venerdì 9 marzo 2012

nuovi western - 2004

Western del 2004

Dopo il buon bottino del 2003 il genere torna quasi in letargo. Tre titoli soltanto da segnalare e nessuno di loro è un western vero e proprio.


ALAMO - GLI ULTIMI EROI (THE ALAMO) di John Lee Hancock
Con Patrick Wilson, Jason Patric, Billy Bob Thornton, Emilio Echevarria, Dennis Quaid

C'era bisogno nel 2004 di veder narrata ancora una volta la storia dell'assedio di Alamo? A giudicare dal totale disinteresse con cui questo film è stato accolto, anche constatando il notevole dispiegamento di mezzi e l'impegno con cui è stato realizzato, si direbbe che quel bisogno lo sentissero davvero in pochi. O forse non è così che la solita storia andava ancora una volta raccontata. Questo film esemplifica bene un fraintendimento in cui cade spesso molto cinema odierno, quando decide di riaffrontare una vicenda che è già stata messa in scena più volte, il che accade spessissimo in quest'epoca di remake, sequel, prequel e ogni genere di aria fritta. L'equivoco sta nel credere che la forza intrinseca dell'episodio già noto basti a se stessa e che per rinfrescarne l'interesse basti ricamarci attorno qualcosa.

Nel caso di Alamo il fascino della vicenda sta tutto nell'epica dello scontro impari, che vide pochi assediati americani scontrarsi con le forze soverchianti degli assedianti messicani. Quel che conta quindi sono l'assedio e la battaglia disperata, non quello che ci stava attorno. Invece “Alamo - Gli ultimi eroi” si perde in tutta un'infinità di notazioni marginali che si rivelano assolutamente fine a se stesse e che spezzano continuamente il ritmo degli eventi. Ad esempio può essere interessante sapere che la tragedia scaturì anche dall'arrogante e miope politica dei texani, e che gli eroi di Alamo erano una specie di armata Brancaleone litigiosa e poco consapevole a cosa andava incontro, ma a livello cinematografico queste annotazioni non riescono mai a trasformarsi in racconto. Anche le notazioni più acute, come il rilevare che i “buoni” americani erano schiavisti al contrario dei “cattivi” messicani, rimangono dettagli che restano sempre ai margini del narrazione.

I noti personaggi della vicenda subiscono un identico trattamento. Interessa sapere che Sam Huston era un cinico ubriacone? Che il colonnello William Travis, a capo degli assediati, aveva piantato la moglie? Che Jim Bowie aveva il tifo e rimpiangeva la moglie messicana defunta? Che Davy Crockett era un bonaccione malinconico e che la sua leggenda era dovuta alle fanfaronate di un attore che lo impersonava sui palchi dei teatri dell'est? Questa tendenza a rifugiarsi nell'aneddoto storico fine a se stesso si riflette anche nell'iconografia, che non ha nulla dell'agilità western o del film d'avventura (a cui si erano più furbamente attenuti il kolossal di John Wayne “La battaglia di Alamo” del 1960 e ancora prima il dimenticato b-movie “Alamo” di Frank Lloyd del 1954), ma ha piuttosto la pesantezza museale del film storico, con personaggi costretti in costumi rigidi e inamidati, probabilmente storicamente attendibili, ma senza fascino.

D'altra parte il film più che un western è un film storico di ambientazione ottocentesca. E in questo senso funziona pure. Il senso di realismo o di verosimiglianza con cui è messo in scena l'assedio in alcuni punti è potente e suggestivo. Il senso di smarrimento, angoscia e attesa degli assediati è ben reso. La fatidica battaglia è messa in scena con il giusto equilibrio di spettacolarità e realismo, quasi una ventina di minuti di massacro, con una tensione e un senso di confusione che ricorda più il caos dei migliori Vietnam-movie che non i western incentrati sugli assedi. Il film non rinuncia ai santini eroici americani e qualche facile macchietta, ma è abbastanza onesto nel riconoscere torti e ragioni, eccessi e crudeltà di entrambe le parti. Anche in un'ottica da film storico, ridondante e francamente noiosissimo invece l'ultimo quarto d'ora, che ci mostra la cruenta reazione degli americani guidati da Sam Huston (Dennis Quaid).

