Western del 2005
Anno segnato da due uscite preziose e memorabili.
Ma anche dell’affermarsi di un curioso fenomeno: nonostante nessuno
dei western degli anni precedenti avesse ottenuto grandi riscontri di pubblico, a metà circa del decennio scorso inizia a venir fuori tutta una serie di piccole produzioni western. Filmetti televisivi per il mercato del home video, opere amatoriali improntate alla nostalgia, operazioni di contaminazione tra generi (da cui si sviluppa addirittura un vero e proprio filone, quello dei western-horror di cui tratteremo a parte molto presto). Un piccolo fenomeno che continua tuttora e di cui in Italia arriva poco o niente. Sembra quasi che ci sia più voglia di fare il cinema western di quanto ce ne sia di vederlo.
Le tre sepolture (The Three Burials of Melquiades Estrada)
di Tommy Lee Jones con Tommy Lee Jones, Barry Pepper, January Jones, Dwight Yoakam, Julio Cedillo, Melissa Leo,
Non solo il probabile capolavoro western del decennio, nonostante l’ambientazione moderna, ma uno dei più preziosi e solitari film americani degli ultimi anni. Ha la semplice grandezza di una lucida e profonda parabola morale, che parla della rimozione della morte e del dolore nell’epoca moderna, dell’illusorietà e della fragilità della vita. Forse attraversato anche da una vena polemica contro la rappresentazione sempre più giocosa e “irresponsabile” della violenza nel cinema. Ma è anche più semplicemente un’appassionate e sincera storia di amicizia che dura oltre la morte, di un viaggio di iniziazione (forzata) in un sudovest di abbagliante e pietrosa bellezza, e una spietata descrizione del vuoto della provincia americana come non si vedeva dagli anni 70. Come accade spesso, quando un grande attore passa dall’altra parte della macchina da presa, l’esordio alla regia del cinquantanovenne Tommy Lee Jones dimostra una sensibilità e un’originalità di sguardo che raramente si trovano nei registi professionisti. Il suo è un film profondamente morale, sia a livello visivo che nei contenuti, ma abbastanza disincanto ed ironico da non scadere nel moralismo.
"Davvero un grandissimo film. Un amarissimo canto funebre sulla morte del west e di un certo tipo di America. E nessun dubbio che si tratti di un western: forse, anzi, quello più intimamente appartenente al genere dai tempi de "Gli Spietati", nonostante le coordinate spesso stravolte ed irriconoscibili, a partire dall'ambientazione contemporanea. Strutturato, in maniera quasi teorica, in due parti completamente distinte, separate da una cesura netta, come nell’altrettanto magnifico "Verso il sole" di Michael Cimino: la prima, moderna, è caratterizzata da un montaggio sincopato e pieno di flashback (non a caso il film è scritto dal messicano Guillermo Arriaga, lo sceneggiatore dell’insopportabile Innaritu, che l’asciuttezza stilistica e la sobrietà di questo film però se la può sognare di notte), mentre la seconda, invece, puramente western, è un lungo viaggio iniziatico verso il recupero di certi valori e stili di vita ormai completamente perduti. Da sottolineare, e ammirare, il discorso etico e politico, di grande lucidità e rigore, con la critica a un sistema –forze di polizia comprese– che ha ormai perduto qualsiasi pietà e umanità, a favore della più becera stupidità e arroganza."
"Grandi momenti di allucinata intensità: l'incontro con il vecchio cieco, quello con i messicani che guardano la telenovela in televisione in mezzo al deserto, Tommy Lee Jones che si ubriaca nella cantina messicana. Notevoli echi peckinpahiani: la fuga verso un Messico visto come unica oasi di salvezza, il viaggio sadico e macabro alla “Voglio la testa di Garcia”, il grande personaggio di Tommy Lee Jones che, come lo Steve McQueen de “L’ultimo Buscadero”, persevera ostinatamente nel rispetto di certe regole in un mondo dove esse hanno perso completamente di senso, e la cui sconsolata constatazione della loro inutilità si traduce in immagini piene di nostalgica commozione e in uno sguardo carico di disprezzo." (Mauro Mihich)
Purtroppo in Italia, come accade sempre più spesso, il film e deturpato da un doppiaggio ottuso e dozzinale, da sitcom di seconda categoria, che devasta letteralmente il fascino dei dialoghi prosciugati e smozzicati dell’originale.
