venerdì 30 marzo 2012

Giulio Petroni 4 - La notte dei serpenti

1969 LA NOTTE DEI SERPENTI di Giulio Petroni, con Luke Askew, Luigi Pistilli, Magda Konopka, Chelo Alonso, Guglielmo Spoletini, Franco Balducci, Benito Stefanelli



Dopo l’enorme successo degli altri tre, questo quarto gioiello sfornato da Petroni è un misconosciuto grande film maledetto. E’ l’unico film con protagonista Luke Askew, attore hippie diventato noto per una particina in Easy Rider, che sarà poi caratterista in molti western americani degli anni ’70, in particolar modo lo si ricorda come braccio destro di Kris Kristofferson in Pat Garrett & Billy The Kid. Con il suo viso lungo e malinconico dona al suo personaggio un’umanità insolita in uno spaghetti western. E’ anche uno dei rarissimi spaghetti con al centro un personaggio in cerca di riscatto. Se la violenza è quella degli spaghetti western, tira anche un’aria da western crepuscolare. Grandiosa la cupissima messa in scena con sequenze dall’atmosfera quasi horror, in cui Petroni dimostra ancora una volta di essere un regista di grande finezza.



La prima parte, in particolare, va contro a molti dei cliché del genere, con un eroe mai così perdente e umiliato e una singolare e ammaliante atmosfera di attesa, punteggiata da sequenze dai toni lugubri e quasi horror molto prossime ai film gotici.
Del tutto particolari anche il disfacimento morale e la corruzione che caratterizzano i personaggi della cittadina messicana, tutti legati da avidità, invidia e desiderio sessuale represso (notevoli le sequenze del prete che insidia la prostituta del paese), da cui traspare tutto lo spirito antiborghese e anticlericale di Petroni.
Anche il fulcro della storia gialla è abbastanza “forte” e fuori dagli schemi, visto che è basato sull’uccisione di un bambino.
Le angolazioni di ripresa inusuali, lo sviluppo più per suggestioni che seguendo una vera e propria trama, l’inserimento di brevissimi e allucinati flashback e la sottolineatura della straniante musica di Riz Ortolani completano il quadro di una messa in scena onirica e affascinante, di grande impatto visivo.
La seconda parte è senza dubbio più convenzionale e rispettosa delle regole del genere. Ma è anche assolutamente entusiasmante, con l’eroe in cerca di riscatto che si scatena in duelli e coreografiche sparatorie, che Petroni dirige da grande maestro del genere con violenza e cinismo dispensati a piene mani.
Il protagonista Luke Askew è una figura di eroe western assolutamente memorabile, e l’andatura indolente e dinoccolata e la poca espressività ne accentuano sensibilmente il fascino. Inoltre sfoggia un look da applausi: capello di paglia pieno di buchi, trench perennemente impolverato e sandali.
E’ anche uno dei protagonisti degli SW a proferire meno parole in assoluto: saranno si e no una decina, di cui la più frequente è “Tequila!”.
Impossibile, inoltre, non sottolineare la presenza di due tra le più belle attrici del western europeo: la cubana Chelo Alonso e la polacca Magda Konopka.
Il film, infine, caso abbastanza raro per il genere, è ambientato interamente in un pueblo messicano e il Messico del film, secondo Marco Giusti, “sembra un incrocio tra quello di Luis Buñuel e quello di Sam Peckinpah”.



 Tommaso Sega e Mauro Mihich

giovedì 29 marzo 2012

nuovi western - 2003 bis

Un altro western del 2003

Un titolo del 2003 che mi ero perso per strada.

(Neanche il tempo di recuperare questo, che ho anche scoperto l’esistenza di un altro succoso titolo western che ho mancato, questa volta del 2002: “King Of Texas”, nientemeno che la versione western di King Lear con Patrick Stewart, che tutti conosciamo per essere stato il capitano pelato delle serie di Star Trek degli anni 90, ma che è anche un grande attore del teatro shakespeariano. La regia è del solitamente moscio Udi Edel, ma il trailer sembra intrigante. Peccato che sembri introvabile.)


Hard Ground - La vendetta di McKay (Hard Ground)
di Frank Q. Dobbs, con Burt Reynolds, Bruce Dern, Martin Kove, Amy Jo Johnson, Seth Peterson

Un feroce bandito compie una serie di rapine per finanziarsi un piccolo esercito e mettere così a ferro e fuoco il confine tra Stati Uniti e Messico. Visto che sulle tracce della spietata banda c'è solo un giovane vicesceriffo inesperto, l' anziano sceriffo, suo zio (Bruce Dern), chiede aiuto ad un vecchio pistolero (Burt Reynolds) che sta scontando vent’anni di carcere, e che è il padre del ragazzo. Alla caccia si unirà una ragazza, unica sopravvissuta ad una strage della banda e venduta come prostituta.

Tipico western televisivo, dai molti stereotipi e dal ritmo indugiante, ma con uno suo fascino demodé. Questo tipo di tv-movie sembrano fatti per mettere comodi gli spettatori. Quindi, nonostante un’insolita dose di violenza per un prodotto di questo tipo, è un film che bada bene di restare in superficie delle cose che racconta. Il viaggio dei protagonisti verso la resa dei conti con la banda non ha nulla di catartico e non ci sono particolari complicazioni psicologiche. Quel che conta sono i dialoghi attorno al fuoco, le cavalcate contro cieli ben fotografati, i rimbrotti e gli attestati di stima reciproci. Tutto è costruito per mettere in mostra l’esperienza di vita e la concretezza dei due protagonisti anziani, cui fa contrappunto l'inesperienza dei due personaggi giovani. I due vegliardi sono ovviamente l’incarnazione di un'America violenta, ma dagli incrollabili principi di lealtà e di rispetto dei ruoli sociali. È lo sceriffo ad aver arrestato il pistolero, nonostante fosse il marito della sorella, ma il pistolero non serba alcun rancore verso il cognato. Al contrario gli avversari sono un concentrato di pura malvagità (uccidono anche una bambina), sempre pronti al tradimento reciproco. Il capobanda in particolare sembra agire più per piacere di scatenare il caos e compiere azioni crudeli che per un reale tornaconto. Per tutto il film gira persino con il cappello di un soldato che ha ucciso, con tanto di foro di proiettile insanguinato in corrispondenza della fronte.


Film tanto lineari e schematici funzionano se funzionano gli attori. E in questo caso Burt Reynolds e Bruce Dern fanno la differenza rispetto a molti prodotti analoghi votati alla fiacchezza senile. Va da sé che non stiamo parlando di un film che sprizza freschezza giovanile, ma almeno non c'è il triste effetto di vedere vecchi attori hollywoodiani spompati costretti a fingere di essere ancora in gamba per ragione di copione, magari traditi da facce gonfie e doppi menti. Nonostante qualche traccia di lifting, una brutta parrucca e un pizzico di narcisismo, il sessantasettenne Reynolds è in buona forma e ha ancora un grande carisma, peccato che dopo i grandi successi degli anni 70 sia stato così poco e male utilizzato. Anche se sembra più vecchio di vent’anni Bruce Dern è suo coetaneo, ma è il classico immenso caratterista americano che saprebbe interpretare con classe anche un palo del telefono. Sono loro che danno fascino, carisma e burbera simpatia a personaggi che con altre facce sarebbero stati solo due vecchi tromboni. Efficaci anche i lombrosiani cattivi. Al solito invece inefficace il reparto giovanile, con le solite due belle facce in libera uscita da qualche telefilm adolescenziale, ma purtroppo questo è ormai un problema cronico per il western alle prese con le nuove generazioni di attori.

Una confezione povera ma di classe e una buona colonna sonora nobilitano una regia anonima, per quanto non priva di mestiere. È per altro l'unica regia western di Frank Q. Dobbs (morto nel 2006), che nella sua carriera ha però lavorato tantissimo nel western televisivo, come produttore, sceneggiatore (suo il pilot del telefilm anni 90 tratto da “I magnifici sette”), operatore, attrezzista, aiuto regista.