Un discreto film in definitiva, illuminato da un buon cast, a cominciare dal Davy Crockett di un intenso Billy Bob Thornton e dal Jim Bowie del carismatico, ma sempre poco e male utilizzato, Jason Patric. Resta il triste pensiero che tutti i soldi che si spendono per questi film sontuosamente illustrativi e sostanzialmente inutili potrebbero essere meglio utilizzati per raccontare storie nuove. O almeno storie meno consunte dall'uso.

Dicono di lui...

"Questa è la storia di una guerra civile. Non quella che ci è più nota, ma una che si è verificata un quarto di secolo prima. In questa guerra civile c'è sempre la secessione tra Nord e Sud, ma poiché i secessionisti hanno vinto non la si chiama guerra civile, ma rivoluzione: la rivoluzione del Texas. [...] Nel prendere un tema tanto mitizzato, il film rischia grosso. I drammi sugli eventi storici sono spesso rigidi e distaccati, nel migliore e nel peggiore dei casi sono leziosi. Questo film riesce a convincere a dispetto di questi pericoli. Lo fa romanticizzando gli eventi associati ad Alamo, ma sforzandosi di avere precisione storica e riuscendo a umanizzare le figure storiche sulle quali si concentra. [...] Thornton/Crockett è un piacere particolare. Controllando il lato serio del suo personaggio, Thornton finisce per rubare la scena a tutti. Si accattiva regolarmente il pubblico ed è protagonista delle migliori sequenze del film, fino alla fine. Come funziona il film a livello di ricostruzione storica? Bene. La maggior parte di questi film sono popolati da attori dolorosamente rigidi che lottano per ritrarre i personaggi storici che gli sono stati assegnati, ma questo riesce a trasmettere l'umanità dei suoi protagonisti. Uno dei motivi è anche l'ambiguità che circonda quello che è realmente accaduto ad Alamo. Nel folklore texano, Travis, Bowie e Crockett sono stati descritti come santi che lottano e sfidano il nemici fino al loro ultimo respiro. Più recentemente gli storici hanno iniziato a considerare le prove che ritraggono i tre in una luce molto più umana. Secondo i nuovi ritratti, uno di loro (Bowie) potrebbe essere stato troppo male durante la battaglia per uscire dal suo letto e un altro (Crockett) potrebbe essere sopravvissuto alla battaglia, anche se brevemente. Anche se queste idee sono controverse, il film finisce per rappresentarle in modo da umanizzare i personaggi principali, senza privarli del loro eroismo. Il film racconta anche la complessità della situazione storica, esplorando le prospettive di individui e gruppi diversi. Sia Travis che Bowie erano schiavisti, e il film esplora le diverse reazioni dei loro schiavi alla situazione in cui sono finiti. [...] Nonostante i suoi difetti, il film funziona molto meglio di quanto in genere funzionino la maggior parte delle ricostruzioni d'epoca, in particolare nel modo per come umanizza i personaggi storici al centro della storia.”
(Jimmy Akin, "Decent films Guide" 2004)

