MONTE HELLMAN
Straniero su strade straniere
di Tommaso Sega (T.S.), Mauro Mihich (M.M.) e Paolo D’Andrea (P.D.)
Autore misterioso, affascinate, incompreso e solitario, la figura di Monte Hellman è sicuramente unica in tutta la storia del cinema. Quella di un regista che ha quasi sempre lavorato entro i confini della serie B, ma spesso anche C e D, e che è comunque sempre riuscito ad esprimere una poetica ed un’idea di cinema assolutamente uniche e personali, il più delle volte estranee non solo alle ragioni commerciali, ma anche all'idea stessa di dover confrontarsi con le aspettative di un qualsiasi tipo di pubblico. La figura di Hellman non è quella del regista di culto legato al cinema di genere, perché troppo lontano da ogni convenzione spettacolare, ma non è nemmeno quella dell'autore "ostico ma gratificante" amato dalla critica, perché troppo obliquo e difficilmente inquadrabile in comodi teoremi. I suoi pochi titoli considerati significativi (praticamente solo "La sparatoria" e "Strada a doppia corsia") sono stati valutati tali solo anni più tardi dalla loro uscita, e ancora recentemente il suo ritorno al cinema dopo più di vent'anni di assenza è caduto nell'indifferenza generale.
Per i dati biografici più scarni vi rimandiamo alla pagina di Wikipedia, mentre per approfondire al meglio la sua figura consigliamo invece il libro American Stranger. lI cinema di Monte Hellman, edito dalla Cineteca di Bologna in occasione della retrospettiva a lui dedicata nel 2009. Curata da Michele Fadda, questa bella monografia contiene una serie di saggi inediti, alcuni materiali già apparsi su riviste straniere (tra cui un contributo di Quentin Tarantino), diverse interviste (tra cui una totalmente inedita) e la biografia e la filmografia completa del regista, comprensiva quindi anche di tutti quei lavori, che sono poi la maggior parte, di cui ha realizzato solo il montaggio, o che sono stati iniziati da altri e completati da lui, oppure cominciati da lui e poi affidati ad altri, oppure diretti in collaborazione (come quelli per Roger Corman ad inizio carriera).
La sua filmografia ufficiale come regista, infatti, in ormai più di cinquant'anni di attività conta la miseria di solo 11 titoli.
1959 Beast From Haunted Cave
1964 Flight To Fury
1964 Back Door To Hell
1965 Le colline blu (Ride In The Whirlwind)
1966 La sparatoria (The Shooting)
1971 Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop)
1974 Cockfighter
1978 Amore, piombo e furore (China 9, Liberty 37)
1988 Iguana
1989 Silent Night, Deadly Night 3: Better Watch Out!
2010 Road To Nowhere
Con uno strappo alle consuetudini del nostro blog, oltre che dei suoi tre film western, ci occuperemo anche delle altro quattro pellicole fondamentali della sua carriera, legate da un'identica atmosfera di viaggio - fisico e mentale - verso il nulla.
Per non deragliare troppo non ci occuperemo invece dei suoi primi film in bianco e nero, un film horror (Beast From Haunted Cave), un noir avventuroso e un film di guerra (Flight To Fury e Back Door To Hell: due pellicole "gemelle" con un giovanissimo Jack Nicholson come protagonista). Opere impersonali realizzate per ragioni alimentari, anche se probabilmente più interessanti di quanto in genere non si dica e che sarebbero comunque da recuperare. (T.S. e M.M.)
1965 LE COLLINE BLU (Ride in the Whirlwind)
di Monte Hellman, con Cameron Mitchell, Millie Perkins, Jack Nicholson, Katherine Squire, George Mitchell, Rupert Crosse, Harry Dean Stanton, John Hackett, Tom Filer, B.J. Merholz
Dopo essere stati scambiati per sbaglio per banditi e dopo aver visto impiccare un loro compagno, due cowboy (un Jack Nicholson agli esordi - anche sceneggiatore del film - e Cameron Mitchell, grande attore ingiustamente dimenticato, che nella sua carriera ha interpretato western americani, spagnoli, italiani e messicani, spaziando dalle produzioni di serie A a quelle di serie Z) fuggono da una posse di sceriffi, si nascondono in una fattoria prendendo in ostaggio una famiglia di coloni.
