giovedì 28 giugno 2012

gli attori 3 - Marlon Brando

MARLON BRANDO
Il tormentato West di un grande inquieto



"forse Marlon Brando sarà là davanti al fuoco
ci siederemo e parleremo di Hollywood
e delle buone cose da prendere in prestito
dell'Astrodome e del primo teepee
Marlon Brando, Pocahontas e io"
(Neil Young "Pocahontas", 1978)


Se Marlon Brando è stato uno dei più grandi divi della storia del cinema non lo deve certo ai suoi ruoli western. Le poche pellicole che interpretò nel genere furono infatti dei clamorosi disastri commerciali. Eppure era un genere che amava molto, tanto che è stato proprio un western l'unica pellicola da lui anche diretta. Ripercorriamo i ruoli che lo portarono nel west o in quei dintorni, puntando l'obbiettivo soprattutto sui due film che, direttamente ("I due volti della vendetta") o indirettamente ("A sud-ovest di Sonora"), si possono dire più suoi.

1952 VIVA ZAPATA!
di Elia Kazan con Marlon Brando, Jean Peters, Anthony Quinn, Joseph Wiseman, Arnold Moss

Sceneggiato nientemeno che da John Steinbeck, è un turgido e introspettivo dramma sociale, con un Brando super-macho già entrato nel mito l'anno prima per il suo Kowalski (e la sua canottiera) in "Un tram che si chiama Desiderio", sempre diretto da Kazan. Brando che interpreta il leader rivoluzionario come un personaggio shakespeariano, con dei baffi ridicoli e truccato da messicano è il massimo della faccia tosta hollywoodiana di quegli anni. Quindi insopportabile o affascinante a seconda di quanto si riesce a prenderlo sul serio.

Pur non essendo un vero western, insieme a "Viva Villa!" del '34 (prodotto come questo da Zanuk), "Viva Zapata!" sarà il film più saccheggiato dai tortilla western italiani. Alcune scene, come quella dei peones che corrono in aiuto di Zapata arrestato dai rurales o come quella delle donne che fanno saltare il portone del forte, sembrano uscire da un film di Sergio Corbucci. In particolar modo i personaggi del rivoluzionario canagliesco (Anthony Quinn) e quello dell'intellettuale gelido, che manovra e tradisce a seconda dei suoi interessi, sono i primi abbozzi della coppia del messicano cialtrone e del gringo professionista che si ritroverà in praticamente tutti i western rivoluzionari nostrani. La bella scena dell'omicidio di Madero sotto la pioggia doveva avercela ben presente anche Leone quando girava "Giù la testa!". Mai più ripresa invece la bella idea di descrivere i potenti non come despoti crudeli, ma come melliflue figure paterne.

Quella volta che Sam Peckinpah e Stanley Kubrick quasi…


La storia della realizzazione del primo vero western e dell'unico film come regista di Brando è già di suo un film, basterebbe anche solo dire che andò molto vicino ad essere un'opera basata su una sceneggiatura di Sam Peckinpah e diretta da Stanley Kubrick. Va anche detto che della storia produttiva di questo film esistono infinite versioni spesso assolutamente contraddittorie tra di loro, di cui qui abbiamo tentato di fare una sintesi.  

L’idea del film pare sia nata da un soggetto dello stesso Brando, tratto da un romanzo di cui aveva comprato i diritti "The Authentic Death of Hendry Jones" di Charles Neider (ironica allusione alla biografia "The authentic life of Billy the Kid" scritta nientemeno che da Pat Garrett). Pare che fin dall'inizio Brando avesse intenzione di esserne anche il regista, ma nella rigida divisione dei ruoli della Hollywood degli anni 50 non era così facile neanche per un divo passare dall'altra parte della macchina da presa. Una differenza non da poco che si trova in altre versioni della vicenda è che Brando avesse assunto il compito di regista controvoglia, solo quando la produzione del film era arrivata con l'acqua alla gola. Comunque, sia stato per mettere alle strette la produzione e diventare regista, sia stato solo per via della sua caotica personalità, il fatto è che attorno a Brando iniziò un carosello di sceneggiatori e potenziali registi che uno dopo l'altro gettarono la spugna, di fronte alle infinite discussioni e litigi che dovevano sostenere con l'attore. Brando arrivò da solo ad una scrittura quasi completa del copione durante la sua permanenza in Giappone, mentre girava film come "La casa da tè alla luna d'agosto" e "Sayonara ". L'influenza della cultura orientale si rivelerà fondamentale per il film. Nel 1957, tornato Brando in America, la sceneggiatura finì nella mani di Sam Peckinpah, allora
sceneggiatore televisivo agli inizi di carriera, che ne scrisse un ulteriore trattamento. Dopo che erano stati caldeggiati - tra i tanti - i nomi di autori come Elia Kazan e Sidney Lumet, il regista scelto dalla produzione a quel punto era il giovane Stanley Kubrick.

