martedì 30 aprile 2013
i film - Diamante Lobo / L'uomo di Santa Cruz
Ultimo capitolo della nostra rassegna dedicata ai western di produzione americana girati in Spagna. Siamo arrivati al 1973, in cui vennero messi in cantiere tre titoli. Sorvoliamo su Valdez, il mezzosangue (Chino), ultimo film del vecchio John Sturges, racconto intimista e vagamente crepuscolare tutto americano.
Patty Shepard in "Lo Chiamavano Mezzogiorno"
Abbiamo già scritto dell'intrigante Lo chiamavano Mezzogiorno (The man called Noon) di Peter Collinson. Tratto da un romanzo Louis L'Amour e afflitto dal solito demenziale titolo italiano tipico del periodo, può essere probabilmente considerato l'ultima convinta produzione di un western euro-americano, in cui ancora cercavano di convivere un certo gusto per i caratteri e l'azione della tradizione americana con certe influenze degli spaghetti western.
Charley One-Eye di Don Chaffey, inedito in Italia, è un introvabile e probabilmente parecchio interessante western picaresco, legato al versante più politico e autoriale della blaxploitation, presentato addirittura al festival del cinema di Berlino e vicino ad un certo cinema terzomondista molto in voga all'epoca. Storia molto allegorica dell'amicizia tra un disertore nero (Richard Roundtree, la star black per eccellenza del periodo dopo il successo di "Shaft"), uno strampalato meticcio e un pollo guercio. Ne riparleremo, quando si spera capiterà l'occasione di vederlo.
* * *
Nel 1975 si ricompone l'accoppiata di El Condor formata da Jim Brown e Lee van Cleef, più altre due star della blaxploitation, nel divertente La parola di un fuorilegge è legge. Film prodotto dalla Fox, ma diretto dal nostro Antonio Margheriti, quindi considerabile come un tradizionale western all'italiana. Per altro il film non venne girato in Spagna, ma nelle Isole Canarie.
Un set ancora più inconsueto hanno gli ultimi due film presi in considerazione dalla nostra rassegna, due film "gemelli" girati nel 1976 addirittura nel deserto israeliano. Dopo che per anni le produzioni americane avevano significato budget ricchissimi o comunque molto al di sopra degli standard europei, alla fine si tornava alle pellicole di scarto girate con due soldi come nei primi anni 60. Il primo è un tardissimo "spaghetti" diretto da Gianfranco Parolini che gode della tremenda fama di essere uno dei peggiori western di tutti i tempi. Fama assurda, visto che il film è senz'altro mediocre e raffazzonato, ma anche solo ai tempi d'oro dei western all'italiana si era visto infinitamente di peggio.
1976 Diamante Lobo (God's Gun)
di Gianfranco Parolini, con Lee Van Cleef, Jack Palance, Richard Boone, Sybil Danning, Leif Garrett, Rafi Ben Ami, Heinz Bernard, Ricardo David
di Mauro Mihich
Primo western dei produttori israeliani Menahem Golam e Yoran Globus (si faranno un nome negli anni ottanta con la loro casa di produzione Cannon, specializzata in b-movies d’azione e guerrafondai, quelli di Chuck Norris e della serie "American Ninja" per intenderci), ultimo per il nostro Frank Kramer al secolo Gianfranco Parolini e penultimo per il grande Lee Van Cleef, che dopo il “gemello” L’uomo di Santa Cruz abbandonerà definitivamente il genere che gli aveva dato notorietà internazionale e un posto indelebile nel cuore degli appassionati.
E’ proprio lui uno dei pochi motivi per vedere un film che anche se non si merita appieno la pessima fama di cui è oggetto è stato diretto con la mano sinistra da un Parolini abbandonato insieme a tutta la sua troupe nel deserto del Negev in Israele, dove il film è stato girato in condizioni proibitive, nonostante il pessimo servizio fattogli dalla sceneggiatura, che gli ritaglia il doppio ruolo di un prete (!), che viene fatto fuori dopo neanche mezzora di film, e del fratello gemello, il protagonista del titolo, che accorre per vendicarlo e che per farlo ne indossa l’abito talare (a un certo punto, in flashback, i due sono pure in scena assieme) e si fa passare per lui, in un finale dai toni quasi horror. Il film vanterebbe anche una discreta dose di sesso e violenza, aggiornata agli anni settanta in cui è stato girato, con buchi in fronte e teste spappolate, ma purtroppo sconta troppo il ritmo piatto e televisivo, i lunghi dialoghi e le pessime comparse israeliane, che indispongono anche lo spettatore più accomodante verso il genere.
Un peccato perché, a parte l’insopportabile Leif Garrett, all’epoca famoso cantante pop adolescente, che per fortuna a metà film perde la voce, il film conterebbe anche su un buon cast, a iniziare dal sempre ottimo Jack Palance che interpreta da par suo il cattivone vestito di nero e col sorriso perennemente stampato sul viso, per proseguire con la vecchia star dei western americani Richard Boone, fino a una sfavillante Sybil Danning, attrice di un certo culto tra gli amanti della serie B.
Nonostante i tempi dei vari Sartana, Sabata e Indio Black siano ormai inesorabilmente lontani e manchi quasi del tutto delle sue celebri “parolinate”, la regia del cineasta romano dimostra comunque ancora un certo mestiere, con preziosismi come quello di racchiudere l’inizio e la fine del film dentro il riquadro di un teatrino delle marionette, oppure con il finale leoniano al cimitero indiano, coreografato molto bene. Molto bella, come sempre nei western di Parolini, la colonna sonora, opera di Sante Romitelli.