“La vita di un soldato è notoriamente caratterizzata da ore di noie punteggiate da momenti di vero terrore. Beh, "The Alamo" riesce a rendere solo metà di questa cosa. "The Alamo" non è un film patriottico e gonfio di retorica epica. Si tratta di un'ottusa, sporca, triste e terribilmente lunga pellicola che purtroppo riduce uomini di importanza storica in straccioni in lotta per un po' di fango. Eh già. 100 milioni di dollari che avrebbero potuto salvare il sistema scolastico del Texas. [...] Il regista John Lee Hancock (nome fantastico), si è diplomato nel suddetto sistema scolastico texano, per cui caratterizza il suo villain - il generale Antonio Lopez de Santa Ana (Emilio Echevarría) - con tutta la sottigliezza di un supercriminale alla James Bond. Lungi dall'essere una gran mente militare, Santa Ana fa falciare i prigionieri stile genocida , svergina le vergini e sorseggia il caffè in tazzine di fine porcellana. E' un mostro ad una dimensione, che dice ai suoi luogotenenti di sacrificare i propri soldati come fossero "tanti polli". Nel frattempo gli eroi di Hancock, neanche così male, a malapena ispirano simpatia. Per lo più i protagonisti sono ubriachi e scontrosi, le comparse sono miliziani anonimi, scontrosi e ubriachi. Bowie, che soffre di qualcosa che assomiglia alla tubercolosi, peggiora in salute con il progredire dell'assedio, e Jason Patric che che lo interpreta passa tutto il secondo tempo a rifare la sua scena di disintossicazione di "Effetto allucinante", ma senza Jennifer Jason Leigh a pulire la sua sudata, legnosa testona. Che sarebbe stato l'unico motivo valido per stare a vederlo morire a letto per un'ora."
(Eric Meyerson, "On dvd" 9/4/2004)


BLUEBERRY (BLUEBERRY: L'EXPÉRIENCE SECRÈTE) di Jan Kounen
con Vincent Cassel, Juliette Lewis, Michael Madsen, Temuera Morrison, Ernest Borgnine, Geoffrey Lewis, Djimon Hounsou, Nichole Hiltz, Tchéky Karyo

Irragionevole trasposizione del celebre personaggio di Charlier & Giraud. Anche se va detto che in realtà del fumetto non è rimasto praticamente nulla, tanto è vero che nel film il protagonista viene chiamato solo per nome, Mike, e mai viene citato il soprannome che fa da titolo alla serie. Il personaggio di Cassel non ha assolutamente nulla del simpatico antieroe Blueberry, ma è una specie di Jim Morrison nel far west, barcollante e delirante per buona parte del film. E infatti, più che la classica iconografia western, visto il suo corollario di spiritualità indiana, paesaggi desertici e visioni allucinogene il film ricorda in più di un momento “The Doors” di Oliver Stone. È invece ripresa dal cine-fumetto di questi ultimi anni l'irritante tendenza a voler raccontare la nascita psicologica dell'eroe, con il solito nodo iniziale che si scioglierà solo nel finale. Il film vorrebbe essere una lunga e allucinata cavalcata psichedelica e registica (i titoli di coda iniziano con la scritta “A Jan Kounen Session”), che anche nelle scene più normali vorrebbe ubriacare lo spettatore a furia di distorsioni delle immagini, dei suoni, del montaggio.

Con questi presupposti poteva uscirne un film sbagliato ma affascinante, un'opera inclassificabile, folle e maledetta. Invece alla fine è solo un film balordo e incredibilmente noioso, girato con rara inettitudine e ancor più rara supponenza. Kounen è il tipico regista che non avendo idea di dove mettere la cinepresa la mette ovunque, continuando a muoverla come un forsennato, ma non riuscendo praticamente mai ad azzeccare il tono e lo stile giusto. Persino le poche scene d'azione sono pasticciate e senza stile. Sintomatica della totale mancanza di un'idea di cinema del regista è la sovrabbondanza di riprese con un elicottero, che immortalano magnifici paesaggi da spot pubblicitario.

Non funziona praticamente nulla. Le parti visionarie sono mal dosate, di cattivo gusto e, a causa della fotografia plumbea, spesso confuse. Ma soprattutto nemmeno per un momento si riesce a dimenticare che tutte le visioni sono immagini create al computer, problema non da poco considerato che vorrebbero essere la rappresentazione di una spiritualità atavica e vorrebbero veicolare una morale umanitaria di pace e perdono. La sensazione è spesso di vedere dei tentativi malriusciti di qualcuno che sta imparando ad usare un programma di morphing. In sovrapprezzo, falsissimo anche tutto il contesto spirituale, con la descrizione degli Apache come dei proto-hippie dediti a culti ancestrali e tutta una serie di simboli e ammennicoli che puzzano più di bancarella new-age che non di tradizione indiana. Peggio ancora la parte più western, priva di atmosfera e di interesse prossimo allo zero, come praticamente sempre nel genere quando ci sono di mezzo mappe del tesoro. Il percorso iniziatico del protagonista si basa su un pretesto troppo esile per reggere un intero film e si risolve con una rivelazione troppo meccanica e prevedibile. I personaggi sono sagome prive di personalità (protagonista compreso), che entrano ed escono di scena senza ragione, interpretati da attori smarriti o costantemente sopra le righe.