Dicono di lui…

“Il film sembra essere un'altra, ennesima, produzione di Robert Halmi Jr, sulla falsariga del suo lavoro per la leggendaria serie "Lonesome Dove", e, di fatto, questo film ha molti punti di contatto con quel celebre telefilm. [...] Anche se non direttamente collegato alle finalità della storia, il film mostra come gli individui di  quel periodo della storia americana, uomini simili a McKay e allo sceriffo Hutchinson, scoprirono solo da anziani che i loro sentimenti per l'ovest americano erano diventatati ironicamente simili a quelli dei nativi americani che contribuirono a scacciare. Quando il paesaggio libero e selvaggio cominciò a scomparire dalla Storia, iniziarono a provare rabbia e frustrazione. Gli spettatori che hanno eventualmente deciso di non seguire gli ultimi minuti di questo film (dopo che lo scontro a fuoco è finito) hanno, purtroppo per loro, perso le parole conclusive di McKay su questo argomento. Parole in cui potrebbero riconoscersi molti americani anziani che si sentono allo stesso modo, cento anni di vita più tardi, all'inizio di un altro secolo...”
(Glades, “IMDb” 16/11/ 2007)

“Se si ha familiarità con i film che produce e distribuisce la Hallmark Entertainment, già si intuisce che questo film non può che essere un bersaglio mancato. Ad essere onesti, non tutto il film è brutto. È sempre un piacere vedere Burt Reynolds o Bruce Dern, e in questo film ci sono entrambi. Danno al film un certo fascino e funzionano bene insieme. Ma non c'è molto altro in quest’opera. L'atmosfera non è quella giusta, dalla poco verosimiglianza della ricostruzione storica alle scenografie naturali troppo generiche. I cattivi sono sorprendentemente noiosi, non fanno molto di più che sparare alla gente sghignazzando. Il più grande difetto del film è che è molto quieto, procede a un ritmo lentissimo. Ci si sente come davanti ad un episodio western di mezzora allungato a 88 minuti.”
(Wizard, “IMDb” 7/11/2010)

lunedì 26 marzo 2012

Giulio Petroni 3 - Tepepa

1968 TEPEPA di Giulio Petroni, con Tomas Milian, Orson Welles, John Steiner, Luciano Casamonica, Angel Ortiz, Anna Maria Lanciaprima, José Torres, Paloma Cela, George Wang



Il capolavoro rivoluzionario di Giulio Petroni.
Girato in pieno sessantotto si inserisce in quel particolare sottofilone del genere denominato Tortilla Western, inaugurato da Quién sabe? di Damiano Damiani e caratterizzato dalla collocazione storica nella rivoluzione messicana di inizio novecento e la forte connotazione politica.
Anche il film di Petroni gioca sulla rivalità-amicizia tra un peone messicano (Tomas Milian in una delle sue migliori interpretazioni, che per la prima volta si doppia da sé con quella particolare inflessione romano-cubana un po’ strana ma di gran fascino) e un gringo borghese e civilizzato (un teatrale e bravissimo John Steiner, ottimo attore che non ha avuto la fortuna che meritava) e sposa la formula dell’avventura picaresca in bilico tra ideologia e spettacolo, tipiche del filone.
Al di là delle evidenti simpatie terzomondiste, la sceneggiatura di Franco Solinas, specialista in western politici (Queimada, Il mercenario), e Ivan Della Mea, celebre – al tempo – cantautore di sinistra, getta però anche uno sguardo piuttosto cinico e disilluso sulla Rivoluzione, sottolineato dall’ambiguità di fondo del personaggio di Tepepa, risultando uno degli esempi meglio bilanciati del genere sotto il punto di vista storico e ideologico.
Un’opera dichiaratamente ambiziosa (a cominciare dalla durata, 2 h e 15’) e di assoluto rilievo per la ricostruzione storica, le grandi scene d’azione, la narrazione complessa (modernissimo l’uso narrativo del flashback), le sottili psicologie dei personaggi e il bellissimo utilizzo del paesaggio desertico dell’Almeria (nella zona del Parco Naturale di Cabo de Gata-Níjar, dove lo scenario puntellato da agavi ricorda davvero da vicino quello messicano, come pure la città di Guadix, che anche Sergio Leone utilizzerà per Giù la testa).
La pellicola sarebbe da ricordare anche solo per il fatto di essere l’unico western interpretato da Orson Welles, che tratteggia magnificamente la più grande figura di colonnello sanguinario di tutti i western italiani: la prima scena in cui appare, mentre tentano di ucciderlo ubriaco al tavolo tra il cibo e le prostitute, ricorda da vicino quella con il Generale Mapache (Emilio Fernández) ne Il mucchio selvaggio, girato l’anno successivo.
Ottima e molto particolare la fotografia dai toni olivastri di Francisco Marin, operatore spagnolo imposto dalla produzione, e ormai consegnata alla Storia l'immortale colonna sonora di Morricone.



"Il suo western rivoluzionario o tortilla western. La trama vede ancora una volta il rivoluzionario cialtrone e banditesco messo al confronto con il gringo intellettuale ed elegante, come in praticamente tutti i film del sottogenere. Ma ancora una volta Petroni fa la differenza con una messa in scena impeccabile e con la grande cura per i personaggi, ricchi di risvolti psicologici che mescolano parecchio i soliti ruoli del western rivoluzionario. Se al Tepepa di Milian va al solito la simpatia del pubblico, non mancano però parecchi lati oscuri nel personaggio, inoltre per una volta il personaggio del “gringo” (interpretato dal perfetto John Steiner) non è antipatico, anche perché non è mosso da fini economici, ma dal desiderio (giustificato) di vendetta. Il bellissimo e tristissimo finale non ha nulla di ideologico o “rivoluzionario”, ma molto di crepuscolare. Nella parte di un generale nientemeno che Orson Welles, al suo primo ed ultimo western spaghetti". (Tommaso Sega)

domenica 25 marzo 2012

nuovi western - 2005

Western del 2005

Anno segnato da due uscite preziose e memorabili.
Ma anche dell’affermarsi di un curioso fenomeno: nonostante nessuno dei western degli anni precedenti avesse ottenuto grandi riscontri di pubblico, a metà circa del decennio scorso inizia a venir fuori tutta una serie di piccole produzioni western. Filmetti televisivi per il mercato del home video, opere amatoriali improntate alla nostalgia, operazioni di contaminazione tra generi (da cui si sviluppa addirittura un vero e proprio filone, quello dei western-horror di cui tratteremo a parte molto presto). Un piccolo fenomeno che continua tuttora e di cui in Italia arriva poco o niente. Sembra quasi che ci sia più voglia di fare il cinema western di quanto ce ne sia di vederlo.


Le tre sepolture (The Three Burials of Melquiades Estrada)
di Tommy Lee Jones con Tommy Lee Jones, Barry Pepper, January Jones, Dwight Yoakam, Julio Cedillo, Melissa Leo, 

Non solo il probabile capolavoro western del decennio, nonostante l’ambientazione moderna, ma uno dei più preziosi e solitari film americani degli ultimi anni. Ha la semplice grandezza di una lucida e profonda parabola morale, che parla della rimozione della morte e del dolore nell’epoca moderna, dell’illusorietà e della fragilità della vita. Forse attraversato anche da una vena polemica contro la rappresentazione sempre più giocosa e “irresponsabile” della violenza nel cinema. Ma è anche più semplicemente un’appassionate e sincera storia di amicizia che dura oltre la morte, di un viaggio di iniziazione (forzata) in un sudovest di abbagliante e pietrosa bellezza, e una spietata descrizione del vuoto della provincia americana come non si vedeva dagli anni 70. Come accade spesso, quando un grande attore passa dall’altra parte della macchina da presa, l’esordio alla regia del cinquantanovenne Tommy Lee Jones dimostra una sensibilità e un’originalità di sguardo che raramente si trovano nei registi professionisti. Il suo è un film profondamente morale, sia a livello visivo che nei contenuti, ma abbastanza disincanto ed ironico da non scadere nel moralismo.


"Davvero un grandissimo film. Un amarissimo canto funebre sulla morte del west e di un certo tipo di America. E nessun dubbio che si tratti di un western: forse, anzi, quello più intimamente appartenente al genere dai tempi de "Gli Spietati", nonostante le coordinate spesso stravolte ed irriconoscibili, a partire dall'ambientazione contemporanea. Strutturato, in maniera quasi teorica, in due parti completamente distinte, separate da una cesura netta, come nell’altrettanto magnifico "Verso il sole" di Michael Cimino: la prima, moderna, è caratterizzata da un montaggio sincopato e pieno di flashback (non a caso il film è scritto dal messicano Guillermo Arriaga, lo sceneggiatore dell’insopportabile Innaritu, che l’asciuttezza stilistica e la sobrietà di questo film però se la può sognare di notte), mentre la seconda, invece, puramente western, è un lungo viaggio iniziatico verso il recupero di certi valori e stili di vita ormai completamente perduti. Da sottolineare, e ammirare, il discorso etico e politico, di grande lucidità e rigore, con la critica a un sistema –forze di polizia comprese– che ha ormai perduto qualsiasi pietà e umanità, a favore della più becera stupidità e arroganza."

"Grandi momenti di allucinata intensità: l'incontro con il vecchio cieco, quello con i messicani che guardano la telenovela in televisione in mezzo al deserto, Tommy Lee Jones che si ubriaca nella cantina messicana. Notevoli echi peckinpahiani: la fuga verso un Messico visto come unica oasi di salvezza, il viaggio sadico e macabro alla “Voglio la testa di Garcia”, il grande personaggio di Tommy Lee Jones che, come lo Steve McQueen de “L’ultimo Buscadero”, persevera ostinatamente nel rispetto di certe regole in un mondo dove esse hanno perso completamente di senso, e la cui sconsolata constatazione della loro inutilità si traduce in immagini piene di nostalgica commozione e in uno sguardo carico di disprezzo." (Mauro Mihich)

Purtroppo in Italia, come accade sempre più spesso, il film e deturpato da un doppiaggio ottuso e dozzinale, da sitcom di seconda categoria, che devasta letteralmente il fascino dei dialoghi prosciugati e smozzicati dell’originale.