Dicono di lui…
“[...] Oltre a raccontare un viaggio verso un luogo, che ha una motivazione molto particolare, narra di un viaggio dei protagonisti intorno a sé stessi, un viaggio che ha come percorso anche la distanza che li separa. E’ l’occasione di un confronto ed è un percorso che parte da valori morali e ideali differenti. Paesaggi incantevoli a parte, è proprio la rappresentazione di questo avvicinarsi e di questo rivelarsi a reggere in maniera esemplare il film che, come detto, fa dell’essenzialità la sua migliore qualità. Una ricerca dell’essenzialità tale che le frequenti scene di flashback sono introdotte in modo trasparente e lineare, quasi fosse un flusso continuo della narrazione, senza enfasi, come se non esistesse nel racconto un prima e un dopo, ma solo un lungo durante. [...]”
“[...] Stavolta le guardie di frontiera perderanno di vista chi entra, per inseguire chi esce e fugge irregolarmente verso Sud. Paradosso geografico, che ha parecchio di politico nel sottotesto e che si richiama alla figura del loser dal viso scavato dalle rughe e dal tempo un po’ alla Eastwood, il film di Jones propone due ore di on the road desertico e naturalistico, concentrandosi sui caratteri e sulla storia e dimenticando quasi del tutto la visione. Per almeno mezz'ora sembra quasi che ci sia un tentativo di montaggio stranamente sincopato e a ritroso alla ricerca di una verità spezzettata dai diversi punti di vista dell’omicidio. Ma è un fuoco di paglia: i rimanenti novanta minuti si perdono davvero in mille rivoli di script, personaggi che svaporano nel nulla (si veda la bella mogliettina di Mike, Lou Ann, interpretata dalla bella January Jones), frasi che svolazzano nel vuoto. Ed è davvero un peccato che non sia intervenuto qualche sforbiciatore, perché le intenzioni di Jones sono quantomeno scevre di pregiudizi filosofici e di carinerie da primo della classe. [...]”
“[...]Le tre sepolture [è] un esordio stupefacente per padronanza registica e asciuttezza narrativa. Lungi dal subordinare lo sguardo della m.d.p. alla recitazione degli attori (tenuta magistralmente sotto controllo) e alla funzionalità del racconto, Tommy Lee Jones regista si ritaglia momenti di pura contemplazione naturalistica e si prende pause introspettive in cui indagare l’animo dei personaggi con una sobrietà letteralmente devastante, prolungando l’osservazione delle loro reazioni ben oltre i tempi convenzionali e rinunciando a svelarci didascalicamente tutti i loro pensieri. Scavo psicologico lontano da ogni psicologismo, in una parola. [...]”
La proposta (The Proposition)
di John Hillcoat con Guy Pearce, Ray Winstone, Emily Watson, Danny Huston, David Wenham, John Hurt, Noah Taylor
Il western ambientato in Australia meriterebbe (e prima o poi meriterà) un discorso a parte, ma in questa notevole pellicola del robusto John Hillcoat, scritta nientemeno che dal suo amico e sodale Nick Cave, c’è troppo “vero” western per non citarla in questa rassegna. E non che l’ambientazione australiana venga dissimulata. Tutt’altro.