Western a low budget e misconosciuto, ma epocale e "rivoluzionario", con cui Monte Hellman, giocando di sottrazione con una trama minimale, svuota moduli e regole del genere, con l’utilizzo di uno stile anti-epico e anti-retorico e una messa in scena spoglia, scabra ed essenziale. Il film, assieme al “gemello” (realizzato insieme al costo di uno solo) "La sparatoria", rimase per lungo tempo inedito anche negli Stati Uniti e venne distribuito in Italia solo nel 1978, a seguito della popolarità raggiunta da Nicholson come interprete di "Qualcuno volò sul nido del cuculo".
Il cinema di Hellman è contrassegnato dall’incomunicabilità, la solitudine, la casualità e l’insensatezza (tanto che per definirlo sono stati tirati in ballo Beckett, Bresson e Antonioni): in una delle scene più clamorose del film i “buoni” si sparano addosso tra di loro uccidendosi a vicenda. L’unica costante è la violenza che sottende alla società e ai rapporti umani, spogliata completamente però dai concetti di colpa, giustizia o vendetta. (M.M.)
Il West di Hellman è un luogo enigmatico e metafisico, fatto di rocce e vento, attese e silenzi, primi piani improvvisi e campi lunghissimi, tagli di montaggio secchi ed ellittici.
Il senso di spaesamento e l’impossibilità di trovare degli schemi codificati e immediatamente riconoscibili, e degli eroi in cui identificarsi, disattende ovviamente tutte le aspettative dello spettatore. Quelli di Hellman sono stati anche definiti “western esistenzialisti”: le colline blu che danno il titolo al film – e che sono il confine oltre i quali gli uomini dello sceriffo non potranno più inseguire il protagonista ingiustamente braccato – diventano quasi l’espressione di un altrove irraggiungibile che dona al film il sapore dell'apologo. (M.M.)
La messa in scena è talmente disadorna da far sembrare autori asciutti e senza fronzoli come Hawks e Boetticher dei registi barocchi. Hellman toglie tutto quello che può togliere. Nessun approfondimento psicologico, nessuno tentativo di rendere simpatici o antipatici i personaggi, nessuna concessione allo spettacolo o al mito del West, ma nemmeno al realismo e alla ricostruzione storica. Costumi e scenari sono quelli del più povero western senza budget (cosa che in effetti il film è), mostrati nel modo più spoglio e neutro possibile. Eppure proprio questo squallore ricercato carica la storia di una tensione e di una suspense in alcuni punti quasi insostenibile, dato che la mancanza di un qualsiasi punto di riferimento per lo spettatore rende impossibile anticipare gli avvenimenti. Un capolavoro utile anche per capire quanto come spettatori siamo legati alle convenzioni spettacolari. (T.S.)
1966 LA SPARATORIA (The Shooting)
di Monte Hellman con Warren Oates, Millie Perkins, Jack Nicholson, Will Hutchins
Una misteriosa ragazza assolda due poveracci per seguire un uomo nel deserto. Al gruppo si unisce uno spietato pistolero nerovestito complice della ragazza.
Grande Nicholson nella parte del pistolero luciferino e nerovestito alla Jack Palance, ma Warren Oates nella parte dello spaesato protagonista Willett Gashade forse è addirittura più bravo di lui. Già presenza sottilmente inquietante nel film precedente anche Millie Perkins da sfoggio di notevole carisma e si ritaglia il personaggio di una dark lady scostante eppure affascinante.