Dicono di lui…

“[...] Oltre a raccontare un viaggio verso un luogo, che ha una motivazione molto particolare, narra di un viaggio dei protagonisti intorno a sé stessi, un viaggio che ha come percorso anche la distanza che li separa. E’ l’occasione di un confronto ed è un percorso che parte da valori morali e ideali differenti. Paesaggi incantevoli a parte, è proprio la rappresentazione di questo avvicinarsi e di questo rivelarsi a reggere in maniera esemplare il film che, come detto, fa dell’essenzialità la sua migliore qualità. Una ricerca dell’essenzialità tale che le frequenti scene di flashback sono introdotte in modo trasparente e lineare, quasi fosse un flusso continuo della narrazione, senza enfasi, come se non esistesse nel racconto un prima e un dopo, ma solo un lungo durante. [...]”

“[...] Stavolta le guardie di frontiera perderanno di vista chi entra, per inseguire chi esce e fugge irregolarmente verso Sud. Paradosso geografico, che ha parecchio di politico nel sottotesto e che si richiama alla figura del loser dal viso scavato dalle rughe e dal tempo un po’ alla Eastwood, il film di Jones propone due ore di on the road desertico e naturalistico, concentrandosi sui caratteri e sulla storia e dimenticando quasi del tutto la visione. Per almeno mezz'ora sembra quasi che ci sia un tentativo di montaggio stranamente sincopato e a ritroso alla ricerca di una verità spezzettata dai diversi punti di vista dell’omicidio. Ma è un fuoco di paglia: i rimanenti novanta minuti si perdono davvero in mille rivoli di script, personaggi che svaporano nel nulla (si veda la bella mogliettina di Mike, Lou Ann, interpretata dalla bella January Jones), frasi che svolazzano nel vuoto. Ed è davvero un peccato che non sia intervenuto qualche sforbiciatore, perché le intenzioni di Jones sono quantomeno scevre di pregiudizi filosofici e di carinerie da primo della classe. [...]”

“[...]Le tre sepolture [è] un esordio stupefacente per padronanza registica e asciuttezza narrativa. Lungi dal subordinare lo sguardo della m.d.p. alla recitazione degli attori (tenuta magistralmente sotto controllo) e alla funzionalità del racconto, Tommy Lee Jones regista si ritaglia momenti di pura contemplazione naturalistica e si prende pause introspettive in cui indagare l’animo dei personaggi con una sobrietà letteralmente devastante, prolungando l’osservazione delle loro reazioni ben oltre i tempi convenzionali e rinunciando a svelarci didascalicamente tutti i loro pensieri. Scavo psicologico lontano da ogni psicologismo, in una parola. [...]”


La proposta (The Proposition)
di John Hillcoat con Guy Pearce, Ray Winstone, Emily Watson, Danny Huston, David Wenham, John Hurt, Noah Taylor

Il western ambientato in Australia meriterebbe (e prima o poi meriterà) un discorso a parte, ma in questa notevole pellicola del robusto John Hillcoat, scritta nientemeno che dal suo amico e sodale Nick Cave, c’è troppo “vero” western per non citarla in questa rassegna. E non che l’ambientazione australiana venga dissimulata. Tutt’altro.

Outback australiano. Un ufficiale dell’esercito inglese cattura due fratelli fuorilegge. Al più anziano dei due fa la proposta del titolo: libererà il più giovane solo se ucciderà un terzo fratello, ancora latitante e pericoloso. Inizia così un affresco della vita nel deserto australiano, dai toni talmente allucinati da far sembrare il selvaggio west americano un giardino d’infanzia. Più che seguire una trama principale la narrazione divaga, descrivendo personaggi immersi un ambiente naturale talmente ostile da esasperare e amplificare ogni genere di tensione: psicologica, sociale e razziale. Mettendo in scena la crisi coniugale tra l’ufficiale e sua moglie, il film si concentra soprattutto sul terribile smarrimento degli inglesi, trapiantati nella durissima realtà australiana,  dove la vita è sempre al limite della sopravvivenza, sia per i bianchi più o meno regolari che per gli aborigeni. Un avviso all'inizio del film avverte addirittura che alcune scene riguardanti gli aborigeni potrebbero apparire “offensive” nella loro crudezza.


La cosa più notevole del film sono le scene di violenza, tra le più brusche e imprevedibili mai viste. Come la trafelata e sanguinosa scena della cattura iniziale, che cita “Pat Garrett e Billy The Kid” e l’inizio di “Silverado”, ma soprattutto la memorabile scena in cui il protagonista cade in un agguato, viene gravemente ferito e viene salvato, il tutto in una sequenza che durerà, se è tanto, cinque o sei secondi. La regia di Hillcoat, non sempre perfettamente controllata, a tratti fatica ad essere all’altezza delle alte ambizioni della sceneggiatura di Nick Cave (autore insieme al fido violinista Warren Ellis anche della bella e poetica colonna sonora), a tratti forse anche troppo alte, soprattutto in alcuni dialoghi filosofeggianti. Ma nonostante qualche squilibrio l’atmosfera del film è intrigante e affascinante. E riconferma l’abitudine degli autori australiani di descrivere il loro paese come una terra quanto meno inquietante.

Gran bel cast, con in primo piano una Emily Watson al solito perfetta e un carismatico Guy Pearce, che meriterebbe maggior fortuna. Il ruolo dell’ufficiale inglese è curiosamente affidato all’ottimo Ray Winstone, che ha un fisico che lo fa sembrare più sanguigno dei burini australiani che lo circondano. Mentre Danny Huston, l’attore che interpreta il fratello maggiore da assassinare, ha per il pubblico italiano un curioso handicap: è una specie di sosia del cantante Francesco Renga.


Dicono di lui…

“Bellissimo Western Aussie scritto addirittura da Nick Cave e diretto dall’australiano John Hillcoat, il regista di “The Road”. Nonostante ogni tanto parta per la tangente con qualche discorso/momento metafisico è un western potente e sanguinario, che rifugge sia dallo sguardo epico del western classico che quello nostalgico di quello crepuscolare (anche se la scena iniziale della cattura dei fuorilegge è una esplicita citazione di quella di Pat Garrett & Billy Kid di Peckinpah), dipingendo una desolata frontiera fatta di mosche, polvere e sangue. Un film molto duro, non solo per le scene di violenza, secche, improvvise e brutali (quasi insostenibile quella delle frustate) e che nulla concedono al facile compiacimento tarantiniano adesso di moda nel cinema d’azione, ma anche per l’atmosfera e le situazioni, che offrono un crudo spaccato della durezza della vita dei pionieri inglesi nell’Australia di fine ottocento. In sottofondo c’è anche il discorso sul genocidio degli aborigeni, visti esattamente alla stregua degli indiani nei film western come minoranza perseguitata e oppressa. Il film vive molto anche sul contrasto tra l’impossibile normalità della vita familiare, tutta rose e porcellane, del Capitano di polizia (che poi è il vero protagonista: Pearce, infatti, rimane in scena molto meno di lui) e della moglie e la crudeltà quasi senza senso dell’ambiente circostante.
Nick Cave cura ovviamente anche la bella colonna sonora, insieme a Warren Ellis (che non è lo sceneggiatore di fumetti). Ottimo il cast: Guy Pearce, bravissimo attore che meriterebbe miglior fortuna, è perfetto nella parte del tenebroso cavaliere solitario alla Billy the Kid, Ray Winstone è efficacissimo in quella dello stravolto “sceriffo” in precario equilibrio tra giustizia e crudeltà e sull’orlo di una crisi familiare e di nervi, Emily Watson in quella della timida mogliettina, la cui fragilità accentua la violenza del narrato, forse il meno convincente è Danny Huston, che non ha la faccia da cattivo, in quella del bandito sanguinario. C’è pure un irriconoscibile John Hurt nel breve e folgorante ruolo di un cacciatore di taglie alcolizzato. Regia di grande rigore, una bellissima fotografia dai toni accesi dell’Outback australiano, un montaggio superbo, grandi momenti, tanta tensione e un finale crudo e spiazzante nella sua nichilistica assenza di speranza.”
(Mauro Mihich)

