giovedì 22 marzo 2012

Samuel Fuller 1 - Ho ucciso Jesse il bandito

SAMUEL FULLER
Cinema da battaglia


Vagabondo, giornalista specializzato in cronaca nera, scrittore pulp, soldato semplice durante la Seconda guerra mondiale, poi sceneggiatore, regista e attore: nel caso di Samuel Fuller (1912-1997) la vita stessa somiglia ad un pezzo di grande cinema, e non mancherà di ispirare effettivamente molte delle sue opere in pellicola. In una carriera che copre sessant’anni e passa di storia americana – di quella stessa America che mai lo capí fino in fondo - ebbe modo di lasciare il segno nei generi piú disparati, mantenedosi sempre fedele all’«idea del set come un campo di battaglia, forte di uno stile energico e audace per cui il genere non è mai un alibi, piuttosto un pretesto entro il quale far esplodere contraddizioni e temi scottanti» [G. Canova].

Uno dei pochi veri anarchici del cinema d’oltreoceano, archetipo del cineasta indipendente in lotta eterna con produttori e star system, idolatrato in Europa e detestato in patria, Fuller ha consegnato ai posteri un fitto novero di film straordinari e personalissimi: dai secchissimi, antiretorici e in larga parte autobiografici war-movies (Corea in fiamme, I figli della gloria, L’urlo della battaglia, Il grande uno rosso), ai capolavori noir (Mano pericolosa, La vendetta del gangster), passando per opere inclassificabili e palpitanti (Park Row, Il corridoio della paura, Il bacio perverso).

Noi, come da prassi, ci concentreremo sulla sua altrettanto notevole produzione western, che consta di quattro film – cinque, se si include anche l’introvabile e succulento La rossa ombra di Riata (1973) di Barry Shear, per il quale Fuller scrisse la sceneggiatura e diresse non accreditato alcune sequenze -, cui si aggiungono un discreto numero di episodi per le serie televisive The Virginian e Iron Horse e un trascurabile tv-movie, Quel dannato pugno di uomini. Fu proprio un western, d’altronde, a segnare il suo esordio dietro la macchina da presa nel 1949.


***


1949 HO UCCISO JESSE IL BANDITO (I shot Jesse James) di Samuel Fuller. Con John Ireland, Preston Foster, Barbara Britton, J. Edward Bromberg, Victor Kilian.


Jesse Woodson James è una delle leggende del vecchio West: per alcuni niente altro che un fuorilegge, per altri un eroe popolare alla Robin Hood, per altri ancora addirittura una figura da porre nel contesto posbellico – ovviamente facciamo riferimento alla Guerra di Secessione americana (1861-1865) -, come esponente dei movimenti insurrezionali autonomi che sorsero negli Stati del Sud in reazione alla vittoria unionista. Quale che sia l’interpretazione corretta, il cinema ha sfruttato senza economia il suo mito. Tra cinema e televisione le sue gesta o semplicemente la sua figura hanno dato materiale ad un’ottantina abbondante di pellicole, in un percorso che va dai muti dei primi anni ’20, interpretati dal figlio dello stesso James, ai recentissimi telefilm e film (il bellissimo Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik, datato 2007).

Fuller, quando nel 1949 realizza il suo I shot Jesse James, deve fare i conti soprattutto con due precedenti classici di enorme successo come Jess il bandito (1939) di Henry King e Il vendicatore di Jess il bandito (1940) di Fritz Lang; nella consueta doppia veste di sceneggiatore-regista sceglie allora di concentrarsi, anziché sulle già ampiamente trattate personalità di Jesse e di suo fratello Frank, su quella da sempre vituperata dell’infame Bob Ford, l’uomo che vigliaccamente sparò alla schiena dell’amico di una vita, ottenendo in cambio l’amnistia per i suoi reati. Il film è interamente concentrato sull’analisi delle motivazioni – psicologiche, affettive, sociali – che lo spinsero a compiere l’assassinio e sul suo conseguente, impossibile tentativo di riscatto; insolitamente delicato e attento ai sentimenti, Fuller dà cosí vita ad uno dei primi grandi antieroi del western classico.