Un film geniale. Nella storia del cinema, pochissimi altri registi sono stati capaci di ottenere un risultato così artisticamente “alto” avendo a disposizione un budget tanto basso (così su due piedi vengono in mente Leone, Romero, Carpenter...). Come in "Le colline blu" – girato negli stessi set e con le stesse maestranze tecniche e, in parte, gli stessi attori – gli elementi formali del genere (vendetta, inseguimento, amicizia virile...) vengono spogliati di senso in chiave antispettacolare e antihollywoodiana, contro il ritmo e gli schemi tradizionali. A differenza de "Le colline blu", ancora legato a un intreccio convenzionale, qui la trama stessa diventa imperscrutabile e misteriosa e la narrazione rarefatta e sospesa, le motivazioni dei personaggi si fanno più vaghe e confuse, e anche il paesaggio diviene via via sempre più astratto e metafisico, dando al film una dimensione allucinata e metaforica, da western concettuale.
Riempiendo il film di tempi morti e rallentando al massimo il ritmo dell’azione (a dispetto del titolo l’unica sparatoria del film avviene solo nel finale) il regista, togliendo ogni punto di riferimento allo spettatore che, come il protagonista, non ha idea verso quale direzione stia andando il film, riesce comunque a creare una tensione altissima. (M.M.)
Se possibile ancora più spoglio e minimalista del precedente nella messa in scena, ma con un'atmosfera ipnotica e oscura per molti versi opposta allo squallore programmatico de "Le colline blu". L'enigmaticità della vicenda, i cui nodi non si sciolgono nemmeno nel finale, carica ogni sequenza di significati sfuggenti e ambigui. Anche stavolta non c'è nessun approfondimento psicologico, ma i personaggi hanno una sorta di fascino arcano, allusivo e allegorico, come i personaggi enigmatici che popolavano allora i testi delle ballate di cantautori come Bob Dylan o Leonard Cohen. Probabilmente Hellman lascia all'immaginazione dello spettatore il compito di immaginare una storia di cui il film racconta forse solo gli atti finali. (T.S.)
Rifiutando l’iconografia tradizionale del western classico, ma anche quella nostalgica di quello crepuscolare e quella iconoclasta della “new hollywood”, i due western gemelli di Hellman rimangono di fatto degli “unicum” nella storia del cinema western, senza progenitori e senza discendenti, anche perché peraltro non hanno avuto il minimo riscontro commerciale. (M.M.)
1971 STRADA A DOPPIA CORSIA (Two-Lane Blacktop)
di Monte Hellman, con Warren Oates, James Taylor, Laurie Bird, Dennis Wilson, David Drake, Richard Ruth,Rudy Wurlitzer, Jaclyn Hellman, Bill Keller, Harry Dean Stanton
Il Pilota ed il Meccanico, interpretati rispettivamente da James Taylor e Dennis Wilson si guadagnano da vivere partecipando a corse automobilistiche clandestine a bordo di una vecchia Chevrolet truccata. Incontrano per strada dapprima una ragazzina (la bellissima Laurie Bird) ed in seguito il possessore di una fiammante Pontiac G.T.O. gialla (ancora Oates, attore feticcio del regista), con il quale intraprendono una sfida con in palio le rispettive automobili. (P.D.)
I film di Hellman sono unici, uguali a nessun altro. Questo probabilmente è il suo capolavoro. Sostanzialmente costituito dal ripetersi di situazioni tipo, è in pratica privo di trama in senso classico: i due protagonisti non parlano che di motori, valvole, carburatori, mentre il personaggio di Oates non fa altro che raccogliere autostoppisti, ai quali racconta ogni volta una versione diversa del modo in cui si è procurato l'automobile, di cosa farà in futuro, del perché è in viaggio. Un vuoto di senso e riflessione che soltanto la ragazza pare capire, senza però riuscire a fuggirne. Se da un film on the road ci si attende inseguimenti, grandi scene d'azione, qui le gare non vengono praticamente mostrate, l'azione è statica come i suoi protagonisti. Quel che ne emerge, come per una volta ha ben notato Morandini, è la constatazione pessimista e senza speranza del "vuoto esistenziale, dell'alienazione e della solitudine dell'uomo-massa nell'America di Nixon": una generazione che non ha né obiettivi né mete da raggiungere, che sopravvive alla giornata, impegnata in un costante viaggio verso il nulla, in una strada a doppia corsia che pare senza fine. (P.D.)