“Scritto da Nick Cave e diretto da John Hillcoat (“Ghosts ... of the civil dead”), questo Western Aussie non è solo un anti-western ma è pura antimateria, un'infernale forzatura che distrugge il genere che l'ha generato. Ambientato alla fine dell'era dei briganti da strada di quel paese, la storia è inesorabilmente cupa e priva di senso dell'umorismo, a cominciare da un Guy Pearce con una faccia da fuorilegge triste, a cui è proposta una scelta orribile: o caccia e uccide il fratello maggiore omicida (il sempre fuori luogo Danny Huston), o suo fratello minore (Richard Wilson) sarà messo a morte. L'ambiguità che sottolinea i migliori western revisionisti non è rintracciabile; il crudele uomo di legge interpretato da Winstone potrebbe non essere il peggiore dei cattivi da film, ma è così roso dai suoi conflitti e così inattivo che non fa alcuna differenza. La spavalderia delle murder ballads di Cave è altrettanto assente, sostituita da canzoni austere, basate su poche note. Anche il memorabile cameo a sorpresa di John Hurt non può tirare fuori “The Proposition” dal pantano.”
(S.A. “The Philadelphia City Paper”,8/4/2006)


Brothers in Arms 
di Jean-Claude La Marre con David Carradine, Gabriel Casseus, Raymond Cruz, Jared Day

Secondo western all-black dell'haitiano Jean-Claude La Marre, dopo il catastrofico Gang Of Roses.
Il tentativo sarebbe sempre quello di andare a mescolare il western con l’estetica hip-hop. Anche la trama è quasi la stessa, sia pure virata al maschile. Due fratelli riuniscono la loro vecchia banda per rapinare una banca. È soprattutto una vendetta perché la città della banca è di proprietà di un ricco bastardo, e ognuno degli antieroi protagonisti ha un motivo per odiarlo. O lui, o suo figlio o il cacciatore di taglie al loro servizio. Ecatombe finale.
Anche il risultato è sempre lo stesso. Pessimo.

Dicono di lui…

“[...] nonostante i dialoghi abbaiati male, le scene d'azione incredibilmente povere, l'aspetto piatto e poco convincente del film, le estenuanti sequenze di dialogo... "Brothers in Arms" è comunque meglio di "Gang of Roses". Purtroppo il signor La Marre deve ancora imparare una cosa: se aveva intenzione di creare un gangster urbano utilizzando i cliché western (beh, perché no?) doveva lasciare la musica hip-hop fuori dal gioco. A suo modo "Brothers in Arms" poteva essere un western interessante, ma niente estrania da quel periodo storico più velocemente di un cacofonico, anacronistico (e piuttosto banale) pezzo di musica hip-hop. Ok, l’hip-hop e una sceneggiatura pessima: sono già due cose che non vanno. La trama è semplice: un tizio spara a quel tizio, un altro tizio spara a qualcun altro ancora, ci sono un sacco di sparatorie tutte in una volta e poi il film finisce. I presunti "buoni" vengono disegnati con una nota di colore a testa. Uno è un tipo un gambler pieno di rancore, un altro è un prete caduto in disgrazia, e uno è - ah - una donna, che ama far saltare in aria le diligenze con la dinamite che porta sul petto. [...] Come rappresentante dei bianchi caucasici (e quindi o molto stupidi o molto malvagi) abbiamo David Carradine in versione super bastardo. Guardate, non mi importa se un western è tutto nero, tutto asiatico, mezzo eschimese, metà irlandese, ma non ci sono scuse per un film semplicemente fatto male. Le battute senza senso, le linee narrative messe lì solo per far scorrere i minuti, personaggi che non si evolvono mai al di là dei più generici caratteri western. Si passa da punto all'altro della storia senza alcun senso di necessità, interesse o logica interna, il tutto appare pacchiano e suona ancora peggio. E nonostante questo è ancora un film migliore di "Gang of Roses". Forse tra altri tre o quattro western da oggi, La Marre effettivamente potrebbe farne uno quasi buono, tipo “Posse” di Mario Van Peebles - un film che è praticamente il riassunto di tutto il sottogenere - il che non è esattamente una di quelle aspirazioni che meritino grande applicazione, ma se qualcuno deve proprio farlo, quello è Jean-Claude La Marre. Sarò lieto di dare al regista un’altra possibilità al suo prossimo "urban western", ma per favore, JC, lascia stare l'hip-hop. Nel vecchio West non avevano console e mixer.
(Scott Weinberg, “DVD Talk” 10/6/ 2005)

“[...] Questo film è angosciante. È doloroso da guardare. Ho sempre detto, alle persone che criticano gli horror di serie B che guardo, che per godersi la maggior parte dei film è necessario sospendere il senso di incredulità per almeno un paio d’ore. È Hollywood. Godetevi la fantasia. Ma questo film non riesce a farmi sospendere neanche il comune buon senso, figuriamoci il senso di realtà. Posso solo indovinare che il film sia ambientato alla fine del 1800. Tiro ad indovinare, perché il film non persuade nemmeno per un momento di star mettendo in scena una qualche epoca passata. Da dove cominciare? I vestiti ... i vestiti sono uno scherzo. È il Wild Wild West incontra MTV. È un film o un video musicale? Osservate la donna della banda che rapina banche. Le donne possono vestirsi in quel modo per i bordelli di Las Vagas, non per una rapina. Non potete convincermi che ci potessero essere sceriffi e sbirri donne, o anche solo cassiere di banca, nei giorni del selvaggio west. [...] E di chi è stata l'idea di prendere Bill (il personaggio di David Carradine in “Kill Bill”), per farlo tornare in vita e mandarlo indietro nel selvaggio West? Carradine non ha molto da perdere dall'essere protagonista in questo film. È già alla fine carriera. Ma i tanti giovani attori e attrici, che hanno fatto l'amaro errore di mettersi in mostra in questo film, invece che una tacca di esperienza si ritrovano con un foro di proiettile nella loro carriera.”
(Clay Smith, “IMDb” 20/8/2005)


Three Bad Men (inedito in Italia)
di Jeff Hathcock con George Kennedy, Mike Moroff, Chris Gann

Film introvabile che, a giudicare dagli spezzoni che si vedono in giro, non è molto più di un film amatoriale che potrebbe girare chiunque, con una fotografia e un livello di recitazione dall’aria irrimediabilmente caserecce. Tre fuorilegge rapinano una banca e si dirigono verso il Messico. Prima di raggiungere il confine si imbattono però in un moribondo la cui moglie è stata rapita da un’altra banda di fuorilegge. Con il suo ultimo respiro l'uomo chiede ai tre uomini di aiutare la donna. Con gli uomini di legge che stanno per piombargli addosso, i tre devono prendere una difficile decisione: rischiare la vita per salvare la moglie del morto o mettersi al sicuro attraversando il confine? Non è difficile intuire quale sarà la loro scelta. Sembrerebbe una specie di remake di “In nome di Dio” (Three Godfathers) di John Ford, però senza neonato, il che non era neanche una brutta idea. Ma l’unico probabile motivo per cui l’esistenza del film è segnalata al di fuori della cerchia famigliare di chi l’ha fatto è la presenza dell’ottantenne George Kennedy. Che onestamente mette anche un po’ di tristezza...

Dicono di lui…

“Un titolo come “Tre uomini noiosi” sarebbe stato più appropriato, dato gli sbadigli che questo western procura dall’inizio alla fine. [...] Dura quasi due ore, 118 minuti, ed è un film straziante. Pietosamente avrebbero potuto tagliarne almeno mezzora. Per esempio tutte le scene in cui vediamo della gente che se ne va in giro a zonzo senza far nulla. I costumi da cowboy sembrano essere presi dal cestone dei costumi di Halloween di un hard discount. Probabilmente è stato girato in un villaggio turistico stile Wild West e probabilmente è stata utilizzata la gente del luogo, tipo quelli che rievocano la guerra civile. Probabilmente si sono fatti da soli anche i costumi, perché nulla sembra di quel periodo. Molti costumi sono palesemente vestiti di uso comune e moderno. La recitazione è orrenda e l'unico attore degno di nota è la leggenda del cinema George Kennedy. È lì ovviamene solo per i soldi e gli autori sono stati capaci di usarlo solo per qualche scenetta comica di alleggerimento. Beh al diavolo, è l'unica parte del film che tiene svegli. Anche se, osservando la bombetta indossata da Kennedy si nota che deve essere ovviamente robetta pezzente comprata in qualche negozietto da due soldi, e che anche il cravattino è finto.”
(Jeff Swindoll, “M&C” 4/6/2007)

Scusi, dov’è il west?


Miracolo a Sage Creek (Miracle At Sage Creek)
di James Intveld con Tim Abell, Sarah Aldrich, David Carradine, Irene Bedard

Un presepe vivente d'ambientazione western, pensato per un pubblico di ispirazione cristiana e per il periodo natalizio. Racconta di una blanda rivalità tra famiglie, a causa di cavalli e moglie indiane. Tutto si risolve con la fede, i buoni sentimenti, apparizioni angeliche e resurrezioni miracolose di mocciosi malati. Sprecare Carradine (il suo cattivo è più uno scorbutico che un uomo malvagio) e ancora di più Wes Studi in un film in cui non possono accoppare nessuno, è una cosa che fa venir in mente a chi scrive pensieri ben poco cristiani.