È soprattutto la normalità della vita ad attrarre Ford. Scoprirà che la società civile, che da bandito lo teneva per eroe, non dà seconde chance: il valore del perdono è ad essa sconosciuto. Fuller, già ribelle, rinuncia quasi completamente a sparatorie e cavalcate, riempe il film di primi piani e dialoghi: quella che vuole raccontare è la tragedia di un emarginato. Sin dalla prima scena si presenta chiaro: una rapina – l’ultima della banda James - completamente muta, neanche fosse un Kitano ante litteram. È da subito fuori da ogni genere. Ci parla anche d’amore, a modo suo: quello di due uomini per una donna e quello – forse – di un uomo per un altro uomo. Cosa che sia, non se ne esce illesi. E il finale non lascia scampo: forse Ho ucciso Jesse il bandito non è il suo primo western, ma il suo primo noir.


Nel non facile ruolo del protagonista, John Ireland: buon attore che, come molti, negli anni ’60 si trasferirà in Italia a fare gli spaghetti. Qui è decisamente convincente, specie nella bellissima scena in cui obbliga un povero menestrello a cantargli in faccia la ballata sullo “sporco bastardo Robert Ford”. Abbastanza anonimo invece – probabilmente per volere del regista – il Jesse di Reed Hadley.

Il film, all’epoca, lasciò sconcertati gli spettatori. Non c’è da stupirsene: va controcorrente già per il suo mettere al centro una figura bistrattata dalla Storia; inscena senza remore l’ipocrisia e la mancanza di compassione della società organizzata; smaschera il mito della “seconda possibilità” e, nel fallimento del sogno di autorealizzazione del protagonista, denunzia la faccia sporca dell’american dream. Modernissimo perché insistentemente psicologico, girato con limpida geometria e profonda umanità, è l’esordio di un regista che sa da subito ciò che vuole dire, e lo dice con una convinzione rabbiosa, quasi violenta. Abbiamo detto “cinema da battaglia”: che quest’ultima si svolga in campo aperto, fra raffiche a ventaglio ed esplosioni, o sia come in questo caso tutta introiettata per Fuller si tratta sempre di fare i conti con il sangue, con la morte.



Paolo D'Andrea

3 commenti:

  1. Fuller è una delle mie grandi vergogne cinematografiche. Non solo mi mancano alcuni dei suoi titoli più fondamentali, ma confesso di non aver mai visto neanche uno dei suoi quattro western...

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  2. Grande Paolo! Mi hai anticipato perché avevo messo in programma anch’io di approfondire la filmografia western di Fuller a seguito della recentissima visione di “Quattro bastardi per un posto all’inferno”, film da tutti considerato minore nonché disconosciuto dallo stesso regista ma che io ho trovato di eccezionale forza visiva, con una regia magistrale che riesce a trasmettere come poche altre il senso dell’azione e in cui il protagonista Burt Reynolds è una perfetta versione cinematografica alternativa dell’anti-eroe dei fumetti Mister No.

    Di Fuller ho poi visto i classici “Il grande uno rosso”, “Il corridoio della paura”, “Corea in fiamme”, ma sui western devo confessare anche la mia ignoranza, anche se il dvd Dolmen di “Quaranta pistole” è sulla mia “wishlist” già da parecchio tempo (purtroppo non cala mai di prezzo), per non parlare di “La rossa ombra di Riata”, film il cui violentissimo incipit mi ha colpito da bambino e che cerco da anni invano di recuperare, iniziato da Fuller sulla base di un suo racconto western e poi abbandonato per contrasti con l’attore protagonista Richard Harris. In lingua italiana è assolutamente introvabile, e pure in inglese non ne ho trovata traccia...

    Pare molto interessante anche questo “Ho ucciso Jesse il bandito”, che mette in scena come protagonista Robert Ford con 70 anni buoni di anticipo sul film di Andrew Dominik: la scena del menestrello che canta la ballata in faccia a Robert Ford pare proprio identica, solo che nel film del 2007 è cantata da Nick Cave.

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  3. Sì, la scena con Nick Cave è una chiara citazione. Due film ovviamente diversissimi per tempi, budget e intenzioni ma molto interessanti da confrontare: praticamente sullo stesso tema, Fuller ha fatto un film angusto, secco e teatrale, Dominik un gran western arioso e contemplativo alla Malick.

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