Nonostante avesse girato solo tre film, Kubrick era già noto per il carattere glaciale e per il controllo assoluto che riusciva ad esercitare sui suoi set. Un osso duro anche per un attore come Brando, perennemente in attrito con i registi che lo dirigevano. Con un modo di fare a lui consueto, l'attore tentò di prendere per sfinimento Kubrick, costringendo lui e lo sceneggiatore Calder Willingham ad interminabili discussioni sul film, scoprendo però che il regista era ancora più maniacale e ossessionato dai dettagli di lui. La situazione di stallo che si era venuta a creare pare si risolse in modo decisamente comico e sconcertante. Dal suo viaggio in Giappone Brando era tornato innamorato dalla cultura giapponese e aveva arredato casa sua di conseguenza, per cui le discussioni con Kubrick si svolgevano stando seduti sul pavimento in perfetto stile nipponico. Un giorno, per mettere ulteriormente in imbarazzo il regista, Brando si presentò con una corta vestaglia orientale e sotto niente altro. Quando Brando si sedette a gambe incrociate davanti a lui, mettendo in bella mostra quello che aveva da mostrare, la reazione di un imperturbabile Kubrick fu semplicemente chiedere "Marlon, stai cercando di dirmi qualcosa?". Al che finalmente l'attore confessò il suo desiderio di essere lui stesso il regista del film. Kubrick alla fine rinunciò serenamente al progetto, anche perché aveva delle perplessità a vedersi alle prese con il western.


Difficile capire se sia restato qualcosa delle lunghe discussioni dell’attore con Kubrick. Sarebbe facile vedere nel ritmo lento del film, nella ricercata composizione delle immagini e nel tono a volte distaccato della narrazione un'influenza del regista di "2001 Odissea nello spazio". Ma è più probabile che tali aspetti Brando li avesse mutuati piuttosto dall’amato cinema giapponese. D’altra parte sono soluzioni formali che nel cinema di Kubrick emergeranno soprattutto a cominciare da "Spartacus", che è proprio il film che andrà a dirigere dopo aver rinunciato al film con Brando. Resterà per sempre il rimpianto che un regista del calibro di Kubrick non si sia confrontato anche con il genere western.

Dopo l’abbandono di Kubrick la preparazione del film era costata già troppi soldi per poter rimandare ancora l'inizio delle riprese, quindi i produttori consentirono a Brando di esserne anche il regista. O l'attore accettò per salvare la produzione come vogliono altre versioni. Brando riprese la sceneggiatura elaborata da lui stesso in Giappone, tenendo pare solo due scene  del trattamento scritto da Peckinpah, litigò anche con l'ultimo sceneggiatore incaricato dalla produzione di concludere una volta per tutte la stesura del copione (Guy Trosper) e iniziò le riprese nel dicembre del 1958. Sarà l’inizio di un delirio. Le riprese sarebbero dovuto durare due mesi, tra una cosa e l’altra durarono il triplo e si spalmarono nell’arco di due anni. I costi lievitarono a proporzioni da kolossal, sia per l'ossessività di Brando come regista, sia a causa della perdita di molti metri di pellicola, con conseguenti scene che dovettero essere rigirate rimettendo insieme il cast un anno e mezzo dopo la fine ufficiale delle riprese. 