“Questo film è segnalato come "approvato per la famiglia", con tanto di marchio a fianco del logo sulla copertina del dvd, la cosa non sorprende data l'enfasi messa nel film sulle tematiche religiose e sull'importanza della famiglia. E anche se ci sono alcuni elementi interessanti a livello di sceneggiatura, sono in definitiva annullati da un approccio semplicistico e totalmente prevedibile. [...] “Miracle at Sage Creek” è condotto ad un ritmo piacevolmente lento, certamente in linea con il materiale narrativo trattato, anche se è chiaro che gli spettatori meno pazienti troveranno ben poco per cui valga la pena pazientare. L'approccio terra terra (tipo il personaggio malvagio che indossa un cappello nero) è aggravato da una sceneggiatura greve, soprattutto quando tratta di roba religiosa (dopo che il figlio di un predicatore si ammala, la moglie urla, "Dov'è il tuo grande dio, ora!?"). Detto questo, “Miracle at Sage Creek” in fondo è divertente, anche se è abbastanza ovvio che la pellicola è stata pensata quasi esclusivamente per affettuose riunioni di famiglia.”
(David Nusair, “Reel Film Review” 27/6/2006)

venerdì 23 marzo 2012

Giulio Petroni 2 - ...e per tetto un cielo di stelle

1968 ...E PER TETTO UN CIELO DI STELLE di Giulio Petroni, con Giuliano Gemma, Mario Adorf, Magda Konopka, Rick Boyd, Julie Menard, Anthony Dawson, Franco Balducci, Sandro Dori


Niente pistole per me. Preferisco usare il cervello, c’è meno concorrenza.

Western on the road in bilico tra farsa e tragedia, tra i primi a stemperare la seriosità degli spaghetti western con toni da commedia.
Il film è in ogni caso anche bello violento: inizia con la strage dei passeggeri di una diligenza e prosegue con scene sadiche e ammazzamenti a volontà.
La sua singolarità (e forse a tratti anche un po’ il suo limite) è appunto quella di alternare momenti molto seri e drammatici con situazioni buffe e boccaccesche.
A noi è sembrato più riuscito nei primi, ad esempio nelle grandi scene iniziale e finale, mentre nelle seconde, a volte, scivola nel terreno facile della commedia televisiva.
L’idea del viaggio senza meta (“Dove andrai, Billy?” “Non lo so” “Aspetta, vado anch’io da quelle parti”) e della libertà senza imposizioni era a ogni modo senz’altro nuova per il nostro western e molto prossima agli stati d’animo del ’68.
In filigrana c’è anche il tema dell’amicizia, anche questo non molto comune da trovare negli spaghetti western.
Secondo alcuni critici la coppia di antieroi protagonista anticiperebbe quella più celebre Trinità-Bambino di Terence Hill e Bud Spencer. Onestamente ci pare un po’ tirata per i capelli.
Molto ben assortiti, comunque, i due interpreti: Gemma è come sempre efficace nella parte della simpatica canaglia ed è molto convincente nella trasformazione da scanzonato pacifista (l’eroe che per tutta la prima ora di film non mette mano alla pistola probabilmente è un unicum per il genere) a pistolero implacabile, mentre Mario Adorf, al suo esordio nel western italiano, è bravissimo nel tratteggiare un personaggio sospeso tra il candore e la violenza.
C’è pure la bellissima Magda Konopka, nel ruolo di una vedova che tutti vorrebbero consolare.
Ottima la fotografia di Carlo Carlini, operatore di fiducia di Petroni, e strepitosa, come sempre, la colonna sonora di Morricone.



"Bellissimo. Personalmente ho gradito tantissimo anche la parti da commedia, che mi sembra si inseriscano perfettamente nel filone migliore della commedia italiana picaresca, quella alla Monicelli. Le scene divertenti sono parecchie e i dialoghi tra Gemma (perfetto) e Adorf (più che perfetto) - complici anche gli ottimi doppiatori - sono spassosi ("...gli ho sfoltito la famiglia!", il tormentone sui conigli, "Ricordo quel che sul letto di morte mi disse mio padre: Mi viene un'idea!" "Che idea?" "Ah non lo so: morì!"). Un' allegria d'altra parte continuamente punteggiata da simboli di morte e spezzata dalle sinistre apparizioni degli spietatissimi cattivi. L'inizio con la musica di Morricone e Gemma e Adorf che senza una parola seppelliscono i morti è tra i più belli che abbia mai visto tra gli "spaghetti", ma praticamente tutte le scene più tipicamente western fanno risaltare l'enorme talento di Petroni." (Tommaso Sega)

giovedì 22 marzo 2012

Samuel Fuller 1 - Ho ucciso Jesse il bandito

SAMUEL FULLER
Cinema da battaglia


Vagabondo, giornalista specializzato in cronaca nera, scrittore pulp, soldato semplice durante la Seconda guerra mondiale, poi sceneggiatore, regista e attore: nel caso di Samuel Fuller (1912-1997) la vita stessa somiglia ad un pezzo di grande cinema, e non mancherà di ispirare effettivamente molte delle sue opere in pellicola. In una carriera che copre sessant’anni e passa di storia americana – di quella stessa America che mai lo capí fino in fondo - ebbe modo di lasciare il segno nei generi piú disparati, mantenedosi sempre fedele all’«idea del set come un campo di battaglia, forte di uno stile energico e audace per cui il genere non è mai un alibi, piuttosto un pretesto entro il quale far esplodere contraddizioni e temi scottanti» [G. Canova].

Uno dei pochi veri anarchici del cinema d’oltreoceano, archetipo del cineasta indipendente in lotta eterna con produttori e star system, idolatrato in Europa e detestato in patria, Fuller ha consegnato ai posteri un fitto novero di film straordinari e personalissimi: dai secchissimi, antiretorici e in larga parte autobiografici war-movies (Corea in fiamme, I figli della gloria, L’urlo della battaglia, Il grande uno rosso), ai capolavori noir (Mano pericolosa, La vendetta del gangster), passando per opere inclassificabili e palpitanti (Park Row, Il corridoio della paura, Il bacio perverso).

Noi, come da prassi, ci concentreremo sulla sua altrettanto notevole produzione western, che consta di quattro film – cinque, se si include anche l’introvabile e succulento La rossa ombra di Riata (1973) di Barry Shear, per il quale Fuller scrisse la sceneggiatura e diresse non accreditato alcune sequenze -, cui si aggiungono un discreto numero di episodi per le serie televisive The Virginian e Iron Horse e un trascurabile tv-movie, Quel dannato pugno di uomini. Fu proprio un western, d’altronde, a segnare il suo esordio dietro la macchina da presa nel 1949.


***


1949 HO UCCISO JESSE IL BANDITO (I shot Jesse James) di Samuel Fuller. Con John Ireland, Preston Foster, Barbara Britton, J. Edward Bromberg, Victor Kilian.


Jesse Woodson James è una delle leggende del vecchio West: per alcuni niente altro che un fuorilegge, per altri un eroe popolare alla Robin Hood, per altri ancora addirittura una figura da porre nel contesto posbellico – ovviamente facciamo riferimento alla Guerra di Secessione americana (1861-1865) -, come esponente dei movimenti insurrezionali autonomi che sorsero negli Stati del Sud in reazione alla vittoria unionista. Quale che sia l’interpretazione corretta, il cinema ha sfruttato senza economia il suo mito. Tra cinema e televisione le sue gesta o semplicemente la sua figura hanno dato materiale ad un’ottantina abbondante di pellicole, in un percorso che va dai muti dei primi anni ’20, interpretati dal figlio dello stesso James, ai recentissimi telefilm e film (il bellissimo Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik, datato 2007).

Fuller, quando nel 1949 realizza il suo I shot Jesse James, deve fare i conti soprattutto con due precedenti classici di enorme successo come Jess il bandito (1939) di Henry King e Il vendicatore di Jess il bandito (1940) di Fritz Lang; nella consueta doppia veste di sceneggiatore-regista sceglie allora di concentrarsi, anziché sulle già ampiamente trattate personalità di Jesse e di suo fratello Frank, su quella da sempre vituperata dell’infame Bob Ford, l’uomo che vigliaccamente sparò alla schiena dell’amico di una vita, ottenendo in cambio l’amnistia per i suoi reati. Il film è interamente concentrato sull’analisi delle motivazioni – psicologiche, affettive, sociali – che lo spinsero a compiere l’assassinio e sul suo conseguente, impossibile tentativo di riscatto; insolitamente delicato e attento ai sentimenti, Fuller dà cosí vita ad uno dei primi grandi antieroi del western classico.

