Far West spettrale e popolato da figure-archetipo (lo Straniero, lo Sceriffo, il Morto...) un gruppo di uomini si contende ferocemente la taglia di un bandito ucciso e le grazie di una donna (una sfioritissima Kasia Figura). Lento ai limiti dell’agonia e con pochissimo ritmo, nonostante la notevole dose di sangue e sadismo, raffigurata però in una maniera strana e quasi astratta, con follie di regia come inquadrature dagli occhi di un morto o da dentro la canna di una pistola. Pochi, invece, i dialoghi, pronunciati peraltro in un inglese stentato e piuttosto improbabile. Singolare l’ambientazione, interamente polacca, e molto suggestive alcune immagini. Niente male nemmeno la colonna sonora. C’è addirittura una star hollywoodiana come Val Kilmer, anche se non pronuncia una parola per tutto il film (interpreta il morto). Il Giusti nel suo dizionario lo definisce un via di mezzo tra un film d’arte e un western di Demofilo Fidani. Aggiungerei una sorta di ibrido tra "Dead Man" e "Matalo!", con la differenza che se certi esperimenti surrealisti li faceva Canevari negli anni settanta veniva guardato con disprezzo, mentre Uklanski lo proiettano al Whitney Museum di New York. Indubbiamente poco riuscito, ma tutto sommato curioso e con un suo fascino." (Mauro Mihich)


Dicono di lui…

"[...] A dire la verità ci mancava un western polacco: non nel senso che ne sentissimo la mancanza, bensì che non ne avevamo mai visto uno. Le note di produzione strombazzano comunque questo Summer Love come il primo film del genere sorto negli studios del paese di Zanussi e Polanski; in effetti grossomodo a queste latitudini ricordiamo alcune parodie cecoslovacche d’annata e soprattutto una bella coproduzione ceco-polacca (Bisogna uccidere Sekal, di Vladimir Michalek, 1998) che si rifaceva all’estetica western e fra l’altro condivideva con questa pellicola l’attore principale, Boguslaw Linda. [...] un’operazione di stranita riproposizione dei luoghi comuni del western [...] il tutto rallentato, anzi “ipnotizzato” in un ritmo che non si comprende se sia volontariamente sornione e mescalinico, o sia semplicemente dovuto alla incapacità del regista esordiente di dare i tempi giusti a una vicenda fin troppo diluita. [...] Lo stesso autore di questa a tratti sconcertante rivisitazione della frontiera spostata ad est si è cautelato dicendo di non avere in mente né una pura parodia né un classico fuori tempo massimo che rispetti le regole del genere; a dire il vero però si fatica a ritrovare sullo schermo il suo intento dichiarato di fare “un film allegorico che usa il linguaggio codificato del Western per affrontare l’identità etnica e l’autenticità culturale” in quanto problemi della contemporaneità. A noi questo sembra piuttosto uno di quei classici film freak della cinematografia mondiale che entrerà di diritto fra le chicche enciclopediche per cast e trash involontario. Nonostante tutto: a tratti divertente.


Bandidas
di Joachim Roenning e Espen Sandberg, con Penelope Cruz, Salma Hayek, Steve Zahn, Dwight Yoakam, Sam Shepard

