domenica 11 marzo 2012

i registi 10 - Mario Bava

MARIO BAVA
Il minuscolo west di un gigante



Quella di Mario Bava è stata una figura praticamente unica nella storia del cinema. Qualcosa di più di un artigiano che più o meno consapevolmente trovava l'arte facendo al meglio il suo mestiere, qualcosa di diverso di un autore che lavorando all'interno del cinema di genere ne sovvertiva deliberatamente le regole. Era entrambe le cose, e in genere è in queste due vesti che gli appassionati lo celebrano, ma era anche qualcosa di più complesso e sfuggente. In Bava si mescolavano, senza possibilità di distinzione, menefreghismo professionale e talento visionario, sciatteria mercenaria e imprevedibile ispirazione artistica. Con le qualità che spesso si esprimevano in una furia autodistruttiva verso i suoi stessi film e verso le aspettative del pubblico - che ripagava la scarsa considerazione disertando in massa le sale in cui venivano proiettati i suoi film. Ma il tutto senza le volontà dichiarata dell'artista che gioca a smontare il cinema di genere, visto che le prime vittime dei suoi umori caustici erano i suoi stessi film ed egli stesso. I budget ridicoli se non proprio inesistenti, le stringenti necessità produttive, il basso target a cui si indirizzavano i suoi film (sale di provincia, cinema parrocchiali... un mondo scomparso) erano allo stesso tempo dei limiti insormontabili e delle paradossali occasioni di libertà assoluta. Tanto è vero che una delle cose che rendono affascinante e sconcertante la filmografia di Bava è constatare che, nonostante la chiara riconoscibilità dello stile, nessuno dei suoi film assomiglia ad un altro, né tra i capolavori né tra le pellicole più brutte ed alimentari. Caratteristica che in genere si può attribuire solo agli autori più lucidi.

Come è noto il cinema di Bava ha dato il meglio di sé nelle atmosfere fantastiche degli horror, dei thriller irrazionali e della fantascienza. Il western, oltre probabilmente ad interessargli molto poco, era un genere troppo rigido e lineare per permettergli di sbizzarrirsi nei suoi scarti surreali. Infatti nonostante fosse in piena attività nel periodo di massimo fulgore del genere in Italia, sfiorò soltanto il western, dirigendo due pellicole ai margini opposti di quella stagione: il primo un proto-spaghetti western precedente a “Per un pugno di dollari”, il secondo un anticipo della triste decadenza comica del genere. Il suo miglior tributo al genere è non a caso il molto più obliquo e bizzarro I coltelli del vendicatore, una specie di cupo e violento remake in chiave vichinga de “Il cavaliere della valle solitaria”, con i coltelli al posto delle colt.

Per chi vuole saperne di più su Mario Bava resta fondamentale la preziosa monografia a lui dedicata da Castoro Cinema nel 1995, scritta da Alberto Pezzotta (in cui per altro l'autore, in quell'epoca preistorica per internet e diffusione dei dvd, poteva scrivere solo per sentito dire di due dei tre film che stiamo per andare a trattare). Per un'infarinatura più generale sulla sua filmografia rimandiamo a questa scheda monografica del sito Ondacinema.


1964 LA STRADA PER FORT ALAMO di Mario Bava
con Ken Clark, Jany Clair, Michel Lemoine, Alberto Cevenini, Antonio Gradoli

Film considerato perduto fino a pochi anni fa, con la fama di essere uno delle opere più squallide e alimentari di Bava. Giudizio probabilmente causato anche dall'improponibile versione televisiva con cui il film circolava (raramente) su qualche canale locale negli anni 80. Se invece si visiona il film in una versione nel giusto formato e con i colori intatti, l'opinione può cambiare.