1977 L'uomo di Santa Cruz (Kid Vengeance)
di Joe Manduke con Lee Van Cleef, Jim Brown, Leif Garrett, Timothy Scott, Glynnis O’Connor,, John Marley, David Loden, Dalia Penn, Matt Clark
Pur avendo tutta l'aria di essere il gemello povero del film di Parolini, quindi girato con gli scarti di una pellicola già abbastanza misera di suo, è però decisamente più riuscito. Entrambi al loro ultimo ruolo western, Lee Van Cleef e Jim Brown tornano ancora volta insieme in un minuscolo film quasi no-budget. Praticamente tutto ambientato in un deserto, vede in scena per tutta la sua durata al massimo una trentina di attori, contando anche le comparse. A sommare tutte le scene in cui recita Brown non starà sullo schermo più di un quarto d'ora, mentre Lee Van Cleef fa il cattivo. La star che nelle probabili intenzioni dei produttori (sempre Golam e Globus) doveva attirare il pubblico è il ragazzino protagonista Leif Garrett, melensa stellina pop dell'epoca, in seguito famoso più che per altro per i suoi abusi di stupefacenti e per i soliti eccessi da ex-bambino prodigio.
La storia è quella di un ragazzino che si vede uccidere i genitori e rapire la sorella da un branco di scatenati fuorilegge. Dopo averli inseguiti e averne uccisi un bel po' da solo e con i metodi più fantasiosi, con l'aiuto di un minatore di colore tenterà di salvare la sorella affrontando il resto della banda nel suo covo.
Il bello di tutta l'operazione è che il film era chiaramente indirizzato ai giovanissimi fans di Leif Garrett. E in quell'epoca decisamente pre-politicamente corretto c'era evidentemente chi era convinto che si potesse prendere un classico canovaccio da rape & revenge e tirarne fuori appunto un film per ragazzi. Oltre agli omicidi e le violenze di rito di un qualsiasi western per adulti, un giovane spettatore di allora che assisteva a questo film poteva dunque deliziarsi con sequenze tipo quella del protagonista che assiste allo stupro e all'uccisione di sua madre, o tutte quelle in cui si vede il piccolo eroe che uccide nelle maniere più efferate i suoi nemici: uno lo fa fuori a badilate in testa, un altro lo impicca con un lazo, un paio li uccide usando scorpioni e serpenti, un altro ancora lo lapida. E così via. In tutto questo trova per contrasto una sua paradossale funzionalità l'aria efebica e angelica di Garrett, vestito pure tutto elegantino.
Naturalmente la contraddittorietà dell'operazione oggi gioca a favore del film, rendendolo un'operina insolita e insospettabilmente ben fatta, pur con tutti i mostruosi e visibili limiti di budget. Il protagonista sembra una versione grandguignolesca del Jim Hawkins de "L'isola del tesoro", un ragazzino precipitato in un mondo di canaglie da cui difendersi con tutti i mezzi possibili. Parallelo forse non del tutto campato in aria tenendo conto del look decisamente piratesco sfoggiato da Lee Van Cleef con vistoso orecchino e bandana. Il suo personaggio non è però un Long John Silver del West, ma una carogna depravata che non suscita alcuna simpatia, anche se poi si rivela non del tutto privo di risvolti umani, come dimostra nell'ambiguo rapporto con la sorella del protagonista. In effetti il film può contare su delle inaspettate sfumature psicologiche, almeno relativamente alla sua rozza natura di revenge movie. Soprattutto nella spiazzante parte finale, dove vediamo gli assassini che tornano al loro paesino dove ad attenderli trovano famiglie e figli. Di conseguenza quando arriva il massacro conclusivo tutto risulta molto meno catartico e molto più amaro del previsto.
Al di là dei problemi legati al povertà della produzione, il film sconta anche delle ingenuità. Il protagonista in alcuni momenti sembra quasi invisibile nel suo riuscire ad avvicinarsi e poi a sfuggire ai suoi nemici, che a loro volta sembrano a tratti un po' troppo inebetiti. Inoltre non torna molto la logica degli spostamenti nel deserto, con personaggi appiedati che raggiungono con troppa facilità gente che viaggia a cavallo.
Altro punto a favore è invece la presenza come terzi incomodi di una coppia di balordi (uno dei quali è il grande caratterista Matt Clark), tipiche figure del cinema anni 70, in costante bilico tra comicità e violenza pronta ad esplodere. A differenza che nel film gemello vengono inoltre egregiamente sfruttate le particolarità del territorio israeliano, con le strane e belle formazioni rocciose del deserto del Negev che donano alla storia un'atmosfera insolita e lunare.
* * *
Nel 1978 l'eccentrico Amore piombo e furore (China 9, Liberty 37) di Monte Hellman segna definitivamente la fine dei tentativi di mescolare il western americano con il del resto ormai morto e sepolto western europeo, la cui influenza in quel caso si limita infatti quasi solo alla presenza di Fabio Testi come protagonista. In seguito verrà girato qualche altro western americano in Spagna, ma senza che la location abbia alcuna influenza sullo stile e l'estetica dei film.
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