Outback australiano. Un ufficiale dell’esercito inglese cattura due fratelli fuorilegge. Al più anziano dei due fa la proposta del titolo: libererà il più giovane solo se ucciderà un terzo fratello, ancora latitante e pericoloso. Inizia così un affresco della vita nel deserto australiano, dai toni talmente allucinati da far sembrare il selvaggio west americano un giardino d’infanzia. Più che seguire una trama principale la narrazione divaga, descrivendo personaggi immersi un ambiente naturale talmente ostile da esasperare e amplificare ogni genere di tensione: psicologica, sociale e razziale. Mettendo in scena la crisi coniugale tra l’ufficiale e sua moglie, il film si concentra soprattutto sul terribile smarrimento degli inglesi, trapiantati nella durissima realtà australiana, dove la vita è sempre al limite della sopravvivenza, sia per i bianchi più o meno regolari che per gli aborigeni. Un avviso all'inizio del film avverte addirittura che alcune scene riguardanti gli aborigeni potrebbero apparire “offensive” nella loro crudezza.
La cosa più notevole del film sono le scene di violenza, tra le più brusche e imprevedibili mai viste. Come la trafelata e sanguinosa scena della cattura iniziale, che cita “Pat Garrett e Billy The Kid” e l’inizio di “Silverado”, ma soprattutto la memorabile scena in cui il protagonista cade in un agguato, viene gravemente ferito e viene salvato, il tutto in una sequenza che durerà, se è tanto, cinque o sei secondi. La regia di Hillcoat, non sempre perfettamente controllata, a tratti fatica ad essere all’altezza delle alte ambizioni della sceneggiatura di Nick Cave (autore insieme al fido violinista Warren Ellis anche della bella e poetica colonna sonora), a tratti forse anche troppo alte, soprattutto in alcuni dialoghi filosofeggianti. Ma nonostante qualche squilibrio l’atmosfera del film è intrigante e affascinante. E riconferma l’abitudine degli autori australiani di descrivere il loro paese come una terra quanto meno inquietante.
Gran bel cast, con in primo piano una Emily Watson al solito perfetta e un carismatico Guy Pearce, che meriterebbe maggior fortuna. Il ruolo dell’ufficiale inglese è curiosamente affidato all’ottimo Ray Winstone, che ha un fisico che lo fa sembrare più sanguigno dei burini australiani che lo circondano. Mentre Danny Huston, l’attore che interpreta il fratello maggiore da assassinare, ha per il pubblico italiano un curioso handicap: è una specie di sosia del cantante Francesco Renga.
Dicono di lui…
“Bellissimo Western Aussie scritto addirittura da Nick Cave e diretto dall’australiano John Hillcoat, il regista di “The Road”. Nonostante ogni tanto parta per la tangente con qualche discorso/momento metafisico è un western potente e sanguinario, che rifugge sia dallo sguardo epico del western classico che quello nostalgico di quello crepuscolare (anche se la scena iniziale della cattura dei fuorilegge è una esplicita citazione di quella di Pat Garrett & Billy Kid di Peckinpah), dipingendo una desolata frontiera fatta di mosche, polvere e sangue. Un film molto duro, non solo per le scene di violenza, secche, improvvise e brutali (quasi insostenibile quella delle frustate) e che nulla concedono al facile compiacimento tarantiniano adesso di moda nel cinema d’azione, ma anche per l’atmosfera e le situazioni, che offrono un crudo spaccato della durezza della vita dei pionieri inglesi nell’Australia di fine ottocento. In sottofondo c’è anche il discorso sul genocidio degli aborigeni, visti esattamente alla stregua degli indiani nei film western come minoranza perseguitata e oppressa. Il film vive molto anche sul contrasto tra l’impossibile normalità della vita familiare, tutta rose e porcellane, del Capitano di polizia (che poi è il vero protagonista: Pearce, infatti, rimane in scena molto meno di lui) e della moglie e la crudeltà quasi senza senso dell’ambiente circostante.
