venerdì 25 maggio 2012

i registi 13 - Joaquìn Luis Romero Marchent 2

JOAQUÌN LUIS ROMERO MARCHENT
Il maestro dimenticato 



Parte 2 – Dopo Sergio Leone

Con l’esplosione degli spaghetti western italiani Marchent (e con lui tutto il western spagnolo, il cosiddetto "chorizo western") è declassato da autore di primo piano e con budget di tutto rispetto a regista di secondo piano alle prese con budget risicati. Se i suoi primi western avevano goduto di enorme successo commerciale, soprattutto in Spagna, da qui in avanti le sue pellicole passano totalmente inosservate e ancora oggi vengono prese in scarsa o nessuna considerazione. Anche se a vederli ci si accorge che alla bellissima trilogia iniziale del regista hanno da invidiare solo la ricchezza dei budget.


1964 LA MUERTE CUMPLE CONDENA (100.000 dollari per Lassister) 
di Joaquìn Luis Romero Marchent con Robert Hundar, Pamela Tudor, Luigi Pistilli, Jesus Puente, Roberto Camardiel, José Bódalo, Aldo Sambrell, Benito Stefanelli, Robert Johnson Jr

E di serie B è appunto la produzione di "100.000 dollari per Lassister" (ma il titolo spagnolo è tipicamente alla Marchent: "La morte esegue la condanna"). Girato in contemporanea a "Per un pugno di dollari" e "Una pistola per Ringo", a livello stilistico non ha assolutamente nulla dei nascenti spaghetti western, è invece un elegante e asciuttissimo western all'americana, il cui modello principale sembra Budd Boetticher, con un intreccio che riprende spunti da "Il cavaliere della valle solitaria", contaminato da parecchi spunti da commedia. 

Ma il protagonista, Lassister, finta aria da avvocato e pieno di trucchi, ha già il cinismo avido e sornione dello straniero senza nome di Leone e l'aria beffarda e indifferente del primo Ringo. Lo interpreta l'attore icona di Marchent, un irresistibile Robert Hundar/Claudio Ungari, un attore che davvero meritava infinitamente più fortuna. La trama vede un prepotente ranchero ridotto su una sedia a rotelle che vuole cancellare il suo passato da bandito. Suo malgrado deve rivolgersi al misterioso protagonista, che per i suoi servigi pretende la cifra del titolo italiano. Il tono è brillante ed ironico, ma il film è molto più sofisticato e complesso di quel che può apparire. Anche se dissimulata è infatti l'ennesima storia di vendetta dal finale pessimista alla Marchent. Una delle trovate più originali del film è l'aver donato una personalità e dell'umanità ai tipici pistoleri di cui si circonda il cattivo. Le loro morti, spesso inaspettate, lasciano un retrogusto amaro. Hanno le facce indimenticabili di Aldo Sambrell (taciturno e spietato), Luigi Pistilli (calmo e professionale), Benito Stefanelli (riluttante e in fondo onesto). A loro va aggiunto il notevole personaggio del figliastro del cattivo, amletico e psicotico. Decisamente originali anche i personaggi della tipica vedovella (molto) gnocca e dei suoi due frugoletti, che rapinano gli incauti viaggiatori, con tanto di zio che è uno sciacallo che spoglia i morti. Un film interessante e divertente, che sorprende e spiazza gli spettatori, come il suo protagonista sorprende e spiazza i suoi avversari.


1965 EL OCASO DE UN PISTOLERO (Mani di pistolero o Destino di un pistolero)
di Joaquìn Luis Romero Marchent e Rafael Romero Marchent con Craig Hill, Piero Lulli, Gloria Milland, Carlos Romero Marchent, Conchita Núñez, Jesús Puente, José Guardiola, Raf Baldassarre 