È soprattutto la normalità della vita ad attrarre Ford. Scoprirà che la società civile, che da bandito lo teneva per eroe, non dà seconde chance: il valore del perdono è ad essa sconosciuto. Fuller, già ribelle, rinuncia quasi completamente a sparatorie e cavalcate, riempe il film di primi piani e dialoghi: quella che vuole raccontare è la tragedia di un emarginato. Sin dalla prima scena si presenta chiaro: una rapina – l’ultima della banda James - completamente muta, neanche fosse un Kitano ante litteram. È da subito fuori da ogni genere. Ci parla anche d’amore, a modo suo: quello di due uomini per una donna e quello – forse – di un uomo per un altro uomo. Cosa che sia, non se ne esce illesi. E il finale non lascia scampo: forse Ho ucciso Jesse il bandito non è il suo primo western, ma il suo primo noir.


Nel non facile ruolo del protagonista, John Ireland: buon attore che, come molti, negli anni ’60 si trasferirà in Italia a fare gli spaghetti. Qui è decisamente convincente, specie nella bellissima scena in cui obbliga un povero menestrello a cantargli in faccia la ballata sullo “sporco bastardo Robert Ford”. Abbastanza anonimo invece – probabilmente per volere del regista – il Jesse di Reed Hadley.

Il film, all’epoca, lasciò sconcertati gli spettatori. Non c’è da stupirsene: va controcorrente già per il suo mettere al centro una figura bistrattata dalla Storia; inscena senza remore l’ipocrisia e la mancanza di compassione della società organizzata; smaschera il mito della “seconda possibilità” e, nel fallimento del sogno di autorealizzazione del protagonista, denunzia la faccia sporca dell’american dream. Modernissimo perché insistentemente psicologico, girato con limpida geometria e profonda umanità, è l’esordio di un regista che sa da subito ciò che vuole dire, e lo dice con una convinzione rabbiosa, quasi violenta. Abbiamo detto “cinema da battaglia”: che quest’ultima si svolga in campo aperto, fra raffiche a ventaglio ed esplosioni, o sia come in questo caso tutta introiettata per Fuller si tratta sempre di fare i conti con il sangue, con la morte.



Paolo D'Andrea

mercoledì 21 marzo 2012

western brutti 2 - Le 5 facce della violenza

1970 Le 5 facce della violenza (Five Savage Men, o The Animals, o Apache Vengeance, o The Desperados, o ecc.) di Ron Joy, con Michele Carey, Henry Silva, Keenan Wynn, John Anderson


Un film così brutto da fare tenerezza. Talmente misero e privo di mezzi da meritare rispetto solo per il fatto di esistere. Come certi film di Ed Wood, è un tale genuino delirio di incapacità e di spunti interessati mal utilizzati da essere al di là del bene e del male. Un deserto, una diligenza, una decina di cavalli, una ventina di attori (contando anche le comparse non recitanti): il film è tutto qui. Ci sono scene in cui gli attori si impappinano, starnutiscono e  improvvisano le battute visibilmente per allungare il brodo. La terribile copia che ogni tanto passa su qualche tv locale nostrana accentua ancora di più l'aria da cinema alla fine del mondo, con un doppiaggio da film porno e un formato indecente.

Come tutti i film orrendi è divertente da raccontare. Molto più che da vedere.

Per liberare il loro capo scortato da uno sceriffo una banda assalta una diligenza massacrando tutti i passeggeri, tranne una bella maestrina. Siamo in un film di serie Z del 1970 e quindi immancabilmente la poveretta viene seviziata e violentata. La scena è osservata da lontano dall'impassibile Chatto, apache solitario un po' voyeur. Fatti i loro comodi i cattivoni abbandonano la vittima al suo destino e si dividono, non prima di aver parlato del più e del meno, giusto per far passare altri preziosi minuti di film. Al che Chatto finalmente interviene ed evidentemente attratto dall'avvenenza della donna (apache sì, ma mica scemo) si prende cura di lei. Il resto è puro cinema "scult". Nel giro di due scene la maestrina pare dimentica del trauma dello stupro e inizia un credibilissimo idillio sentimentale con l'apache. In men che non si dica li vediamo mano nella mano passeggiare felici e sorridenti nel deserto. Da antologia del trash la scena dell'addestramento lampo, in cui la maestrina si trasforma in men che non si dica in guerriera apache, il tutto commentato da un'allucinante canzoncina flower power che non c'entra nulla (magari voleva essere qualcosa  tipo la scena di "Butch Cassidy" con "Raindrops Keep Fallin' On My Head"... nel caso, non è venuta esattamente la stessa cosa). Il delirio continua con la donna che, con l’aiuto del partner indiano, trova e uccide i suoi aguzzini. I cattivi vengono scovati uno per uno, non si capisce come, e trucidati. Uno viene disintegrato da un'esplosione, un altro è seccato con la doppietta mentre è al cesso, un altro viene sorpreso mentre è a letto con una prostituta (occasione buona per mostrare un altro paio di tette dopo quelle della protagonista all'inizio), un altro ancora lo ammazzano mentre... sta per essere impiccato! Ma il clou arriva con il capobanda, che viene rapito e poi  castrato dall'ex (molto ex) maestrina. Improvvisamente però scoppia il dramma: prima di schiattare il cattivaccio deride e dileggia la donna che, sconvolta da tanta maleducazione, impazzisce. A quel punto entrano in scena gli uomini dello sceriffo, che erano alla ricerca della maestrina fin dall'inizio del film. Questi ultimi sono degli imbecilli mai visti in un western, che per tutto il film non hanno fatto che andare avanti e indietro nel deserto senza capirci mai un tubo, con scene degne di "Una pallottola spuntata", tipo quella in cui "per sbaglio" si prendono a pistolettate con la posse di un altro sceriffo. Imbecilli fino alla fine, arrivano, non capiscano nulla della situazione e freddano il povero Chatto. Il poveretto rantolando si trascina verso l'amata, ormai resa indifferente dalla follia. Tocco di raffinatezza conclusivo un finale aperto: nell'ultima inquadratura si vedono degli apache che si avvicinano furtivi agli uomini dello sceriffo.

Nonostante tutto, degno di nota il cast. Il cattivo e lo sceriffo sono rispettivamente i caratteristi Keenan Wynn e John Anderson, classiche facce senza nome viste in mille film e mille telefilm. Chatto è Henry Silva, che nonostante un assurdo parruccone che gli allunga di venti centimetri la testa riesce incredibilmente a dare un pizzico di credibilità al suo personaggio. Notevole la presenza fisica di Michele Carey:


A livello recitativo limitiamoci a dire che è un tantino meno efficace. Comunque pochi anni prima la si era vista niente meno che al fianco di John Wayne e Robert Mitchum in "Eldorado" di Hawks.

"In effetti è un film talmente brutto che non stupirei avesse legioni di seguaci tra gli amanti del trash. Girato visibilmente con quattro lire (si gira in tondo per tutto il film per lo stesso angolo di deserto e l’unica scena diversa, quella con la mandria, si nota benissimo che è presa da un’altra pellicola) e diretto in maniera semi-amatoriale e all'insegna del facile sensazionalismo da un regista al suo primo e ultimo film, raggiunge davvero vette di ineguagliabile delirio (una per tutte, gli sceriffi che si sparano tra di loro). Henry Silva ce la mette anche tutta, poveraccio, ma certo che un ruolo che prevede per un’ora e mezza non più di tre mugugni avrebbe messo a dura prova anche il più quotato attore uscito dall’Actor’s Studio. Il doppiaggio italiano, poi, è semplicemente penoso, con pure il sonoro che va e viene, e nutro forti sospetti che la copia passata in tv fosse tagliata, almeno nella scena dello stupro. In America il film, infatti, è considerato un piccolo classico del Rape & Revenge movie (filone in voga negli anni settanta a base di -come dice il nome- stupri e conseguenti sanguinosissime vendette) e all'uscita italiana venne proibito ai minori di 18 anni, ma a vederlo mi è sembrato invece davvero una cosetta molto all'acqua di rose. Niente male l’attrice protagonista, comunque. (Mauro Mihich)"

martedì 20 marzo 2012

Giulio Petroni 1 - Da uomo a uomo

GIULIO PETRONI
Il partigiano del West




Se Sergio Corbucci è stato spesso definito l'Anthony Mann degli spaghetti western, allora Giulio Petroni può essere definito il nostro Raoul Walsh. Insieme ai “tre Sergio” del nostro western (Leone, Sollima, Corbucci) è stato uno dei pochissimi autori ad aver quasi sempre lavorato con budget di tutto rispetto all'interno del genere. Nonostante questo è molto meno noto e apprezzato di quanto meriterebbe. Forse a nuocergli è stata l’eterogeneità dei suoi cinque western, girati tra il '67 e il '72, difficili da ricondurre ad una sola mano. Eppure almeno tre, forse quattro, di questi sono tra i migliori frutti del genere. Infatti dal perfetto western simil-Leone del primo si passa al western picaresco del secondo, dal tortilla western del terzo si passa all'inclassificabile western-noir del quarto, per concludere (un po’ tanto sottotono) con il western comico.

Attivo fin dalla fine degli anni '50, dirige alcune modeste commedie all'italiana di mestiere, per poi passare nella prima metà degli anni '60 alla Rai. Dopo il periodo western negli anni '70 dirigerà alcune poco riuscite pellicole erotico-satiriche, per poi ritirarsi.