E' un film che potrebbe continuare all'infinito, come infinita è la monotonia della vita dei suoi personaggi, nella quale non accade mai nulla di nuovo ed anche l'amore è meccanico quanto gli ingranaggi di un motore truccato. Il finale è semplicemente geniale: la pellicola del film prende fuoco, ponendo così involontariamente fine ad un viaggio che altrimenti sarebbe continuato eternamente senza direzione. Non c'è musica a sublimare o drammatizzare, la regia è distaccata come un narratore verista, non giudica, non lascia trapelare simpatia né compiacimento, lascia che il film parli (o meglio, non parli) da sé. (P.D.)
Note sul film (M.M.):
- Strada a doppia corsia è il film che ha definitivamente affossato la (peraltro mai effettivamente nata) carriera registica di Monte Hellman: unico suo film prodotto da una “major”, la Universal, con il non indifferente budget di un milione di dollari (faceva parte di una serie di pellicole a tema giovanilistico, insieme a "Taking Off" di Milos Forman, "Fuga da Hollywood" di Dennis Hopper e "Il ritorno di Harry Collings" di Peter Fonda), fu un totale flop al botteghino, anche perché distribuito poco e male.
- I due protagonisti (il pilota e il meccanico) James Taylor e Dennis Wilson erano due famose star della scena musicale dell’epoca, l’uno celebre cantante folk e l’altro batterista dei Beach Boys. Entrambi al loro primo film, dimostrano una notevole presenza scenica e, soprattutto Taylor, anche ottime qualità recitative. Taylor è ancora in attività, mentre Wilson, come noto, è morto nel 1983 a soli 39 anni.
- Warren Oates, oltre che uno dei miei attori preferiti in assoluto, era l’interprete-feticcio di Monte Hellman (ma anche di Sam Peckinpah) con cui lavorerà in tutti i film a partire da La sparatoria fino ad Amore, piombo e furore e solo recentemente sta cominciando a venire rivalutato come merita. Oates è scomparso prematuramente nel 1982 a 54 anni a causa di un attacco di cuore (probabile conseguenza di una vita di eccessi).
- La povera Laurie Bird, che interpreta il bellissimo ruolo della ragazza vagabonda e promiscua, appena diciassettenne al momento delle riprese, era legata sentimentalmente al regista Monte Hellman, che la dirigerà anche in Cockfighter. Successivamente avrà una lunga relazione con il cantante Art Garfunkel. E’ morta suicida nel 1979, ad appena 25 anni.
- Il film non ha colonna sonora, ma dalla musicassette della radio della Pontiac GTO di Warren Oates si sentono molti spezzoni di canzoni dell’epoca, tra cui Moonlight Drive dei Doors e, in una scena bellissima ad una stazione di servizio, "Me & Bobby McGee" di Kris Kristofferson, il cui ritornello "Freedom’s just another word for nothin’ left to lose" si adatta perfettamente alle atmosfere e ai personaggi del film.
- Ottima la fotografia di Jack Deerson, ma Hellman è un anti-paesaggista per eccellenza: non c’è una sola inquadratura in tutto il film tesa a magnificare o anche solo illustrare la bellezza del paesaggio e dei luoghi dove i personaggi si trovano a passare, in aperta contrapposizione, quindi, con "Easy Rider", film sull’onda del cui successo "Strada a doppia corsia" è stato realizzato, di cui rifiuta anche l’idea del viaggio come simbolo di ribellione e libertà.
- Rudy Wurlitzer, sceneggiatore (insieme a Hellman) di "Strada a doppia corsia", ma anche del "Pat Garrett & Billy the Kid di Peckinpah", è un romanziere di culto negli USA, legato alle istanze della controcultura e famoso per il suo stile sperimentale e psichedelico, oltre che grande appassionato di western. Nessun suo libro è mai stato tradotto in Italia.