Diretto insieme al fratello esordiente Rafael, che firma ufficialmente la regia. Ma una volta visto il film, riscontrata l’eleganza con cui è girato e tenuto conto dei magrissimi risultati ottenuti poi dall'anonimo Rafael nel genere, ci sono pochi dubbi su a chi vada effettivamente attribuito. Il film segna la rottura tra Marchent e i produttori italiani. In un certo senso è anche il suo addio agli "spaghetti" in generale. Indispettito nel non veder riconosciuta la sua importanza nel genere e nel vedersi considerato un regista di serie B, meno considerato degli emergenti colleghi italiani, manda a quel paese tutti quanti e praticamente si ritira dalla carriera come regista, lasciando il campo al fratello Rafael, che invece diventerà uno dei registi più prolifici del versante spagnolo degli spaghetti, dirigendo una dozzina di titoli (occhio e croce tutti di serie F o Z).

Dopo la parentesi brillante per quanto amara del film precedente, sul West di Marchent cala nuovamente quell'atmosfera di ineluttabile tristezza e pessimismo cosmico che sono il suo marchio di fabbrica. E' un complesso e crepuscolare western psicologico, dallo stile elegante e secco, come sempre incentrato sulla velenosa contagiosità della vendetta e della violenza. E' anche il memorabile e intenso esordio nel genere per Craig Hill, che replicherà subito dopo con il folgorante Per il gusto di uccidere di Tonino Valerii. Un vero peccato che il resto della sua carriera non sia decisamente proseguita sugli stessi livelli. Mentre fugge dalla legge con la famiglia appresso, un pistolero vede suo figlio in fasce colpito per errore da uno sceriffo. La fuga continua al rallentatore nei suggestivi titoli di testa. Alla fine dei titoli il protagonista si risveglia, con moglie e figlio accanto a lui. Il prologo era solo un tormentato ricordo? Seguono venti minuti di western bucolico, tra coppiette felici e cani scondinzolanti, che sembra preannunciare l' ennesima variante de "La pistola sepolta", con il pistolero che ha appeso la pistola al chiodo e che, costretto dagli eventi, riprenderà in mano per difendere la pace della famiglia e della comunità. Invece è tutta un' illusione. La felicità del protagonista e di sua moglie si basa su una tragica menzogna e la violenza esploderà devastante e senza pietà per nessuno. La seconda metà del film, con lo scatenarsi di una tragica e sanguinosissima faida e la discesa del protagonista in una spirale di violenza e autodistruzione è grandissima scuola western. Con splendida ambiguità la rigorosa condanna morale della violenza da parte dell'autore non impedisce allo spettatore di esaltarsi nelle scene in cui il protagonista fredda ad uno ad uno i suoi nemici. Finalone epico alla Marchent, tragico e al solito senza scampo per nessuno. 


1967 FEDRA WEST (Io non perdono... uccido) 
di Joaquìn Luis Romero Marchent con James Philbrook, Norma Bengell, Simón Andreu, Luis Induni, Emil C. Caba, Maria Silva

In piena epoca d’oro dei western spaghetti, Marchent non solo non si adegua all’andazzo generale, ma ispirandosi nientemeno che al mito greco di Fedra (la moglie che ha una relazione con il figliastro provocando volutamente l'ira omicida del marito) gira un'autentica tragedia ambientata nel West, un cupo dramma famigliare e psicologico che rifiuta tutti canoni dei modelli italiani, a cominciare dalla figura del protagonista, un giovane avvocato pacifista che rifiuta la violenza, incarnata invece dal padre, un ranchero dispotico che passa il suo tempo a torturare e linciare i ladri di bestiame.

Il film maledetto di Marchent, probabilmente ispirato al celeberrimo "Duello al sole" di King Vidor. Potrebbe essere il film in cui il lato melodrammatico è sfuggito dalle mani al regista, ma se è folle, eccentrico e violento come appare sulla carta potrebbe essere invece uno dei suoi capolavori. Purtroppo ne possiamo parlare solo per sentito dire, perché la pellicola è praticamente introvabile. Ad oggi ne circola solo una rara copia in inglese, malmessa e gravemente mutilata di molte scene, tanto da rendere persino difficile il capirne la storia.