La fine delle riprese non fu certo la fine delle tribolazioni del film. Brando fece stampare 35 ore di proiezione e iniziò un’interminabile opera di montaggio. Dopo quasi un anno se ne uscì con un film dalla durata di 4 ore e 42 minuti. A quel punto la produzione intervenne imponendo tagli che ridussero la durata della pellicola esattamente della metà e con un finale diverso a quello pensato da Brando. Costato 6 milioni di dollari il film uscì nel marzo 1961, cioè proprio in un periodo di grave crisi del western americano nella sale, finendo per incassare 4 milioni. Anche se il film diventerà un'opera di un certo culto e sarà ridistribuito varie volte in giro per il mondo, facile comprendere perché fu la prima ed ultima opera di Brando come regista.

1961 I DUE VOLTI DELLA VENDETTA (One-Eyed Jacks)
di Marlon Brando con Marlon Brando, Karl Malden, Pina Pellicer, Katy Jurado, Ben Johnson, Larry Duran, Slim Pickens

Western inclassificabile, affascinante e maledetto come il suo autore, "I due volti della vendetta" è il classico caso di grande film malato, una di quelle opere che ammaliano anche grazie ai loro difetti e squilibri. Caratterizzato da un ritmo lentissimo, ispirato al cinema e al teatro orientale, ogni scena è carica di una sorta di tensione cerimoniale, magnetica ed estenuante al tempo stesso. Per contrasto le poche scene d’azione sono invece veloci e brucianti, decisamente avanti in quei tempi per realismo e crudezza, come la fulminea e brutale sequenza della rapina in banca in cui muore anche una ragazzina.


Nonostante fosse visibilmente in sovrappeso Brando riesce a dare vita al suo tipico personaggio ombroso e seducente, una specie di Amleto nel far west, dalla personalità aggrovigliata e con tendenze masochiste, spesso vestito di nero e con poncho messicani indossati come fossero mantelli regali. Il suo Rio è un personaggio indecifrabile, su cui lo spettatore non riesce mai ad avere le idee chiare, come del resto anche riguardo agli altri personaggi.


Chissà quanto la mancanza di un chiaro giudizio morale sui personaggi può essere attribuita all'influenza di Peckinpah. Nonostante Peckinpah dichiarasse che del suo trattamento non era rimasto praticamente nulla, non si può non notare che il film di Brando anticipa parecchi elementi, personaggi e situazioni dei suoi futuri western, con ben tre attori che saranno cari al suo cinema come Katy Jurado, Ben Johnson, Slim Pickens, alle prese con personaggi del tutto simili a quelli che ritroveremo nei suoi film. Oltre al rifiuto di una divisione manichea dei personaggi, tipico di Peckinpah c’è il montare irrazionale e casuale della violenza, le atmosfere sature e cariche di foschi presagi e quella specie di sguardo attonito che i suoi personaggi hanno spesso di fronte alla morte. In questo senso bellissima la crudele sequenza della morte dell'amico messicano di Rio, ucciso a sangue freddo da Ben Johnson. 


Come molti attori che passano dietro alla cinepresa, Brando mostra una sensibilità particolare nel dirigere i colleghi e ottiene da tutto il suo cast - del resto straordinario - delle interpretazioni memorabili. A cominciare ovviamente da Karl Malden, perfetto nella parte del mellifluo Dad, un meschino traditore non privo però di sfumature umane. Particolarmente forte fu la scelta di Brando di mettere nella parte della ragazza messicana di cui si innamora il suo personaggio, non la classica attrice americana truccata come era la regola allora ad Hollywood, ma una vera attrice messicana. È la minuta e spigolosa Pina Pellicer, tutt’altro che una bellezza canonica, che dona al suo personaggio un'intensa e malinconica luminosità. Purtroppo l'attrice morirà suicida pochi anni dopo a soli trent'anni, diventando una figura di culto in Messico.


Il film ha un'aria eccentrica, con Brando che riempie il suo west di particolari bizzarri. Il film si apre con il suo personaggio che con fare indolente mangia delle banane e giochicchia con una bilancia durante una rapina in banca, e si chiude con un duello finale tra Brando e Malden dove i due personaggi invece di affrontarsi a viso aperto, come nella classica iconografia del genere, si nascondono dietro ad una fontana. Ma soprattutto è il caso più unico che raro di un western girato in riva all’oceano, il che da al tutto un'atmosfera strana e surreale.