Qui una delle sue ultime testimonianze: IL PARTIGIANO DEL WEST: INTERVISTA A GIULIO PETRONI


***


1967 DA UOMO A UOMO di Giulio Petroni, con Lee Van Cleef, John Phillip Law, Luigi Pistilli, Anthony Dawson, Mario Brega, Carla Cassola, Giuseppe Castellano, Franco Balducci, Romano Puppo, Guglielmo Spoletini



Un autentico capolavoro.
Petroni sapeva davvero il fatto suo: usa con rara eleganza, senza mai eccedere, carrelli, dolly, pianosequenza e sfrutta la profondità di campo offerta dal formato scope con una maestria che va al di là della semplice professionalità. Altro che "artigiani del cinema", viene da dire; qui ci troviamo di fronte ad un grande regista, senza tanti giri di parole. Sceneggiatura solida, attori perfetti (un Lee Van Cleef dagli impensabili accenni di tenerezza, un John Philip Law dallo sguardo perennemente allucinato) e splendida fotografia fanno il resto. Da notare tra l'altro come Petroni alleggerisca costantemente il tutto con tocchi di squisita ironia (si pensi al modo in cui viene sdrammatizzata l''ecatombe finale). L'incipit dall'atmosfera e dai dettagli degni di un thriller va di diritto tra le sequenze più entusiasmanti del western italiano.

Il film è anche una riuscita variazione dei classici di Sergio Leone, soprattutto Per qualche dollaro in più, con il rapporto padre-figlio tra John Phillip Law e Lee Van Cleef similare a quello tra Eastwood e Van Cleef nel secondo capitolo della Trilogia del Dollaro.
I punti di contatto non si fermano qui: oltre a Van Cleef nella parte del vecchio pistolero disilluso, ci sono anche altri attori leoniani come Luigi Pistilli e Mario Brega, i grandi set dell’Almeria, l’uso narrativo delle musiche di Morricone, i flashback virati a tinte rosse, la rapina alla banca, lo scontro finale nella missione abbandonata con l’eliminazione dei banditi uno ad uno. La sceneggiatura è non a caso di Luciano Vincenzoni, che ha firmato anche i copioni di Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo.
Le stesse sequenze d’azione con i personaggi sempre al centro dell’inquadratura e il panorama spagnolo ingigantito dal techniscope sullo sfondo sono puramente “leoniane”, come il tema della vendetta con la spietata uccisione dei nemici uno dopo l’altro, a cui viene però viene aggiunta l’inedita sfida finale tra i due protagonisti, quando apparirà evidente che anche Van Cleef è stato uno dei membri della banda ed era presente nella notte del massacro.


L’inizio violentissimo e quasi horror nella notte di tempesta, con l’omicidio del padre del protagonista e lo stupro della madre e della sorella, è uno straordinario pezzo di cinema che ha lasciato l’impronta anche su altri film. Probabilmente ispirato a Notte senza fine di Raoul Walsh (soprattutto il particolare degli speroni), è stato a sua volta “citato” da Quentin Tarantino nel pezzo anime di Kill Bill vol. 1. Per lo stesso film Tarantino si appropriò anche della monumentale colonna sonora di Morricone usata come contrappunto della resa dei conti tra la Sposa e O-Ren Ishii (Uma Thurman e Lucy Liu).


Nel suo Dizionario del western all'italiana Marco Giusti sostiene che la canzone Death rides a horse si sente solo sul disco, mentre nel film compare la versione strumentale, ma nella copia da noi visionata (che tra l’altro presentava i primi minuti in inglese sottotitolati in italiano) c’è anche il cantato.

Paolo D'Andrea e Mauro Mihich

sabato 17 marzo 2012

i film 21 - Mezzogiorno di fuoco

1952 MEZZOGIORNO DI FUOCO (High Noon) di Fred Zinnemann
con Gary Cooper, Grace Kelly, Thomas Mitchell, Lloyd Bridges, Katy Jurado, Otto Kruger, Lon Chaney Jr, Harry Morgan, Ian MacDonald, Lee Van Cleef



Fin dal titolo entrato nel linguaggio comune, uno di quei film talmente radicati nell'immaginario collettivo che si tende a darli per scontati. E magari a non rivedere molto spesso. Capita quindi che quando si rivede un classico come questo ci si sorprenda nel riscoprirlo un'opera abbastanza unica e solitaria. Se l'idea dell'uomo che difende la comunità che lo ha lasciato solo ha influenzato moltissimo il genere, la novità stilistica di girare un western come un thriller tutto giocato sull'attesa non ha mai davvero trovato un seguito in altri film.

Ancora oggi "Mezzogiorno di fuoco" è un perfetto meccanismo ad orologeria di tensione psicologica e morale, che ha la semplice genialità dei classici, sia a livello stilistico che narrativo. Inizia e finisce con lunghe sequenze mute dalle inquadrature larghe e ariose, in contrasto con tutta la parte centrale, fitta di  dialoghi e piena di inquadrature che stringono sui volti e sui dettagli, tra cui spicca l'ossessiva presenza degli orologi. Memorabile la geometrica resa dei conti finale, dai tempi dilatati per i ritmi dell'epoca. Colpisce la visione di un West austero e spoglio, privo di fascino folkloristico, fotografato in un bianco e nero da cinegiornale. Scelta stilistica dettata dal budget spartano - il film fu girato in soli 28 giorni - ma anche per distinguersi dall'iconografia romantica dei western di allora. Fu volutamente evitato di inquadrare qualsiasi nuvola nel cielo per sfuggire al luogo comune del cielo "epico" e nuvoloso, tipico ad esempio delle pellicole di John Ford. Il film è soprattutto una memorabile galleria di personaggi perfettamente sbozzati, ricchi di sfumature e contrasti psicologici. Il cast è perfetto dalla prima all'ultima faccia, con una vera folla dei migliori caratteristi degli anni d'oro di Hollywood. In primo piano logicamente un intenso Gary Cooper, straordinario nel rendere i mille dubbi del suo personaggio, affiancato da una Grace Kelly semi-esordiente di una bellezza spaventosa.  



Anche tecnicamente il film introdusse parecchie novità. Fu il primo film hollywoodiano ad inserire una canzone cantata nella colonna sonora, la celebre "Do Not Forsake Me, Oh My Darling" di Tex Ritter, anch'essa fuori dagli schemi con il suo stile sottotono e privo di pomposità, che dona all'inizio del film un tono rarefatto unico per l'epoca. Inoltre, come è noto, la vicenda si svolge in tempo reale, cioè il tempo che passa nel film è lo stesso che passa nella realtà dello spettatore. In realtà c'è uno scarto di qualche minuto, dovuto ai tagli decisi dal regista e il produttore, che in fase di montaggio eliminarono completamente il personaggio di un secondo vicesceriffo.



Ma la vera novità del film fu mostrare per la prima volta in un film hollywoodiano un protagonista positivo impaurito e in preda ai dubbi per quasi tutto il film. Ma soprattutto descrivere in maniera totalmente negativa una comunità americana, dipinta come un concentrato irrecuperabile di meschinità e vigliaccheria, in cui solo un ragazzino e un povero ubriacone dimostrano di avere del coraggio. La scena finale di Cooper che getta la stella nella polvere doveva rappresentare un discreto shock per gli spettatori americani degli anni 50. Si infuriarono in molti, tra cui il Ku Klux Klan che picchettò diverse sale cinematografiche. Più positiva la reazione di  Howard Hawks che, in risposta a "Mezzogiorno di fuoco", anni dopo girerà "Un dollaro d'onore" dove uno sceriffo e i suoi vice affrontano più nemici senza chiedere aiuto a nessuno. 



Nato come denuncia al clima intimidatorio della caccia alle streghe, girare un film tanto coraggioso aveva all'epoca il suo prezzo. Il regista Zinnemann e il produttore Stanely Kramer (futuro regista impegnato) finirono nel mirino delle commissioni d'inchiesta sulle attività anti-americane. Ma a pagare le conseguenze peggiori furono i più deboli: lo sceneggiatore Carl Foreman dovette scappare in Inghilterra, il direttore della fotografia Floyd Crosby (padre della rock star David Crosby) e l'attore Lloyd Bridges (padre di Jeff) non poterono lavorare per anni. Nonostante fosse un conservatore di destra, Gary Cooper approfittò dell'immunità datagli dalla fama, ulteriormente rilanciata dall'oscar vinto con questo film, per aiutare e dare lavoro a gente finita nelle liste nere.