Fallimentare e costoso capriccio delle due star latine del cinema hollywoodiano, la messicana Selma Hayek e la spagnola Penelope Cruz. In altre occasioni due piccolette molto sexy, ma in questo caso due insopportabili oche che per tutto il film non fanno che battibeccare in siparietti che vorrebbero essere simpatici e brillanti e finiscono per essere solo imbarazzanti. È persino inquietante notare che nonostante tutti i soldi spesi e la confezione patinata il risultato vada a parare dalle parti dei più sgangherati e raffazzonati western comicaroli italiani degli anni 70, che almeno avevano la scusa di essere girati con budget da morti di fame. Identiche infatti la mancanza di una qualsiasi atmosfera western ancorché virata al comico, l'ironia infantile e mortificante, la trama senza fili e piena di insensati scarti di tono. Si passa da trucidi massacri compiuti dal cattivo nerovestito, a sequenze come quella delle due protagoniste che si allenano per diventare rapinatrici come fosse uno sport (probabilmente la trovata più avvilente del film, davvero degna del “fagioli western” più improvvisato) o, ancora, da scenette in cui la Cruz conversa con la sua cavalla intelligente in puro stile “Francis il mulo parlante”, ad altre in cui la Hayek tira fuori pistolotti sull’arroganza politica ed economica degli yankee. (Anche se alla fine il banchiere americano è un onesto brav'uomo e il corrotto è il governatore messicano.) Vien da chiedersi se, tra i tutti i soldi buttati via per un’operazione del genere, non valesse la pena dirottarne una manciata per assoldare uno sceneggiatore con un minimo di sale in zucca. Magari risparmiando qualcosa sugli improbabili, pacchiani e immagino griffatissimi costumi da cowgirls sfoggiati dalle due attrici.


Dicono di lui…

“Vacua sciocchezzuola diretta da due registi pubblicitari norvegesi, interpretata da due star latine e scritta e prodotta dal Ridley Scott europeo, Luc Besson, uno che con la sua Europacorp batte la strada del blockbuster d’azione autoctono e ad encefalogramma piatto e che sembra averci preso gusto a banalizzare generi e categorie. In questo caso se la prende con il western, nei confronti del quale dimostrava molto più riguardo perfino il peggior film di Eduardo Mulargia. Detto che, comunque, il western al femminile al cinema non ha quasi mai funzionato (ricordo con piacere solo La texana e i fratelli Penitenza), i due registi dirigono con lo stile di uno spot della Heineken, sprecando un grandissimo apparato tecnico (Thierry Arbogast alla fotografia, Éric Serra alla colonna sonora) e le belle locations messicane con una commediola innocua e spompata, giustamente massacrata dalla critica e accuratamente evitata dal pubblico. C’è addirittura, tra le righe, un messaggio anti-capitalista e filo-messicano degno davvero di miglior palco e che mal si addice all’estetica tutta americana del film (sarebbe stato molto più centrato, ad esempio, se il film fosse stato girato in Spagna e diretto come uno Spaghetti Western). Vengono buttati nella mischia anche un paio di bravi attori come Sam Shepard, che fa la delirante parte del trainer delle protagoniste, e il cantante country Dwight Yoakam, invero piuttosto efficace come cattivo. Va da sé, quindi, che l’unico motivo di interesse, soprattutto per gli amanti delle cowgirls, siano le due stragnocche protagoniste, la spagnola Penélope Cruz e la messicana Salma Hayek, che sembrano peraltro piuttosto in sintonia tra loro, anche se da star hollywoodiane (quasi) di prima grandezza ovviamente stanno vestite per tutto il film e sfruttano al minimo la loro carica sexy. La loro porca figura, comunque, la fanno lo stesso.”
(Mauro Mihich)

“[...] Pur ritrovandosi Cruz e Lopez[?] come protagoniste, il film non sfrutta benissimo questa fortuna. Come momento indicativo si può considerare quello che vede Zahn legato al letto totalmente nudo in preda alle bandidas: è l'inizio di una competizione fra le due belle per decidere chi sia più seducente, a cominciare da come usano le labbra, ma l'unico – poco – divertimento è solo quello sprigionato naturalmente da loro. A questo possiamo forse aggiungere il divertimento insito nel vedere la stramba parrucca che Dwight Yoakam si ritrova in testa. [...]”