Visivamente il film è splendido. La straordinaria fotografia di Charles Lang ritrae un west ventoso e iperrealistico, dove cavalli e pallottole sollevano nubi di polvere e gli alberi in riva all’oceano sembrano usciti da stampe giapponesi. Da lustrarsi gli occhi anche le costosissime scenografie. Il paesino di Monterey ha un'aria barocca e affollata, la casetta in riva al mare di Karl Malden e il villaggio dei cinesi hanno un'atmosfera quasi metafisica. Brando gestisce da vero regista l'alternanza tra campi lunghissimi e primi piani dove i personaggi giganteggiano e sembrano bucare lo schermo.


I tagli della produzione si accanirono soprattutto sulla parte in cui Rio è convalescente nel villaggio di pescatori cinesi. A quel punto la versione di Brando prevedeva praticamente un film nel film, con il protagonista che viveva  una storia d’amore con una ragazza cinese, l’attrice Lisa Lu, totalmente sparita dalla pellicola. Ovviamente la cosa avrebbe reso ben più complessa e molto meno convenzionale la parte melodrammatica della storia. Altro pesante cambiamento è il finale, che prevedeva la morte di Rio, ferito mortalmente da Dad. Si preferì un finale smielato in cui Rio promette alla sua amata di tornare a vedere il figlio che lei sta aspettando, anche se la scena gronda talmente retorica da essere quasi ironica.

Il titolo originale si riferisce ai Jack di cuori e di picche dei mazzi tradizionali delle carte da gioco, che stando di profilo mostrano solo un occhio e quindi simboleggiano le persone ambigue che mostrano solo un lato della loro personalità. 

1966 A SUD-OVEST DI SONORA (The Appaloosa)
di Sidney J. Furie, con Marlon Brando, Anjanette Comer, John Saxon, Emilio Fernández, Frank Silvera, Alex Montoya, Miriam Colon, Rafael Campos

Brando torna al western cinque anni dopo. Sarà l'influenza dell'ingombrante personalità dell’attore, sarà un semplice caso, ma "A sud-ovest di Sonora" ha parecchie affinità con "I due volti della vendetta". Anche qui abbiamo un ritmo lento, una sontuosa e magnifica fotografia (di Russel Metty), atmosfere bizzarre e irreali, personaggi contorti, scene d’azione girate contro l’iconografia classica.

Del resto entrambi i film appartengono a quello strano limbo del western americano degli anni 60, compreso tra la fine del periodo classico ad inizio decennio e l’inizio della fase crepuscolare a fine decennio. Un periodo in uscivano strani western cerebrali e inclassificabili, titoli come "L'occhio caldo del cielo" di Robert Aldrich, "Invito ad una sparatoria" di Richard Wilson, "Tempo di terrore" di Burt Kennedy, "La notte dell'agguato" di Robert Mulligan, "Hombre" e "L’oltraggio" di Martin Ritt e soprattutto "Le colline blu" e "La sparatoria" di Monte Hellman.


Per quanto affascinante "A sud-ovest di Sonora" è un'opera meno originale e complessa de "I due volti della vendetta". Manca probabilmente una visione d'insieme, che dia vero senso a ciò che si narra. L'impotenza del protagonista riscattata dall’amore per una donna, le ossessione feudali dell’antagonista messicano, sono temi interessanti che però non prendono mai veramente vita nel film. "I tempi del film, tutto incentrato sulla guerra psicologica tra un reduce americano e un bandito messicano per il possesso di uno stallone, sono distesi e dilatati e le scene tradizionalmente western (sparatorie e ammazzamenti) sono in pratica riservate all’ultimo quarto d’ora. La regia del canadese Sidney J. Furie, nonostante dei tocchi barocchi e visionari anche piuttosto efficaci, risulta alla fin fine un po’ anonima. (Mauro Mihich)"


Brando è allo stesso tempo il punto di forza e il vero limite del film. Al solito ebbe pessimi rapporti con il regista, che lo accusò di voler portare il caos sul set. "Il grande attore porta nel genere la sua recitazione intellettuale e introspettiva da Actor's Studio, con ampio spazio per primi piani corrucciati e monologhi un po’ sentenziosi, ma non riesce forse a definire completamente il suo personaggio, un uomo si perdente e tormentato ma anche fondamentalmente violento: l’unico ad essere perfettamente credibile in ruoli del genere era Paul Newman. (Mauro Mihich)"

Resta un film disunito, ma con numerose sequenze di grande effetto. La tesissima sequenza di Brando che entra in un tugurio messicano, la sfida a braccio di ferro con degli scorpioni dall’inaspettata conclusione, la notevole sequenza quasi da film horror dell’omicidio del pecoraio, con Brando e la donna nascosti in una tomba, l’originale duello finale tra le montagne innevate, con i due protagonisti che neanche riescono a vedersi.