Dovrebbe trattarsi di un film piuttosto torrido, sia dal punto di vista della violenza che del sesso. (Cosa singolare considerando che si tratta di un film quasi interamente spagnolo e la la censura franchista di allora era particolarmente severa verso i film autoctoni, mentre per ovvie ragioni economiche chiudeva invece un occhio sulle coproduzioni a maggioranza italiana). L'affascinante Norma Bengell era stata protagonista di un altro western spaghetti atipico e con al centro una tragedia famigliare, il bellissimo I crudeli di Sergio Corbucci.

Per una volta il titolo italiano era migliore di quello spagnolo.


1970 UN PAR DE ASESINOS (Lo irritarono... e Santana fece piazza pulita)
di Rafael Romero Marchent con Gianni Garko, William Bogart, María Silva, Andres Mejuto, Carlos Romero Marchent, Raf Baldassarre, Cris Huerta 

Film interamente diretto dal fratello Rafael, ma di cui il Marchent maggiore firma soggetto e sceneggiatura, che sono infatti la parte più interessante del film. Peccato che a dirigere tutto ci sia appunto il fratello minore, che anche qui come in tutti e dodici i suoi western si conferma regista senza un vero stile, smorto e trasandato. 

Film in Italia afflitto anche dal solito titolo per gonzi. Il sempre ottimo Garko in origine si chiama Larry e il personaggio che interpreta non ha nulla a che vedere con il suo Sartana, con la “r” o con la “n” che dir si voglia. Ricorda molto il Sundance Kid di Robert Redford piuttosto, anche per via del doppiaggio. Infatti siamo dalle parti delle pellicole con al centro una coppia di criminali simpatici che se la vedono con criminali antipatici e sceriffi più o meno onesti. Il compare di Garko è il gigionesco William Bogart, nome d’arte anglofono, faccia da messicano, ma che in realtà è un italianissimo Guglielmo Spoletini. Sempre ricalcando il modello di Butch Cassidy, ad un certo punto entra in scena anche una bellissima pupa come terzo componente della banda, non meno cinica e spietata dai due compari.

L’originalità della storia scritta da Marchent sta proprio nel fatto che i due protagonisti rendono giustizia al titolo originale: "Un par de asesinos". Sono quindi davvero una coppia di assassini senza scrupoli e amorali, nulla a che vedere con i fuorilegge romantici interpretati dalla coppia Paul Newman e Robert Redford, anche perché sono per altro prontissimi ad uccidersi anche l'un l'altro. Se suscitano la simpatia degli spettatori è solo perché hanno a che fare con gente infinitamente peggiore di loro. Come l’inquietante famiglia Kirby, che entra in scena a metà film con una lunga e crudele mattanza stile Manson Family (sequenza probabilmente aggiunta per allungare il brodo ma di una torva efficacia) e ne esce poche scene dopo, passando dal ruolo di carnefici a quello di vittime, quando finiscono nelle mani non meno spietate dei due protagonisti. In definitiva un western picaresco girato in modo povero e sbrigativo, ma nobilitato da un cast di prim'ordine e da una visione autenticamente cinica del west. 


1972 CONDENADOS A VIVIR (Cut Throats Nine)
di Joaquin Luis Romero Marchent, con Robert Hundar, Emma Cohen, Alberto Dalbés, Antonio Iranzo, Manuel Tejada, Ricardo Dàaz, José Manuel Martín

Il definitivo addio al western e il capolavoro crepuscolare di Marchent. Ha poco del western e ancor meno dello spaghetti, assomiglia più ad un horror e ad un certo tipo di film d'autore che andavano di moda all'epoca, da Polansky a Joseph Losey.