- Le due auto protagoniste del film, la Chevrolet 150 del 1955 (esteticamente un rottame, ma con il motore di un bolide) e la Pontiac GTO del '70 del figurano anche nei titoli di coda tra gli interpreti del film. In effetti lo sono.
- Bruce Springsteen per sua stessa ammissione si è ispirato espressamente al film di Hellman per la sua celebre canzone "Racing in the Streets", contenuta nell’album del 1978 "Darkness on the Edge of Town".
- Sam Peckinpah dixit: “Penso che il ruolo del critico sia molto importante per un film. Per questo m’incazzo quando vedo i critici che bucano i film buoni e sostengono delle stronzate, come hanno fatto con "L’ultimo spettacolo" (di Peter Bogdanovich), mentre hanno completamente ignorato Strada a doppia corsia che secondo me era un capolavoro”.
1974 COCKFIGHTER (inedito in Italia)
di Monte Hellman, con Warren Oates, Harry Dean Stanton, Richard B. Shull, Ed Begley Jr., Laurie Bird, Troy Donahue, Robert Earl Jones, Patricia Pearcy, Millie Perkins, Steve Railsback
Un film semi-documentaristico sui combattimenti dei galli nello stato della Georgia.
In questo scenario bucolico e sudista Hellman innesta la storia dell’ossessione di uno di questi “cockfighters” (Warren Oates) che, dopo aver perso il suo gallo migliore in una scommessa tra ubriachi in un motel, sceglie di non pronunciare più una sola parola finché non riuscirà ad ottenere la medaglia di cockfighter dell’anno, sacrificando ad essa amori, affetti e rapporti umani. (M.M.)
Il film è tratto dal libro "Nato per uccidere" di Charles Willeford (tradotto in Italia da Hobby & Work) e non è mai stato distribuito in Italia, sia per la sua completa inclassificabilità e anti-commercialità ma anche probabilmente perché mettendo in scena autentici combattimenti tra galli è divenuto bersaglio privilegiato delle associazioni animaliste, che lo hanno accusato di crudeltà verso gli animali. Accuse non del tutto campate per aria visto che quelle dei combattimenti, con conseguente morte degli sventurati pennuti, sono tutte scene piuttosto crudeli e non mancano nemmeno momenti piuttosto impressionanti come quello di Warren Oates, che all’improvviso e senza motivo, spicca di netto con un’accetta la testa di uno dei poveri animali. Per lo stesso motivo il film è tuttora proibito in alcuni paesi, tra cui l’Inghilterra. Nei luoghi dove è stato girato e all'epoca delle riprese il combattimento tra galli era invece una pratica legale (o almeno credo). In tutti i casi la scena della gara finale, con una serie di primi piani sempre più ravvicinati tra l’occhio vitreo di un gallo morente e la faccia sconvolta della fidanzata del protagonista, è un gran pezzo di cinema, come anche l’addio tra i due. (M.M.)
Grande l’interpretazione di Warren Oates (nello stesso anno interprete anche di "Voglio la testa di Garcia" di Peckinpah, per cui avrebbe meritato l’Oscar) e ottima la fotografia di Nestor Almendros (Oscar perI giorni del cielo). Nonostante i cockfighters siano visti un po’ come i piloti di corse clandestine di Strada a doppia corsia e la fascinazione che il regista riesce a trasmettere per le sottoculture americane il film non riesce forse a divenire un apologo come il precedente.
Geniale, per quanto fuorviante, la tagline pubblicitaria: "He came into town with his cock in hand, and what he did with it was illegal in 49 states." (M.M.)
1978 Amore piombo e furore (China 9, Liberty 37)
di Monte Hellman. Con Fabio Testi, Warren Oates, Jenny Agutter, Franco Interlenghi, Sam Peckinpah
Per sfuggire all'impiccagione un pistolero accetta di eliminare un coltivatore che non vuole vendere il suo terreno a una compagnia ferroviaria. Ma poi, invece, scappa con la moglie dell'uomo, che lo bracca.
