venerdì 5 ottobre 2012

i film 47 - Manto Nero


1991 MANTO NERO (Black Robe)
di Bruce Beresford con Lothaire Bluteau, Aden Young, Sandrine Holt, August Schellenberg, Tantoo Cardinal, Billy Two Rivers, Lawrence Bayne 

Riprendiamo la retrospettiva dei western usciti negli anni 90 con questo strano e dimenticato oggetto cinematografico del 1991. Insieme a L’ultimo dei mohicani di Mann, dell’anno dopo, si tratta curiosamente dell’unico serio sforzo produttivo fatto per mettersi sulla scia dell’immane successo ottenuto l’anno precedente da Balla coi Lupi di Kevin Costner. Ci sono anche qui i paesaggi letteralmente mozzafiato, gli indiani che parlano nella loro lingua con i sottotitoli, il protagonista che si ritrova sperduto in un territorio ostile e selvaggio. Manca totalmente invece la furbizia del film di Costner, il suo dosaggio di azione, epica, ironia e sentimenti. Non stupisce davvero che all'epoca "Manto Nero" fu un sonoro flop e poi sia stato praticamente dimenticato, perché è un film pessimista, triste, severo, senza catarsi, più dalle parti di certo cinema d’autore europeo che non di quello spettacolare americano. E infatti è una produzione soprattutto canadese e australiana.

Anche chi scrive, che all'epoca era un adolescente che cercava di andare al cinema a vedere qualsiasi cosa odorasse di western, si tenne ben lontano da un film che, nonostante gli indiani, si presentava con un trailer che parlava della crisi spirituale di un prete durante un viaggio. Visto a distanza di vent’anni si rivela un film affascinante e interessante, povero d’azione (meglio avvertire che la prima freccia impiantata in una gola arriva dopo un’ora esatta di film), ma piuttosto crudo e davvero poco compiacente.


Tratto dall'omonimo romanzo di Brian Moore e sceneggiato dall'autore stesso, non si tratta ovviamente di un western canonico. È un dramma avventuroso e seicentesco, la storia di un prete gesuita e di un giovane francese innamorato di una ragazza indiana che per raggiungere una sperduta missione nel Quebec si aggregano ad una piccola tribù di algonchini. Sarà un viaggio da incubo, disseminato di disagi, premonizioni di morte e personaggi inquietanti, tra cui un notevole stregone nano che sembra uscito da un film di Herzog. Se non c’è molta azione, non mancano certo la violenza e i dettagli crudeli. Anzi c’è solo l’imbarazzo della scelta, tra dita della mano segate in primo piano con una conchiglia, cadaveri di neonati, donne ammazzate, bambini a cui viene tagliata la gola e scene di sesso piuttosto esplicite.


Anche ad un livello più teorico ci sono molte cose che non ti aspetti da una produzione milionaria: benché visti con simpatia e umanità gli indiani sono descritti anche nei loro lati più intolleranti e barbari, la fede cristiana è messa sullo stesso piano delle superstizioni indiane e vien reso con grande efficacia il classico contrasto tra la sfolgorante bellezza della natura e la sua indifferente crudeltà. Insomma concetti poco adatti per richiamare al cinema il pubblico che aveva decretato l’enorme successo del film precedente del regista, il lezioso e paraculo "A spasso con Daisy". E infatti per quanto accademica, stavolta la regia di Beresford è lontanissima dal suo solito stile patinato, che era riuscito a rendere quasi affettato anche un film sulla rivoluzione messicana. Questo anche grazie ad una confezione di gran lusso, ma misurata, con ad esempio le belle musiche della colonna sonora che si fanno sentire solo quando servono, evitando di essere un tappeto sonoro costante come in molti film di questo tipo.


Il protagonista è quanto di meno carismatico si possa immaginare. Un giovane aristocratico diventato prete più per reprimere la sua latente omosessualità che non per fede, un personaggio disorientato e impotente, con la faccia malinconica e francescana dell'attore francese Lothaire Blueteau. Un personaggio tormentato con cui è davvero difficile entrare in sintonia. Più simpatica la coppia formata dal giovane compagno di viaggio - di cui il prete è forse segretamente innamorato - e la bellissima ragazza indiana, decisa e risolutiva, interpretata dall'allora diciannovenne Sandrine Holt.

Anche se siamo più dalle parti di “Diario di un curato di campagna” che non de L’ultimo dei mohicani, per gli appassionati dei film d’avventura ambientati nell'America del ‘600 e del ‘700 il film è comunque una gioia per gli occhi, tra indiani credibili, fucili a canna lunga, canoe che scivolano su fiumi maestosi, favolosi boschi innevati e l’immancabile scena dei prigionieri che vengono fatti correre tra due ali d'indiani armati di bastoni.


Colpisce infine che un film come questo, che si direbbe relativamente recente, o comunque proveniente da un panorama cinematografico apparentemente non molto diverso da quello odierno, oggi sarebbe impensabile come film pensato (almeno potenzialmente) per il grande pubblico. Oggi un film con le stesse caratteristiche sarebbe concepito solo per i festival e i circuiti d'essai.

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