Nick Cave cura ovviamente anche la bella colonna sonora, insieme a Warren Ellis (che non è lo sceneggiatore di fumetti). Ottimo il cast: Guy Pearce, bravissimo attore che meriterebbe miglior fortuna, è perfetto nella parte del tenebroso cavaliere solitario alla Billy the Kid, Ray Winstone è efficacissimo in quella dello stravolto “sceriffo” in precario equilibrio tra giustizia e crudeltà e sull’orlo di una crisi familiare e di nervi, Emily Watson in quella della timida mogliettina, la cui fragilità accentua la violenza del narrato, forse il meno convincente è Danny Huston, che non ha la faccia da cattivo, in quella del bandito sanguinario. C’è pure un irriconoscibile John Hurt nel breve e folgorante ruolo di un cacciatore di taglie alcolizzato. Regia di grande rigore, una bellissima fotografia dai toni accesi dell’Outback australiano, un montaggio superbo, grandi momenti, tanta tensione e un finale crudo e spiazzante nella sua nichilistica assenza di speranza.”
(Mauro Mihich)
“Scritto da Nick Cave e diretto da John Hillcoat (“Ghosts ... of the civil dead”), questo Western Aussie non è solo un anti-western ma è pura antimateria, un'infernale forzatura che distrugge il genere che l'ha generato. Ambientato alla fine dell'era dei briganti da strada di quel paese, la storia è inesorabilmente cupa e priva di senso dell'umorismo, a cominciare da un Guy Pearce con una faccia da fuorilegge triste, a cui è proposta una scelta orribile: o caccia e uccide il fratello maggiore omicida (il sempre fuori luogo Danny Huston), o suo fratello minore (Richard Wilson) sarà messo a morte. L'ambiguità che sottolinea i migliori western revisionisti non è rintracciabile; il crudele uomo di legge interpretato da Winstone potrebbe non essere il peggiore dei cattivi da film, ma è così roso dai suoi conflitti e così inattivo che non fa alcuna differenza. La spavalderia delle murder ballads di Cave è altrettanto assente, sostituita da canzoni austere, basate su poche note. Anche il memorabile cameo a sorpresa di John Hurt non può tirare fuori “The Proposition” dal pantano.”
(S.A. “The Philadelphia City Paper”,8/4/2006)
Brothers in Arms
di Jean-Claude La Marre con David Carradine, Gabriel Casseus, Raymond Cruz, Jared Day
Secondo western
all-black dell'haitiano Jean-Claude La Marre, dopo il catastrofico
Gang Of Roses.
Il tentativo sarebbe sempre quello di andare a mescolare il western con l’estetica hip-hop. Anche la trama è quasi la stessa, sia pure virata al maschile. Due fratelli riuniscono la loro vecchia banda per rapinare una banca. È soprattutto una vendetta perché la città della banca è di proprietà di un ricco bastardo, e ognuno degli antieroi protagonisti ha un motivo per odiarlo. O lui, o suo figlio o il cacciatore di taglie al loro servizio. Ecatombe finale.
Anche il risultato è sempre lo stesso. Pessimo.