Il misterioso titolo originale "China 9 Liberty 37" proviene da un cartello che appare all'iniziò del film: China è il paese di cinesi in cui Testi sta per essere impiccato, Liberty è il nome chiaramente metaforico della città che rappresenta la meta della sua fuga con la moglie dell'altro. Visto il film, il titolo più insensato è di gran lunga quello italiano. (T.S.)
Originalissimo, ma anche bellissimo, trait d’union tra lo "spaghetti" italiano e il western crepuscolare americano, dei quali costituisce forse l’ultimo vero esemplare di ambedue i generi, pur prendendo diametralmente le distanze da entrambi. Hellman (non accreditato nella versione italiana, firmata invece dall’aiuto regista Antonio Brandt) infatti come sempre disattende le aspettative del pubblico, tralasciando la classica storia dei killer e della compagnia ferroviaria dell’inizio e mettendo una donna come causa scatenante di tutta la vicenda di rivalità e uccisioni, il tutto all’insegna dell’incomunicabilità, della solitudine, della casualità e dell'assurdità del destino. (M.M.)
Girato in Spagna con (pochi) soldi prevalentemente italiani, ma con comparto tecnico di prima classe: la fotografia di Giuseppe Rotunno è bellissima e le musiche di Pino Donaggio davvero suggestive, è un film lento e indugiante, sconcertante o affascinante a seconda dei gusti. In fondo trama, dialoghi e personaggi potrebbero essere quelli di un western americano anni 50, magari con Glenn Ford, ma il tutto è girato girato nel consueto stile spoglio e neutro di Hellman, che come sua abitudine non concede nulla alle convenzioni spettacolari, ma neanche a quelle altrettanto codificate del realismo cinematografico, andando contro le aspettative degli spettatori quanto a quelle alla critica (che puntualmente entrambi hanno ignorato anche questo suo film). Significativa la sequenza in cui i protagonisti rifiutano le lusinghe di uno scrittore di Dime Novels, interpretato nientemeno che da un magnetico e luciferino Sam Peckinpah.
Vuole la leggenda che nel film oltre a quella di Peckinpah fossero previste delle piccoli parti anche per Federico Fellini e Sergio Leone. Quest'ultimo pare abbia rinunciato dopo aver visto Peckinpah ubriaco sul set. (T.S.)
Vuole la leggenda che nel film oltre a quella di Peckinpah fossero previste delle piccoli parti anche per Federico Fellini e Sergio Leone. Quest'ultimo pare abbia rinunciato dopo aver visto Peckinpah ubriaco sul set. (T.S.)
Grande cast: Fabio Testi fa il sex symbol ma è comunque molto bravo nella parte del bounty killer dal cuore tenero Clayton Drumm, anche se ovviamente un po' sfigurare al cospetto di due veri attori: un grande Warren Oates, uno che il western ce l’ha scolpito in faccia, qui al suo primo e unico "spaghetti", a cui basta essere inquadrato per giganteggiare, e l'incredibilmente sexy attrice inglese Jenny Agutter, che oltre ad essere una bravissima attrice si riconfermava un miracolo di madre natura.
1988 IGUANA
1988 IGUANA
di Monte Hellman, con Everett McGill, Maru Valdivielso, Michael Madsen, Joseph Culp, Tim Ryan, Fabio Testi, Augustin Guevara
A dieci anni di distanza da "Amore, piombo e furore" Monte Hellman torna alla regia, sempre grazie a una co-produzione italo-spagnola, girata nell’isola di Lanzarote. Nonostante l’estrema povertà delle condizioni in cui si è trovato a lavorare (mancavano addirittura le luci del set e per molte scene aveva a disposizione un unico ciak) il regista dirige il solito film affascinante, inclassificabile ed enigmatico.