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(Stefano Disegni)


Desolation Canyon
di David S. Cass Sr., con Stacy Keach, Patrick Duffy, Kenny Johnson, Kelly Overton, A Martinez

Uno sceriffo (Patrick Duffy, il sempre inespressivo Bobby di "Dallas") insegue quattro fuorilegge, che oltre a rapinare la banca hanno anche rapito un bambino, figlio del capobanda. Ad accompagnarlo anche un pistolero in ritiro (Stacy Keach, che per quanto annoiato, col panzone e un orrendo zazzerone, è l'unico che non sembri capitato su un set western per caso), che è a sua volta padre del capobanda e quindi nonno del bambino.

David S. Cass Senior è un prolifico tuttofare specializzato in western televisivi a bassissimo costo. Regista, attore, sceneggiatore, produttore: fa di tutto. E lo fa male. Perché anche considerando il fatto che i suoi film sono probabilmente indirizzati ad un pubblico di famiglie e di persone anziane (quest'ultimo un target molto ambito dalle tv americane), non si può fare a meno di ritenerli di una noia assolutamente micidiale. Già regista western nel 2002 della miniserie "La guerra di Johnson County" (e considerando quanto riesce ad annoiare con i suoi filmetti di un'ora e venti, non osiamo immaginare cosa possa aver fatto con a disposizione quattro ore), ha diretto anche il soporifero e melenso "Il sentiero per Hope Rose". Questo almeno è un western vero. O meglio, c'è della gente vestita da cowboy, che dice banalità che dovrebbero essere da western e si aggira tra i sempre affascinanti paesaggi dell’ovest americano. Peccato che praticamente faccia solo quello. Infatti dopo la rapina iniziale per tutto il film vediamo solo gente che cavalca e parla o in alternativa che si accampa e parla. E continua a parlare anche nelle sole due sparatorie di tutto il film. Come se non bastasse la mancanza d’azione, il film ci propina delle caratterizzazioni dei personaggi di una insulsaggine sconcertante e un’indigesta e fuori luogo dose di buoni sentimenti, a base di bambini coraggiosi, mamme apprensive, cattivi che si redimono all’ultimo minuto e cacciatori di taglie compassionevoli. In confronto un qualsiasi episodio di Rin Tin Tin rischia di apparire più realistico e crudo.

Dicono di lui…
"È un western molto ben fatto. La trama è interessante e gli attori Patrick Duffy e Stacey Keach legano bene a livello chimico sullo schermo. [...] I personaggi sono interessanti, in particolare i due protagonisti. Lo sceriffo Swede è appassionato di piccoli detti, come "Quando un uomo arriva al secondo posto in una sparatoria, non potrà vantarsene" e "Può non piacerti la verità, ma questo non la cambia.” Consigliato anche ai ragazzi di dodici anni, soprattutto perché c'è sì una certa violenza, ma poco sangue. Anche il linguaggio è pulito."
("MovieReview", 7/1/2006)

Scusi, dov’è il west?


The New World
di Terrence Malick. Con Q'Orianka Kilcher, Christian Bale, Jason Aaron Baca, Colin Farrell, Ben Mendelsohn, David Thewlis, Christopher Plummer

La leggenda di Pochahontas (il cui nome per altro non viene mai citato) raccontata come fosse un poema epico e con le cadenze di una sinfonia classica più che di un film. Comunque di sicuro non un film western, nonostante una suggestiva parata di pellerossa come non si vedeva da “L’ultimo dei Mohicani” di Michael Mann. Tra cui un totemico Wes Studi, protagonista di alcune affascinanti sequenze nell'Inghilterra del 600 dove si aggira per giardini e cattedrali, e la principessa indiana più credibile mai vista, una luminosa e giovanissima Q'Orianka Kilcher, classe 1990, i cui impegni di attrice sono secondari rispetto alla sua attività come attivista per i diritti umani. È la storia della perdita di un paradiso naturale e spirituale, dovuta all’incapacità dell’uomo civilizzato di guardare il mondo con il necessario stupore. Il solito Malick, variamente ammirato e detestato, sicuramente inconfondibile.

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