Infatti è un amabile piccolo western dell'epoca pre-leoniana, dal ritmo secco e veloce, tutto a base di giacche blu, banditi e indiani. Niente a che vedere con i futuri "spaghetti", anzi Bava va esattamente nella direzione opposta rispetto al realismo polveroso dei nostri western. Riempendo le inquadrature di cactus palesemente finti, montagne dipinte, rocce di cartapesta, il regista sembra infatti fare di tutto per accentuare un'aria da film girato in studio, come erano girati i classici hollywoodiani dei decenni precedenti. Il che è il più classico dei paradossi baviani se si considera che il film è stato girato probabilmente tutto in esterni. Inoltre non solo non nasconde, ma in certi momenti sembra voler sottolineare l'aria povera da cinema di provincia, tra costumi di simpatica ingenuità e attori di quarta scelta, per altro tutti ben diretti e in parte. Bava dirige quindi con mestiere ed eleganza un falsissimo western americano classico, finto quanto un vaso antico con stampato “made in China”, ma che autodenuncia la propria falsità quasi in ogni inquadratura.

In linea con i futuri spaghetti western c'è giusto l'ambigua figura del protagonista, un reduce della guerra che si traveste da soldato per rapinare una banca, ma tradito dalla banda con cui si era alleato, viene soccorso da dei soldati veri. Gli tocca così recitare la parte e comportarsi eroicamente durante un attacco indiano.


Un film evidentemente girato da un Bava poco o per nulla coinvolto, anche se probabilmente molto divertito. Di personale il regista ci mette i suoi tipici tocchi di classe a livello visivo: il blu delle divise di uno squadrone di soldati uccisi che si intona con dei fiori viola e rossi, falò giallissimi contro cieli saturi di un blu elettrico, caverne rossastre in paesaggi grigiastri, improbabili e coloratissime coreografie indiane, rami contorti che incorniciano le inquadrature, orizzonti spagnoli arricchiti da maestose catene montuose dipinte su un vetro davanti all'obbiettivo. Per non dire dell'assurda coerenza con cui dirige sequenze in cui può essere notte su una riva di un fiume e allo stesso tempo giorno sull'altra. Purtroppo non manca nemmeno qualche fastidiosa scenetta comica. Tipo un bandito che piange come un bambino perché gli stanno tagliando i capelli per farne dei baffi da usare per un travestimento o il manico di una pistola che si scalda “per caso” sulla fiamma di una candela. Trovate puerili che stonano con il tono tutto sommato drammatico della narrazione.

Se Bava si fosse preso solo un po' più sul serio poteva forse uscirne un piccolo gioiello naïf, così com'è resta un piacevole filmetto esteticamente gradevole da guardare.

(Un facile indizio per riconoscere e stare alla larga dalla versione televisiva del film, amputata e praticamente inguardabile che ancora si trova in giro: inizia con la battaglia finale(!) mostrata durante i titoli di testa, mente è tagliato tutto il vero inizio, con il protagonista che trova un portaordini ucciso dagli indiani: scena del resto alla base di tutta la storia.)


1964 RINGO DEL NEBRASKA di Antonio Roman (e di Mario e Lamberto Bava)
con Ken Clark, Yvonne Bastien, Piero Lulli, Renato Rossini, Alfonso Rojas, Livio Lorenzon

Nato come “Nebraska il pistolero” e girato a ridosso de “La strada per Fort Alamo”, con lo stesso protagonista, il marmoreo e biondo Ken Clark, attore non privo di un certo carisma hollywoodiano vecchio stile. Quindi un altro western italo-spagnolo girato prima dell’uscita di “Per un pugno di dollari” (e si vede), anche se verrà distribuito solo nel 1966 con il truffaldino riferimento a Ringo nel titolo. Furbata che per altro ai tempi funzionava alla grande se si pensa che questo film incasserà più di ogni altro film di Bava come regista.

Anche se è sempre difficile capire chi ha fatto cosa in questo genere di piccolissime produzioni, Bava e il figlio Lamberto dovrebbero essere intervenuti nel film affiancando come seconda unità lo spagnolo Antonio Roman, regista qui al penultimo film di una lunghissima carriera e quindi considerato troppo “anziano” per il genere nascente, anche se in fondo aveva solo tre anni più di Bava Senior. A naso, interamente dei Bava potrebbero essere le poche sequenze girate lontane dal piccolo ranch in cui è ambientato praticamente tutto il film, che hanno un tono diverso, più moderno e veloce, con inquadrature strane come un orecchio fatto saltare in primissimo piano da una pallottola.