"Western interamente spagnolo, mai distribuito in Italia e famoso per essere considerato da più parti come il più violento, crudo ed estremo mai realizzato. In realtà secondo il protagonista, il grande Robert Hundar (al secolo Claudio Undari, il primo eroe in assoluto del nostro cinema western e per grinta e prestanza fisica una specie di Charlton Heston italiano), il film esisterebbe in double version: una soft per il mercato spagnolo e una molto più efferata per il mercato americano, per la quale su richiesta del distributore vennero realizzati appositamente degli “inserti” per renderla più forte (nelle proiezioni venivano addirittura date agli spettatori delle mascherine per “proteggersi” contro le scene troppo raccapriccianti). La cosa, in effetti, sembra abbastanza evidente, perché alcune scene di violenza sono realizzate in modo piuttosto asciutto e senza esibizione di sangue, mentre altre in modo molto più efferato e con close-up scioccante, dando proprio l’idea di essere state “rafforzate”. Da dire, comunque, che i dettagli shock sono perfettamente inseriti nello sviluppo delle trama e ben legati con il resto del girato e anzi contribuiscono senza dubbio ad accrescere il fascino malsano del film, in cui l’utilizzo dello splatter in chiave decisamente espressiva anticipa di parecchio gli horror del nostro Lucio Fulci. 
Al di là delle scene cruente, comunque, si tratta in ogni caso di un bellissimo film, sicuramente un “unicum” all’interno del genere spaghetti, con cui ha veramente pochissimi punti in comune, talmente “nero”, angosciante ed allucinato che al confronto Il grande silenzio sembra quasi un ottimistico inno alla vita.

Un soldato dell’esercito accompagnato dalla giovane figlia sta scortando un gruppo di pericolosi assassini incatenati tra di loro fino a una prigione nelle montagne. Il carro viene assalito da una banda di predoni e dopo uno scontro a fuoco, nel quale i soldati di scorta vengono uccisi, il carro distrutto e i cavalli perduti, il sergente si trova a dover condurre a piedi se stesso, la figlia e i selvaggi criminali attraverso le montagne piene di neve. Il viaggio, già di per sé effettuato in condizioni impossibili e disumane, si trasformerà in un autentico gioco al massacro quando i prigionieri scopriranno che le catene che li legano sono fatte d’oro. In un’escalation di orrore senza limiti i banditi si daranno da fare per massacrare il sergente e violentare la figlia. Finirà malissimo per tutti in uno dei finali più cinici e nichilisti mai visti al cinema.

E’ un western nerissimo senza eroi e senza nessuna speranza, quello di Marchent, a cui la fotografia dalle tonalità cupe, la musica sinistra e l'uso straniante del flashback donano un’atmosfere lugubre e malata, molto vicina all’horror e a certi racconti di Ambrose Bierce, girato visibilmente con pochissimi mezzi (c’è una scena simile a quella de Il buono, il buono, il cattivo, in cui i prigionieri per liberarsi dalle catene le appoggiano sulle rotaie della ferrovia, risolta ingegnosamente senza far vedere il treno, che evidentemente non c’era a disposizione), ma con pochi eguali per cattiveria e crudeltà: ogni azione è in esclusiva funzione della lotta per la sopravvivenza e a dominare su tutto sono le pulsioni e la ferocia degli uomini, mentre l’indifferenza della natura, con l’ambientazione nevosa nelle montagne ad aggiungere un ulteriore tocco di gelida desolazione, fa da silenziosa spettatrice." (Mauro Mihich)

"Tutto è portato al limite, per prima cosa il corpo umano, variamente dilaniato ed umiliato, l'istinto di sopravvivenza e l'avidità, che sfociano nella violenza, ma anche e soprattutto il linguaggio cinematografico stesso: far uscire di scena il protagonista (che il regista non manca di dichiarare tale attraverso l'utilizzo della voce fuori campo) dopo nemmeno un'ora non è cosa da poco in quanto a trasgressione! Il limite è anche quello oltre il quale la macchina da presa non può spingersi: Marchent lo sfida, mostrandoci quelle che potrebbero benissimo essere le prime budella della storia del cinema. L'uso di flashback ed ellissi è esemplare, il rewind sulla casa crollata è un colpo di genio e Undari avrebbe davvero meritato maggior fortuna. Un cinema così libero non esiste più." (Paolo D’Andrea)

Quello che che è probabilmente l'ultimo grande maestro del cinema western ancora in vita, attualmente vive a Madrid ormai novantenne.  

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