Ancora oggi attiva come caratterista, soprattutto in serie televisive, Anjanette Comer ebbe allora una breve notorietà grazie a film come questo, l’acidissimo "Il caro estinto" di Tony Richardson e "I cannoni di San Sebatian" a fianco di Anthony Quinn. "John Saxon, attore americano di origine italiana, che poi avrà una lunga carriera nel poliziottesco nostrano, interpreta un messicano come nel successivo Joe Kidd di Sturges. Decisamente più credibile il vero messicano Emilio El Indio Fernandez, il crudele generale Mapache de Il mucchio selvaggio. (Mauro Mihich)"

1966 LA CACCIA (The Chase)
di Arthur Penn con Marlon Brando, Jane Fonda, Robert Redford, E.G. Marshall, Angie Dickinson, Miriam Hopkins, Robert Duvall, James Fox

Non è un western, ma merita comunque una citazione questo appassionante dramma corale di Arthur Penn, dove Brando regala una delle sue interpretazioni più memorabili nei panni di un coraggioso sceriffo. Contrariamente ai suoi soliti personaggi moralmente ambigui stavolta Brando interpreta l'unico personaggio completamente positivo del film. Proprio perché onesto e incorruttibile lo sceriffo Calder è isolato nella sua stessa comunità, mal sopportato da tutti e vittima di maldicenze. Perderà la sua battaglia, ma se ne andrà a testa alta. Ancora oggi impressionano la scena del suo pestaggio nell'ufficio, uno dei momenti più alti del tipico masochismo di Brando, e la furente reazione finale contro un assassino.

Con "La caccia" Penn fa a pezzi il luogo comune americano della provincia tranquilla e pacifica, portatrice sana di valori, in contrasto con la corruzione delle grandi città. Non solo il film descrive la provincia come un covo di serpi dedite al massacro reciproco, ma la ritrae proprio come l'incubatrice dei peggiori mali della società: corruzione, razzismo, violenza, sessismo, idiozia di massa. Un'America dedita, non solo metaforicamente, all'uccisione dei suoi figli migliori.

1976 MISSOURI (Missouri Break)
di Arthur Penn con Jack Nicholson, Marlon Brando, Randy Quaid, Kathleen Lloyd, Frederic Forrest, Harry Dean Stanton, John McLiam

Altro film di Arthur Penn, uno dei rari registi con cui Brando ebbe un buon rapporto (per quanto Penn dichiarò che Brando non capiva nulla dei personaggi che interpretava). Questo è un vero western, anche se parecchio fuori dagli schemi, ma come gli altri western diretti da Penn (Furia selvaggia e Piccolo Grande Uomo) merita un approfondimento tutto suo.

Non che in un certo senso l'attore non si "impossessi" a modo suo anche di questo film, trasformando quello che sulla carta era un convenzionale antagonista del protagonista in un personaggio incredibile, mai visto in un western. Il suo Lee Clayton è un cacciatore di uomini psicopatico ed imprevedibile, sessualmente ambiguo, con tendenze necrofile e zoofile, rompiscatole e impiccione, capace - tra le tante - di travestirsi senza alcuna ragione da vecchia nonna per andare ad ammazzare qualcuno. Forse è uno dei personaggi che rischia di assomigliare di più al Brando attore: incontrollabile, affascinante, eccessivo, umorale, dispettoso, narcisista, bastian contrario. Probabilmente un vero matto. Sicuramente unico.