Dicono di lui…
“[...] nonostante i dialoghi abbaiati male, le scene d'azione incredibilmente povere, l'aspetto piatto e poco convincente del film, le estenuanti sequenze di dialogo... "Brothers in Arms" è comunque meglio di "Gang of Roses". Purtroppo il signor La Marre deve ancora imparare una cosa: se aveva intenzione di creare un gangster urbano utilizzando i cliché western (beh, perché no?) doveva lasciare la musica hip-hop fuori dal gioco. A suo modo "Brothers in Arms" poteva essere un western interessante, ma niente estrania da quel periodo storico più velocemente di un cacofonico, anacronistico (e piuttosto banale) pezzo di musica hip-hop. Ok, l’hip-hop e una sceneggiatura pessima: sono già due cose che non vanno. La trama è semplice: un tizio spara a quel tizio, un altro tizio spara a qualcun altro ancora, ci sono un sacco di sparatorie tutte in una volta e poi il film finisce. I presunti "buoni" vengono disegnati con una nota di colore a testa. Uno è un tipo un gambler pieno di rancore, un altro è un prete caduto in disgrazia, e uno è - ah - una donna, che ama far saltare in aria le diligenze con la dinamite che porta sul petto. [...] Come rappresentante dei bianchi caucasici (e quindi o molto stupidi o molto malvagi) abbiamo David Carradine in versione super bastardo. Guardate, non mi importa se un western è tutto nero, tutto asiatico, mezzo eschimese, metà irlandese, ma non ci sono scuse per un film semplicemente fatto male. Le battute senza senso, le linee narrative messe lì solo per far scorrere i minuti, personaggi che non si evolvono mai al di là dei più generici caratteri western. Si passa da punto all'altro della storia senza alcun senso di necessità, interesse o logica interna, il tutto appare pacchiano e suona ancora peggio. E nonostante questo è ancora un film migliore di "Gang of Roses". Forse tra altri tre o quattro western da oggi, La Marre effettivamente potrebbe farne uno quasi buono, tipo “Posse” di Mario Van Peebles - un film che è praticamente il riassunto di tutto il sottogenere - il che non è esattamente una di quelle aspirazioni che meritino grande applicazione, ma se qualcuno deve proprio farlo, quello è Jean-Claude La Marre. Sarò lieto di dare al regista un’altra possibilità al suo prossimo "urban western", ma per favore, JC, lascia stare l'hip-hop. Nel vecchio West non avevano console e mixer.
(Scott Weinberg, “DVD Talk” 10/6/ 2005)
“[...] Questo film è angosciante. È doloroso da guardare. Ho sempre detto, alle persone che criticano gli horror di serie B che guardo, che per godersi la maggior parte dei film è necessario sospendere il senso di incredulità per almeno un paio d’ore. È Hollywood. Godetevi la fantasia. Ma questo film non riesce a farmi sospendere neanche il comune buon senso, figuriamoci il senso di realtà. Posso solo indovinare che il film sia ambientato alla fine del 1800. Tiro ad indovinare, perché il film non persuade nemmeno per un momento di star mettendo in scena una qualche epoca passata. Da dove cominciare? I vestiti ... i vestiti sono uno scherzo. È il Wild Wild West incontra MTV. È un film o un video musicale? Osservate la donna della banda che rapina banche. Le donne possono vestirsi in quel modo per i bordelli di Las Vagas, non per una rapina. Non potete convincermi che ci potessero essere sceriffi e sbirri donne, o anche solo cassiere di banca, nei giorni del selvaggio west. [...] E di chi è stata l'idea di prendere Bill (il personaggio di David Carradine in “Kill Bill”), per farlo tornare in vita e mandarlo indietro nel selvaggio West? Carradine non ha molto da perdere dall'essere protagonista in questo film. È già alla fine carriera. Ma i tanti giovani attori e attrici, che hanno fatto l'amaro errore di mettersi in mostra in questo film, invece che una tacca di esperienza si ritrovano con un foro di proiettile nella loro carriera.”
(Clay Smith, “IMDb” 20/8/2005)
Three Bad Men (inedito in Italia)
di Jeff Hathcock con George Kennedy, Mike Moroff, Chris Gann
Film introvabile che, a giudicare dagli spezzoni che si vedono in giro, non è molto più di un film amatoriale che potrebbe girare chiunque, con una fotografia e un livello di recitazione dall’aria irrimediabilmente caserecce. Tre fuorilegge rapinano una banca e si dirigono verso il Messico. Prima di raggiungere il confine si imbattono però in un moribondo la cui moglie è stata rapita da un’altra banda di fuorilegge. Con il suo ultimo respiro l'uomo chiede ai tre uomini di aiutare la donna. Con gli uomini di legge che stanno per piombargli addosso, i tre devono prendere una difficile decisione: rischiare la vita per salvare la moglie del morto o mettersi al sicuro attraversando il confine? Non è difficile intuire quale sarà la loro scelta. Sembrerebbe una specie di remake di “In nome di Dio” (Three Godfathers) di John Ford, però senza neonato, il che non era neanche una brutta idea. Ma l’unico probabile motivo per cui l’esistenza del film è segnalata al di fuori della cerchia famigliare di chi l’ha fatto è la presenza dell’ottantenne George Kennedy. Che onestamente mette anche un po’ di tristezza...