Come “La strada per Fort Alamo”, anche questo è uno spaghetti degli inizi che gode in genere di pessima fama. Ma anche questo è invece un piccolo, godibile filmetto con la sua simpatica aria da western hollywoodiano taroccato. Quasi tutto ambientato in un ranch e nei suoi dintorni, propone infatti una trama tutta intrighi, false accuse, agguati, passioni e inseguimenti da horse opera con protagonista il cavaliere solitario Nebraska “detto Ringo” (sic!). Rispetto ai colori da fumetto del film di Bava, questo imita i classici anche a livello visivo, con una notevole fotografia dai colori naturali. Di “spaghetti” c’è praticamente solo la trovata del protagonista che si sostituisce ad una salma sul letto di morte per fregare i cattivi alla fine. Molto curioso anche il personaggio femminile, decisamente lontano dalla morale dei film americani: sposata, ma tutt’altro che un angelo del focolare, gira tutto il film scollatissima, la vediamo praticamente andare in calore per il protagonista fin dalla prima volta che lo vede, arrivando a smaniare per lui anche davanti al marito sul letto di morte.


1969 ROY COLT E WINCHESTER JACK di Mario Bava
con Brett Halsey, Charles Southwood, Marilù Tolo, Isa Miranda, Rick Boyd, Teodoro Corrà

Roy Colt e Winchester Jack sono la versione scema e litigiosa di Butch Cassidy e Sundance Kid. Si menano tra loro già nei titoli di testa, si rimeneranno, meneranno e saranno menati da altri per tutto il film, che vede una galleria di macchiette alla caccia di un tesoro nascosto.

Sembra impossibile che tra i due freschi e ingenui filmetti precedenti e questo decadente filmaccio siano passati solo cinque anni. Sembrano pellicole appartenenti a due epoche lontanissime, sia a livello iconografico che a livello di approccio al genere. Se nei due film del '64, pur nella loro frivolezza, si avvertiva un sincero affetto per i “film di cowboy”, in questo il genere sembra già una materia in avanzato stato di putrefazione, che Bava tratta con totale distacco e forse anche un po' di disprezzo. Dall'ironia bonaria si passa al dileggio dei luoghi comuni, da un'atmosfera di sgangherata simpatia si passa ad un'aria di svogliato squallore.

Se in “La strada per Fort Alamo” Bava aveva giocato con l'iconografia dei classici americani, qui porta il western nel suo territorio, mettendo in scena un west irreale e nebbioso, dalle atmosfere quasi barbariche. Anche perché al solito deve fare di necessità virtù: tutte le scene avvolte nella nebbia creata con i fumogeni servono soprattutto per nascondere l'aria inconfondibilmente mediterranea dei paesaggi e dei boschi in cui si aggirano i personaggi. Quello scenografico è l'unico elemento positivo del film, ma anche in questo si nota la malavoglia e la scarsa cura del regista, che sembra ricorrere sporadicamente ai suoi tipici giochi cromatici più per abitudine che per dare un senso a quello che sta girando.

Il film ha il molto dubbio merito di anticipare la svolta comicarola del genere, che esploderà da lì a poco con il fenomeno di Trinità. Abbiamo quindi una gran abbondanza di cazzotti, personaggi che si comportano in modo infantile, un più insistito ricorso alle parolacce e alcune tra le prime gag scatologiche viste nel genere. (Tutto sommato resterà invece poco sfruttato nel filone l'elemento sexy, qui blandamente accennato con la presenza di un'indiana un po' strega e un po' puttana e una sequenza in un bordello.) Ovviamente non si ride praticamente mai, tanto tutto è talmente puerile, banale e insensato. La trama gira a vuoto, ruotando attorno alla solita mappa del tesoro che passa di mano in mano, elemento narrativo immancabile nei western di più infima produzione. Un film francamente difficile da vedere per intero. Anche se poi in molti “fagioli western” dei 70 si riuscirà incredibilmente a fare di peggio.

Tommaso Sega

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