Nonostante la sua filmografia western sia particolarmente esigua – solo due titoli – Damiano Damiani (che compie 90 anni questo mese di luglio, auguri!) ha avuto un ruolo fondamentale nell’ambito del Western italiano, soprattutto per la codifica e la formalizzazione di quel sottogenere denominato "Tortilla-Western" o "Zapata-Western", cioè lo Spaghetti-Western ambientato durante la rivoluzione messicana del 1910/17, perennemente sospeso tra afflato terzomondista di stampo sessantottino ed esigenze avventurose.
Purtroppo Damiani ha sempre voluto mantenere una certa distanza dal genere, definendo Quién Sabe? un film storico e non un western in senso stretto, e malgrado l’enorme successo della pellicola ha preferito dedicarsi successivamente – salvo un fugace ritorno negli anni settanta a seguito della chiamata di Sergio Leone – al cosiddetto "cinema di impegno politico-civile", al tempo considerato senz’altro più "rispettabile" per un regista che coltivasse delle velleità autoriali, a differenza del Western, giudicato, insieme a chi lo faceva, poco serio e riservato agli spettatori dai gusti facili. Giova ricordare che anche Sergio Leone, ora considerato all’unanimità uno dei Maestri della settima arte, all’epoca veniva guardato dalla "critica ufficiale" con bonaria sufficienza, se non proprio irriso e considerato un "cattivo esempio" per il cinema italiano.
Dopo cinquant’anni la realtà, peraltro già evidente agli spettatori del tempo, è sotto gli occhi di tutti: al Western italiano vengono dedicate retrospettive, pubblicazioni, siti web e montagne di dvd, mentre il cinema politico-civile, salvo qualche raro titolo, è praticamente dimenticato. Quién Sabe?, paradossalmente, è ora considerato un classico ed è probabilmente il titolo, tra gli oltre 30 da lui diretti, per il quale Damiano Damiani è più famoso e ricordato.
1966 QUIÉN SABE?
di Damiano Damiani, con Gian Maria Volonté, Lou Castel, Klaus Kinski, Martine Beswick, Jaime Fernandez, Andrea Checchi, Spartaco Conversi, Jose Manuel Martin, Carla Gravina, Aldo Sambrell
Capolavoro del Western italiano e punto di partenza del Tortilla Western, il capostipite di Damiani è anche la pellicola più esplicitamente allegorica del filone e quella dove il discorso politico è più marcato, probabilmente perché il regista era già calato nella sua idea di cinema civile e le sue intenzioni andavano oltre quelle di realizzare un semplice western, per quanto impegnato.
E’ infatti facile vedere nella rivoluzione messicana messa in scena da Damiani una metafora dell’intervento degli Stati Uniti e della Cia nell’America Latina degli anni sessanta e nel finale in cui El Chuncho, acquisita finalmente coscienza politica, uccide a sangue freddo l’americano El Niño (con il celebre scambio di battute tra i due: «Perché?» «Quién sabe?») e grida al lustrascarpe che raccoglie la sua valigia piena di monete d'oro «Non comprarti il pane con esto dinero, hombre! Compra dinamite!» un vero e proprio apologo della rivolta e della sollevazione delle masse.
Damiani e lo sceneggiatore Franco Solinas (celebre autore di copioni politici, tra i quali Queimada e La battaglia di Algeri per Gillo Pontecorvo) gettano comunque uno sguardo disincantato e pessimista anche sulla Rivoluzione, vista come folle combinazione di spinte distruttive, e scelgono di non presentare nella pellicola nessun personaggio positivo verso cui lo spettatore possa parteggiare.
Il film poggia sulle memorabili interpretazioni di un Gian Maria Volonté istrionico e sopra le righe e di un Lou Castel di converso glaciale e inespressivo, entrambi efficacissimi, con una bella costruzione del rapporto tra i due, nel quale il regista-scrittore Alex Cox vi ha visto addirittura una storia d’amore gay.
La contrapposizione tra lo yankee freddo e civilizzato e il messicano grezzo e sanguigno rimarrà perno centrale di quasi tutti i successivi titoli del mini-filone.
Sono ottimamente caratterizzati anche tutti i personaggi secondari, da uno spiritato Klaus Kinski nel ruolo del folle prete bombarolo alla bellissima Martine Beswick in quello della pasionaria messicana, fino ai caratteristi come Aldo Sambrell e all'attore messicano Jaime Fernández, che interpreta il Generale Elias.
Damiani era capace di spaziare disinvoltamente tra vari generi, sempre con professionalità, maestria e cura dei dettagli, come dimostra la bellissima ricostruzione d’epoca di questo film.
Il comparto tecnico del film, del resto, era di prim'ordine. Assolutamente memorabile, tra le altre cose, la tambureggiante colonna sonora di Luis Bacalov.
Uscito in sala con il divieto ai minori di 18 anni per l’eccessiva violenza e il taglio politico e anticlericale il film venne pesantemente tagliato (tra le scene epurate quelle del treno che travolge l’ufficiale crocifisso, la fucilazione dei rurales e alcune battute sui preti di Kinski) e circola tuttora in differenti versioni nelle varie edizioni in dvd (la più completa delle quali sembrerebbe essere quella francese).