La storia del marinaio sfigurato che si proclama re di un’isola deserta facendo schiavo chiunque abbia la sventura di capitarci – tratta da un romanzo di Alberto Vázquez-Figueroa, a sua volta ispirato da Melville, e sceneggiata dallo stesso Hellman – richiami echi conradiani e nelle mani del regista diventa un apologo sul potere, il possesso, la violenza e la coercizione. Come in tutti i film di Hellman il finale è completamente spiazzante.
Il protagonista Everett McGill (attore di solito abituato a ruoli di comprimario: ad esempio in Gunny e Twin Peaks) è abbastanza efficace, nonostante il trucco che gli deturpa il viso non sia certo dei più riusciti, così come la protagonista femminile Maru Valdivielso (notevole in tutti i sensi) e il resto del cast, che comprende un giovanissimo, e non ancora “balenizzato”, Michael Madsen e un ottimo Fabio Testi (un po' ridicolo, però, quando si doppia da solo con accento veneto).
Musiche di Joni Mitchell. Dedicato a Warren Oates. (M.M.)
2010 ROAD TO NOWHERE (inedito in Italia)
di Monte Hellman, con Cliff De Young, Waylon Payne, Tygh Runyan, Shannyn Sossamon, Dominique Swain, John Diehl, Robert Kolar, Nic Paul, Fabio Testi
Il film del ritorno di Monte Hellman al cinema, a ventun’anni di distanza dal suo ultimo lungometraggio, l’horror su commissione Silent Night, Deadly Night 3: Better Watch Out! del 1989.
Grazie alla tecnologia digitale che gli concede la possibilità di contenere i costi e di essere svincolato dei produttori il regista può dedicarsi finalmente a progetti più personali, affrontando stavolta un discorso meta-cinematografico, con una pellicola ambientata dietro le quinte del mondo del cinema, e realizzando alla soglia degli ottant’anni il suo personale "Effetto Notte".
Il film è spiazzante fin dall’inizio, con i titoli di testa che non sono quelli “veri” bensì quelli del film immaginario che il regista protagonista del film sta dirigendo, con i nomi di attori e regista completamente inventati; le immagini dell’opera reale e di quella immaginaria continuano poi a sovrapporsi per tutto il film, in un continuo gioco tra “realtà” e finzione (nella finzione), che alla fine finiscono per confondersi.
Come dichiarato fin dal titolo la storia narrata alla fine non conduce verso nulla, e lo spettatore si trova di fronte all’impossibilità di decifrarne il senso; uno svuotamento di significato che nelle intenzioni del regista diventa metaforicamente anche quello dell’esistenza.
Nonostante il film sia, come tutti quelli di Hellman, del tutto anti-narrativo e anti-spettacolare, la regia è scorrevole e affascinante, indice di una lucidità espressiva che non è mai venuta meno.
Come ulteriore motivo di interesse ci sono anche un paio di attrici molto carine, Shannyn Sossamon e Dominique Swain. Il film è reperibile solo in lingua inglese, in quanto per ora un’edizione italiana pare non sia prevista. (M.M.)
Bellissima monografia, anche perché mi ha spinto finalmente a colmare questa mia (imperdonabile) lacuna e ad acquistare e vedere i dvd de "La sparatoria" (visto: capolavoro) e "Le colline blu" (che vedrò a breve).
RispondiEliminaTom, visto lo scarso successo sul forum di ondarock, nel frattempo ho riorganizzato le mie idee in tema spaghetti western :-) qua: http://vamosamatar.blogspot.it/
Ciao Bluetrain, grazie mille per i complimenti.
RispondiEliminaEffettivamente ormai darsi da fare per mantenere vive le discussioni sui forum è spesso fatica sprecata. Non solo su quello di Ondarock. Peccato, almeno per me i forum sono stati per anni un buon luogo di scambio di informazioni e opinioni, ma oggi sembrano buoni solo per il cazzeggio a ruota libera.
Ovviamente metto il tuo blog immediatamente nei link.