Dicono di lui…
“Un titolo come “Tre uomini noiosi” sarebbe stato più appropriato, dato gli sbadigli che questo western procura dall’inizio alla fine. [...] Dura quasi due ore, 118 minuti, ed è un film straziante. Pietosamente avrebbero potuto tagliarne almeno mezzora. Per esempio tutte le scene in cui vediamo della gente che se ne va in giro a zonzo senza far nulla. I costumi da cowboy sembrano essere presi dal cestone dei costumi di Halloween di un hard discount. Probabilmente è stato girato in un villaggio turistico stile Wild West e probabilmente è stata utilizzata la gente del luogo, tipo quelli che rievocano la guerra civile. Probabilmente si sono fatti da soli anche i costumi, perché nulla sembra di quel periodo. Molti costumi sono palesemente vestiti di uso comune e moderno. La recitazione è orrenda e l'unico attore degno di nota è la leggenda del cinema George Kennedy. È lì ovviamene solo per i soldi e gli autori sono stati capaci di usarlo solo per qualche scenetta comica di alleggerimento. Beh al diavolo, è l'unica parte del film che tiene svegli. Anche se, osservando la bombetta indossata da Kennedy si nota che deve essere ovviamente robetta pezzente comprata in qualche negozietto da due soldi, e che anche il cravattino è finto.”
(Jeff Swindoll, “M&C” 4/6/2007)
Scusi, dov’è il west?
Miracolo a Sage Creek (Miracle At Sage Creek)
di James Intveld con Tim Abell, Sarah Aldrich, David Carradine, Irene Bedard
Un presepe vivente d'ambientazione western, pensato per un pubblico di ispirazione cristiana e per il periodo natalizio. Racconta di una blanda rivalità tra famiglie, a causa di cavalli e moglie indiane. Tutto si risolve con la fede, i buoni sentimenti, apparizioni angeliche e resurrezioni miracolose di mocciosi malati. Sprecare Carradine (il suo cattivo è più uno scorbutico che un uomo malvagio) e ancora di più Wes Studi in un film in cui non possono accoppare nessuno, è una cosa che fa venir in mente a chi scrive pensieri ben poco cristiani.
“Questo film è segnalato come "approvato per la famiglia", con tanto di marchio a fianco del logo sulla copertina del dvd, la cosa non sorprende data l'enfasi messa nel film sulle tematiche religiose e sull'importanza della famiglia. E anche se ci sono alcuni elementi interessanti a livello di sceneggiatura, sono in definitiva annullati da un approccio semplicistico e totalmente prevedibile. [...] “Miracle at Sage Creek” è condotto ad un ritmo piacevolmente lento, certamente in linea con il materiale narrativo trattato, anche se è chiaro che gli spettatori meno pazienti troveranno ben poco per cui valga la pena pazientare. L'approccio terra terra (tipo il personaggio malvagio che indossa un cappello nero) è aggravato da una sceneggiatura greve, soprattutto quando tratta di roba religiosa (dopo che il figlio di un predicatore si ammala, la moglie urla, "Dov'è il tuo grande dio, ora!?"). Detto questo, “Miracle at Sage Creek” in fondo è divertente, anche se è abbastanza ovvio che la pellicola è stata pensata quasi esclusivamente per affettuose riunioni di famiglia.”
(David Nusair, “Reel Film Review” 27/6/2006)