1975 UN GENIO, DUE COMPARI, UN POLLO
di Damiano Damiani (e Sergio Leone e Giuliano Montaldo, n.c.), con Terence Hill, Robert Charlebois, Miou Miou, Klaus Kinski, Jean Martin, Patrick McGoohan, Raimund Harmstorf, Mario Brega, Lina FranchiRick Battaglia, Gerard Boucaron
Unico western italiano – se si eccettuano un paio di sequenze di C’era una volta il West – girato in esterni nella mitica Monument Valley in Arizona, Un genio, due compari, un pollo non si merita la pessima fama critica da cui è circondato.
Pur non raggiungendo l’equilibrio e la perfezione de Il mio nome è Nessuno, sull’onda del cui successo (3,63 miliardi di lire di incasso solo in Italia e un riscontro altrettanto clamoroso in Francia e Germania) è stato evidentemente realizzato – in alcuni paesi uscì proprio come seguito ufficiale del film di Valerii – , questo secondo western prodotto da Sergio Leone e dalla sua società cinematografica Rafran e affidato alle esperte mani di Damiani, nonostante traversie realizzative e vicissitudini postproduttive, è comunque un prodotto godibile, divertente, diretto e interpretato con brio ed efficacia, e non mancante nemmeno di qualche spunto più profondo.
Il punto di partenza di Leone e dei suoi sceneggiatori era il film francese I santissimi di Bertrand Blier, da cui proviene direttamente la protagonista femminile, la deliziosa Miou Miou, con i suoi toni da ballata popolaresca e il trio di amici scanzonati, infantili e promiscui, anche se in corso d’opera il film si spostò verso i ritmi e le gag de La stangata, enorme successo popolare dell’epoca. E' proprio in questa biforcazione che il film perde di tono, con una conclusione macchinosa e sfilacciata, non all’altezza della prima parte, probabilmente anche a causa del trafugamento da parte di ignoti del negativo originale del finale (secondo Fulvio Morsella, cognato di Leone e coproduttore del film, fu rubato proprio il negativo dell’intero film) che costrinse Nino Baragli a rimontarlo alla bell’e meglio usando gli outtakes (fortunatamente numerosi perché Leone con la sua proverbiale pignoleria insisteva per molte ripetizioni di ogni ripresa).
Come con Valerii anche i rapporti tra Leone e Damiani non furono facili (ma probabilmente sarebbero stati difficili chiunque fosse il regista), tanto che, ufficialmente per problemi di tempo, lo stesso Leone, oltre a essere pesantemente presente sul set con indicazioni e suggerimenti, diresse la bellissima scena iniziale nella Mistery Valley, omaggio-parodia di quella di C’era una volta il West, dove si permette addirittura dei campi lunghissimi della Monument Valley dall’interno di un trading post, e probabilmente anche altri momenti del film, mentre altre sequenze furono dirette da Giuliano Montaldo, amico di Leone e responsabile della seconda unità.
A differenza de Il mio è Nessuno, però, visto lo scarso riscontro di pubblico e di critica del film stavolta Leone tese a minimizzare il suo apporto, prendendo le distanze dalla pellicola e facendo ricadere interamente sulle spalle di Damiani, e di una sua presunta incapacità di affrontare il registro ironico, la responsabilità della poca riuscita dell’operazione.
Secondo noi si tratta invece di un’opera da rivalutare, un ottimo mix di western e commedia, dai toni farseschi e smaccatamente antimilitaristi, con molte battute brillanti («Hai prestato servizio nell’esercito?» «Certo, come ogni uomo bianco» «Con che grado?» «Disertore») e alcune grandi sequenze, come il duello iniziale tra Terence Hill e Klaus Kinski, affettuosa presa in giro degli stilemi e degli aspetti formali del genere.
Ma la pellicola sarebbe notevole anche solo per lo stupendo utilizzo dei paesaggi della Monument Valley, magnificamente fotografata dall’operatore leoniano Giuseppe Ruzzolini, che la rende probabilmente il primo western dai tempi di John Ford (il Maestro americano è oggetto peraltro di molte esplicite citazioni, come la scena della diligenza senza postiglione che omaggia quella analoga di Ombre rosse) a valorizzare questo scenario con tale ampiezza ed abbondanza.
Oltre a ciò anche la colonna sonora di Ennio Morricone è una delle sue più memorabili e "folli", con citazioni addirittura da Beethoven (Per Elisa) e Rossini (l’ouverture del Guglielmo Tell).
Gli attori, d’altro canto, sono perfetti. Se Terence Hill va sul sicuro con il suo antieroe svelto di mano e di cervello ancora modellato sui tratti di Trinità e Nessuno, Miou Miou con il suo personaggio ingenuo ma malizioso è il notevole punto di forza del film, mentre costituisce un’ottima sorpresa Robert Charlebois, un cantautore canadese, efficacemente doppiato da Ferruccio Amendola, che nel cinema italiano non farà più nulla ma che possiede una mimica e una fisicità molto intense.
Da citare, oltre a tutto lo stuolo di caratteristi leoniani come Mario Brega, Rik Battaglia e Benito Stefanelli, anche Patrick McGoohan nel ruolo del Maggiore, cioè il pollo del titolo, e Klaus Kinski, che interpreta come sempre magnificamente il famoso e terribile pistolero Doc Faster nella strepitosa scena iniziale.
Dopo i due western di Damiano Damiani sarebbe duopo recensire anche la duologia di Pasquale Squitieri: Django sfida Sartana (1970) e La vendetta è un piatto che si serve freddo (1971).
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