7 commenti:

  1. Attore semplicemente immenso, di un carisma probabilmente ineguagliabile. Colpevolemente dei suoi western ad oggi ho visto soltanto "Missouri". Celebre anche il suo impegno per i diritti dei nativi americani, culminato col rifiuto dell'Oscar per "Il padrino", ritirato in sua vece dalla giovane (e bellissima) attivista apache Sacheen Littlefeather.

    RispondiElimina
  2. Aaaargh, Tommaso, maledetto, mi ha anticipato... ce l’avevo giusto in programma anch’io una scheda su Brando. Mi mancava da recuperare solo "I due volti della vendetta", visto moltissimi anni fa e di cui ricordo solo i numerosissimi primi piani dell’attore (che visto che probabilmente non doveva litigare con il regista per avere si è concesso a piene mani).
    Meglio così, comunque, perché non avrei saputo farla altrettanto bene, e poi "Viva Zapata!" e "La caccia" non li avevo proprio considerati...

    PS: "One Eyed Jack", oltre che riferirsi alle carte da poker, nello slang americano ha anche un significato sconcio.

    RispondiElimina
  3. Per quanto riguarda "One Eyed Jacks" è interessante la testimonianza di Karl Malden che alla domanda su chi fosse da attribuire la paternità della sceneggiatura definitiva del film rispose "There is one answer to your question: to Marlon Brando, a genius in our time."
    Oltre a Malden sono comunque diverse le testimonianza che attribuiscono all'attore il totale controllo di tutti gli aspetti del film e non mi stupirei, vista l'importanza dei due nomi in questione, se gli apporti effettivi di Kubrick e Peckimpah fossero stati col tempo ingigantiti.
    Secondo me del resto più che la mano dello Zio Sam nel film è evidente l'influenza del seminale "Furia Selvaggia" di Arthur Penn che fu notoriamente una fonte di ispirazione anche per molte opere del regista del "Mucchio Selvaggio" cosa che spiegherebbe il tocco vagamente peckimpaniano di alcune sequenze.

    RispondiElimina
  4. Ops, il commento precedente mi si è pubblicato due volte.
    Comuque tornando a "One eyed Jacks" è interessante notare come Brando vada contro alle leggi dello star system dell'epoca non solo mostrandosi senza problemi in leggero sovrapeso ma anche circondandosi di autentici stangoni come Malden, Ben Johnson e Slim Pickens senza cercare minimamente di nascondere la sua statura non certo eccelsa (era sull'1.75 se non sbaglio).

    RispondiElimina
  5. Indubbiamente c'è molto di "Furia selvaggia" nel film di Brando.
    Non fosse altro che si tratta credo dei primissimi western fortemente influenzati dalle teorie del Actors Studio.

    Che gli "anticipi" del cinema di Peckinpah siano dovuti alla concerta influenza del futuro regista o semplicemente ad un casuale comune sentire tra personalità ribelli al conformismo hollywoodiano, come lui e Brando, in fondo non cambia molto le cose.

    Ciao e grazie dei commenti ;)

    RispondiElimina
  6. Si in effetti è un po' una questione di lana caprina come direbbe Walter Sobchak. :)
    "One Eyed Jacks" per me rimane comunque un capolavoro e a posteriori anche un'opere molto importante che andando contro ogni retorica hollywoodiana, pieno com'è di personaggi (protagonista compreso) sgradevoli, imprevedibili e sfaccettati, ha dato un notevole anche se sottostimato contributo alla maturazione del genere.
    Tra l'altro Brando noto sostenitore della causa pellerossa (tanto da rifiutare l'oscar per protesta) ha sempre dimostrato un'ammirevole coerenza nel cercare di veicolare una visione della conquista del West diversa da quella tramandata dalla retorica hollywoodiana e pur non avendo mai affrontato direttamente l'argomento in un suo film può dirsi di buon diritto uno degli ispiratori del sottogenere filoindiano che esploderà negli anni 70.
    Molto indicativa dell'intransigenza dell'attore sulla questione è il suo lapidario commento su "Il grande sentiero" di John Ford che pure era stato girato con le migliori intenzioni: "That was worse than any other film, because it didn't tell the truth. Superduper patriots like John Ford could never say that the American government was at fault. He made the evil cavalry captain a foreigner. John Ford had him speak with a thick accent, you didn't know what he was, but you knew he didn't represent Mom's apple pie".

    RispondiElimina