2011 GOOD FOR NOTHING
di Mike Wallis, con Cohen Holloway, Inge Rademeyer, Jon Pheloung, Richard Thompson, Toa Waaka, Charles Lum, Tao Jrang, Toby Leach, Mark Norrie, Barnie Duncan, Tony Wyeth
Una particolarità dei western degli ultimi anni, oltre al fatto di essere quasi tutte pellicole a basso budget e dalla distribuzione quantomeno avventurosa, è l’assoluta trasversalità riguardo ai luoghi di realizzazione: ultimamente, infatti, vengono prodotti e girati film western anche nei paesi più impensabili e solo nelle ultime stagioni abbiamo potuto assistere a pellicole provenienti da Argentina, Corea, Australia e Cile.
Qualunque cinematografia sembra oggi essere in grado di impossessarsi e dire la sua riguardo al genere, senza confini geografici o storici, e la cosa ovviamente non può che farci piacere, visto che consideriamo il western un luogo appartenente agli autori e agli appassionati di tutti il mondo, come proprio noi italiani abbiamo dimostrato negli anni sessanta trasportando il Far West di Hollywood sulle rive del Tevere e utilizzando l’Almeria al posto della Monument Valley.
Tutto questo preambolo per dire che non ci stupisce questa nuova pellicola, peraltro di buona fattura, proveniente dalla lontanissima Nuova Zelanda, paese da pochi anni lanciatosi sulla ribalta cinematografica grazie ad autori come Jane Campion e soprattutto Peter Jackson, i cui Stone Street Studios – polo all’avanguardia per gli effetti speciali e le scenografie digitali, responsabile di pellicole come Il signore degli anelli, King Kong ed Avatar – insieme alle sovvenzioni da parte dello stato per le produzioni che girano in loco hanno contribuito a trasformare il paese australe in uno dei più importanti centri dell’industria cinematografica mondiale.
A dimostrazione di questa tendenza già nel 2010 era stato girato in Nuova Zelanda un interessante western, The Warrior’s Way, un crossover con i wuxiapian cinesi dal rispettabile budget di quarantacinque milioni di dollari realizzato dal produttore della trilogia del Signore degli anelli Barrie M. Osborne e, come questa, girato interamente nei bellissimi scenari naturali neozelandesi.
Good for nothing, invece, è una piccola produzione indipendente sorretta unicamente dalla passione e dalla professionalità di Mike Wallis, occupato finora nel dipartimento effetti speciali degli Stone Street Studios, che l’ha prodotta, scritta e diretta a prezzo di cinque anni di lavoro, e che con questa pellicola esordisce come regista.
Sconcertato e incapace di capire il motivo dell’improvvisa impotenza il fuorilegge intraprende un viaggio per trovare una soluzione al problema, con la ragazza rapita sempre al seguito. I due nel frattempo sono inseguiti da una posse alquanto stravolta composta da sceriffi e cacciatori di taglie, fermamente decisi a uccidere entrambi, compresa la donna che hanno scambiato per complice del fuorilegge.
Ovviamente il viaggio diverrà occasione per la nascita di un sentimento tra i due fuggitivi, anche se il tutto viene lasciato ammirevolmente sottotraccia e nell’ambito del non detto, e di crescita interiore per il fuorilegge, che si riscatterà dalle sue malefatte nel gran finale.
A raccontarlo così il film a qualcuno potrebbe forse apparire ridicolo, però il regista riesce a stemperare nell’ironia le situazioni più delicate, adottando invece toni piuttosto crudi e realistici nei momenti drammatici e violenti, e mantiene i dialoghi al minimo omaggiando sia gli stilemi epici dei classici fordiani che ispirandosi per altri particolari al Western all'italiana, come il personaggio protagonista, ennesima variazione sull'archetipo dello straniero senza nome.
Il film è inoltre sorretto da un buon impatto visivo e nelle sequenze secche e improvvise di violenza, nella fotografia satura e dai toni accesi e nei personaggi allucinati e sopra le righe può ricordare la pellicola australiana The Proposition.
Ulteriore punto a favore del film sono i paesaggi mozzafiato, inediti per il grande schermo e ripresi magnificamente dal direttore della fotografia Mathew Knight, della regione neozelandese di Central Otago, un posto che sembra veramente il selvaggio West.
Da sottolineare anche l’ottima partitura musicale del compositore John Psathas, famoso per aver composto la musica per le cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi di Atene 2004, eseguita dalla New Zealand Symphony Orchestra.
Il protagonista maschile, che somiglia vagamente a Lee Van Cleef, chiamato nel film semplicemente 'The Man', è interpretato da Cohen Holloway, un attore piuttosto noto nella terra dei kiwi, dove ha vinto diversi premi, mentre la ragazza rapita è l’esordiente Inge Rademeyer, fidanzata del regista e co-finanziatrice del film.
La pellicola ha avuto un’uscita ufficiale in Nord America nel corso del 2012, a cui ne dovrebbero seguire altre in vari paesi del mondo. Al momento non è prevista una distribuzione italiana.
Bella recensione. Una pellicola che sembra davvero interessante e di cui non sapevo nulla fino a poco fa.
RispondiEliminaL'etichetta "nuovi western" mi ha ricordato che dovrei riprendere la rassegna sul panorama western degli ultimi anni, ferma ormai da qualche mese. Ma per un motivo ben preciso: i western degli ultimissimi anni sono spesso davvero pallosi.
L'ho visto (in inglese) e l'ho finito a fatica tanto e' noioso... si salvano sicuramente paesaggi e musica su questo non ci piove. La storia non ha senso basata su uno scrupolo che solo un uomo dei giorni nostri, forse, potrebbe avere, ma non certo in quel west di disperati ed ubriaconi... lavorano tutti come cani in particolar modo la ragazza che sembra uscita da una telenovela brasiliana... voto 3
RispondiEliminaNon sono assolutamente d'accordo con il commento di "anonimo". Fotografia impeccabile, musiche che rispettano l'ironia di alcune scene del film, quasi surreali ma che investono lo spettatore con un realismo che fa male al cuore. I pochi dialoghi concentrano l'attenzione sulle emozioni degli sguardi; sguardi intensi che scrutano, giudicano e desiderano. Il realismo della pellicola fa sobbalzare dalla poltrona, scene di violenza gratuita tipiche di quel contesto socio-culturale. Da un altro lato c'è la sagace ironia di alcune scene che trasformano i personaggi da duri e spietati cowboy a ridicoli omuncoli. La scena più importante che apre il film è quella del tentato stupro che non va a buon fine perché il sentimento ha già preso piede, nascosto dal senso di colpa a sua volta celato dall'impossibilità di compiere l'atto. E' una scena piena di pathos, che ci fa riflettere sul fatto che anche nelle lande più desolate in cui serpeggiano violenza e sessismo, può nascondersi una speranza, la speranza di una redenzione, anche se il protagonista non se ne renderà conto se non verso la fine. Uno dei film più belli che abbia mai visto e sono una cinefila sfegatata :-)
RispondiEliminaconfermo, film ricco di significati impliciti. Meritevole come pochi.
Elimina