Alcune curiosità...
Il titolo originale "High Noon" in America è diventato un modo di dire, corrispondente al nostro "piantare in asso". 
Tra i motivi che spinsero l'austriaco Zinnemann a girare un western - l'unico della sua lunga carriera - c'era anche  la sua grande passione per i romanzi di Karl May, lo scrittore tedesco i cui romanzi in seguito furono alla base del fenomeno dei kraut western
Uno dei tre killer che aspettano alla stazione l'arrivo del loro capo è un taciturno Lee Van Cleef che suona l'armonica; nell'analoga sequenza di "C'era una volta il west", uno dei tre killer sarà interpretato dal grande strabico Jack Elam, che in "Mezzogiorno di fuoco" fa la parte dell'ubriacone liberato dalla cella da Cooper.

giovedì 15 marzo 2012

i film 20 - La spina dorsale del diavolo

LA SPINA DORSALE DEL DIAVOLO (The Deserter) 
di Burt Kennedy (e Niksa Fulgozi?), con Bekim Fehmiu, John Huston, Richard Crenna, Chuck Connors, Ricardo Montalban, Ian Bannen, Slim Pickens, Woody Strode, Patrick Wayne



Notevole western violento, oltre che inconsueta coproduzione italo-statunitense-jugoslava (com’era nello stile di Dino De Laurentiis), ragione per cui nella versione europea viene accreditato come regista lo slavo Niksa Fulgozi, mentre in tutte le altre Burt Kennedy, regista americano che poi tornerà in Europa per dirigere l’altrettanto riuscito La texana e i fratelli Penitenza.
Il film, come detto, si distingue per un inconsueto tasso di violenza, già a partire dal feroce incipit che vede la moglie del capitano protagonista scuoiata viva con il nostro costretto a darle il colpo di grazia, dal che si può anche capire perché decida di disertare e dedicare la sua esistenza allo sterminio degli indiani, andando a vivere nel deserto insieme a un cane lupo addestrato ad aggredire i pellerossa. Si capisce un po’ meno il suo look alla Sandokan, ma vabbè...
L’ex-capitano ritornerà nelle file dell’esercito quando un generale un po’ beone, interpretato da uno John Huston perfettamente calato nella parte, deciderà di fargli addestrare un reparto di disperati per andare a massacrare gli apaches nel loro territorio, cioè oltre la spina dorsale del diavolo (che è una catena di montagne).
La pellicola, come si vede, ha ben poco di europeo e guarda esplicitamente ai modelli americani, in particolare Sierra Charriba di Sam Peckinpah e soprattutto Quella sporca dozzina di Robert Aldrich, andando in controtendenza rispetto ai prodotti filo-indiani del periodo e adottando un punto di vista sugli apaches poco politicamente corretto e simile al contemporaneo Nessuna pietà per Ulzana, tanto che venne accusata da alcuni critici di razzismo e compiacimento della violenza.



Al di là di queste disquisizioni, che lasciano tutto il tempo che trovano, il film è un solido revenge-western “di missione”, interpretato da un efficacissimo e particolarmente assortito cast internazionale che comprende lo slavo Bekim Fehmiu (recentemente scomparso e doppiato magistralmente da Pino Locchi), per cui la pellicola doveva essere veicolo per una mai nata carriera hollywoodiana, come gran protagonista, tosto e carismatico al di là del look un po’ assurdo, gli americani Richard Crenna e Chuck Connors, John Huston, Woody Strode che torna a vestire la divisa dell’esercito dopo I dannati e gli eroi di Ford, il grande caratterista peckinpahiano Slim Pickens, il figlio di John Wayne, Patrick, lo scozzese Ian Bannen, il messicano Ricardo Montalban (che tanto per cambiare interpreta la parte di un indiano), gli italiani Fausto Tozzi, Lucio Rosato e Mimmo Palmara (che è il cattivissimo capo apache).
Bella la fotografia di Aldo Tonti e gli esterni in Spagna e Jugoslavia (gli interni, invece, vennero girati a Roma). Un po’ troppo roboante la colonna sonora di Piero Piccioni. La sceneggiatura è del noto romanziere western Clair Huffaker. Burt Kennedy nel suo libro Hollywood Trail Boss, in cui racconta i dietro le quinte dei set dei suoi film western, riporta un’interessante diario dell’avventurosa lavorazione del film.


John Huston, Burt Kennedy e Bekim Fehmiu sul set del film

martedì 13 marzo 2012

i film 19 - El desperado


1967 EL DESPERADO
di Franco Rossetti con Andrea Giordana, Rosemary Dexter, Piero Lulli, John Bartha, Franco Giornelli.

Una delle tante piccole gemme misconosciute del western italiano, unica regia nel genere di Franco Rossetti. Chiaramente debitore degli spaghetti corbucciani - del resto Rossetti, in veste di sceneggiatore, aveva collaborato col maestro romano in Django e Johnny Oro - nel dipingere un West lutulento e decadente, abitato da uomini uno piú infido e crudele dell'altro che si scontrano in scene ad alto tasso di violenza, ha il suo punto di forza nel protagonista, antieroe fallibile e contraddittorio incapace di scegliere fra due modelli di vita antitetici: parte da carogna, si trasforma in angelo vendicatore per poi ritrovarsi nel bel finale all'ennesimo bivio che non si sente di affrontare. Ben diretto e fotografato, con un cast all'altezza: bravo Giordana, ma il migliore è Franco Giornelli nella parte del drogatissimo capobanda. Da qualche tempo a questa parte Tarantino lo indica come il suo spaghetti preferito: per me meriterebbe se non altro di essere riscoperto.

Paolo D'Andrea



Credo sia il western piú fangoso che mi sia mai capitato di vedere. A un certo punto il protagonista, un efficacissimo Andrea Giordana, ne è completamente ricoperto; la stessa sorte tocca nel finale al cattivone Franco Giornelli. Franco Rossetti, al suo primo e purtroppo ultimo western, è stato lo sceneggiatore di Django e si vede: la sua immagine del West nera e barocca, popolata di città fantasma e percorsa da epidemie di colera, è piuttosto simile a quella del film di Corbucci, come pure il sadismo di molte situazioni e il disegno del personaggio di Giordana, sorta di pistolero totalmente amorale che nel corso del film prende lentamente coscienza di sé, ritrovandosi lacerato e tormentato (esemplare il finale, anche questo molto alla Corbucci, in cui molla la ragazza innamorata di lui per seguire la sua indole nomade). Peccato per una sceneggiatura non sempre ben equilibrata e sufficientemente bilanciata in tutte le sue parti. Ottime sia la musica di Gianni Ferrio che la fotografia di Angelo Filippini. Nota d’obbligo per Rosemary Dexter, mai più bella come in questo film.

Mauro Mihich



Girato in tutta evidenza con due soldi e in paesaggi laziali, ma pieno di idee e invenzioni registiche. E' purtroppo l'unico spaghetti da regista dello sceneggiatore di Django e lo si nota da numerose analogie con la celebre pellicola di Corbucci. Alcune caratteristiche di "Django" sono ribaltate, a cominciare dal look del protagonista che indossa una divisa sudista invece che nordista, ma anche da come il pessimismo apocalittico di Corbucci è corretto da un umanesimo di fondo e dalle possibilità di riscatto concessa al protagonista. Analoga l'atmosfera fangosa e rarefatta che si respira in entrambi in film, ma il tono quasi horror di "Django" si stempera in un clima di fiaba invernale, anche se ovviamente non mancano la violenza e il sadismo in dosi da cavallo. Notevole le musiche a tratti quasi felliniane. Andrea Giordana girerà solo due altri spaghetti il noto Quella sporca storia nel west e il misconosciuto Quanto costa morire. Un vero spreco, perché era un bel tenebroso fisicamente perfetto per il genere.

Tommaso Sega

lunedì 12 marzo 2012

Jean Giraud "Moebius" 1938-2012

ADIEU, MISTER GIR



Questo blog si occupa principalmente di cinema western, quindi potremmo ricordare su questo spazio Jean Giraud, che ci ha lasciati sabato scorso all’età di 73 anni, come autore (insieme allo sceneggiatore Jean-Michel Charlier) del famoso personaggio da cui nel 2004 il regista Jan Kounen ha tratto il film Blueberry, da noi recentemente analizzato, ma probabilmente non gli faremmo un grande favore, nonostante lui abbia speso parole di apprezzamento per la pellicola (in cui interpretava un piccolo ruolo) e le sue atmosfere sciamaniche e visionarie, forse in qualche modo congeniali al suo alter ego artistico di Moebius.
Noi, però, resteremo per sempre con il rimpianto di quello che avrebbe potuto ricavare cinematograficamente da un simile character il regista inizialmente designato al progetto, Walter Hill.

Più semplicemente, mentre viene giustamente omaggiato da stampa e web come uno dei più grandi artisti visuali del XX secolo, vogliamo ricordare nel nostro piccolo Jean Giraud per avere nutrito il nostro immaginario western con le formidabili tavole a fumetti con cui ha affrescato l’Ovest americano, in modo allo stesso tempo iperrealista e visionario, e con cui ha raccontato le avventure di un personaggio che come il cinema western statunitense è partito dal un percorso classico e istituzionale per assumere toni via via sempre più dubbiosi e crepuscolari.