Trentacinque anni prima “Matalo” di Cesare Canevari era costato cento volte meno, risultando dieci volte più riuscito, mille volte più divertente e infinitamente più genuinamente folle e psichedelico.

Dicono di lui...

“Follia totale del regista franco-olandese di successo Jan Kounen, che avendo a disposizione un budget ENORME per portare sullo schermo le avventure dell’eroe western più famoso dei fumetti francesi (in pratica l’equivalente del nostro Tex) non trova di meglio che realizzare un allucinante pippone mistico e sciamanico, che con il Blueberry di Charlier & Giraud non ha assolutamente nulla a che fare. Secondo il Giusti dovrebbe essere addirittura basato sul dittico La miniera del tedesco-Il fantasma dai proiettili d’oro, una delle più belle storie della saga e in assoluto una delle mie a fumetti preferite, ma confesso che durante la visione non mi ha mai nemmeno sfiorato il dubbio che lo fosse!
Il delirio più totale si tocca nel finale, con venti minuti di immagini lisergiche e psicotrope, al cui confronto il finale di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick è un esempio di linearità e compostezza.
Pare che il regista, durante i sopralluoghi del film in Messico e in Perù, sia stato folgorato dallo sciamanesimo, tanto da fondare una propria scuola spirituale al riguardo, e effettivamente si vede chiaramente che è questo che gli interessa, mentre del fumetto e del western non gliene può fregar di meno, e probabilmente dal suo punto di vista il film è anche riuscito come lo voleva lui. A noi invece rimane il rimpianto che se si fosse fatto qualche scorpacciata di peyote in meno magari avremmo avuto un buon western in più.
Detto degli innumerevoli difetti, il film tutto sommato comunque ha anche qualche pregio e, sarà che ne ho sempre sentito parlare malissimo, confesso che l’ho trovato migliore di quanto mi aspettassi: alcune immagini sono indubbiamente affascinanti, qualche momento western è abbastanza riuscito e se non altro almeno la confezione è di prima classe, nonostante l’impressione generale da kolossal francese alla Luc Besson curatissimo ma con poca anima (ma comunque, non per fare sempre l’imbarazzante confronto con la nostra desolante cinematografia, se penso che in Italia l'idea di kolossal sono i film di Martinelli...). Anche il cast degli attori tutto sommato non è male: Cassel è bravo (nonostante sia doppiato malissimo dalla stessa voce di Nicholas Cage) e ha anche la faccia “giusta” (anche se il perfetto Blueberry ovviamente sarebbe stato Belmondo), Michael Madsen è parecchio appesantito ma gli basta qualcuno dei suoi sguardi in tralice, Juliette Lewis è bellissima come sempre e ci sono pure un paio di vecchie grinte western come il novantenne (!) Ernest Borgnine e l’eastwoodiano Geoffrey Lewis (padre di Juliette, sia nella realtà che nel film). [...]
Il finale, oltre a essere un delirio mistico-visionario, è assolutamente “di rottura” nei confronti del genere, visto che il tradizionale confronto finale tra eroe e cattivo, preannunciato peraltro per tutto il film, clamorosamente non ha luogo, a favore di un’incredibile conclusione new age e pacifista. Si scopre, per di più, che il cattivo non lo è poi come sembrava e che la stessa vendetta del protagonista era basata su presupposti sbagliati. Il regista, insomma, sembra fare tutto un discorso, senza dubbio sballato, ma forse poi non così banale come sembra a prima vista, sulla necessità dell’allargamento della visione (magari con l’aiuto del peyote).”
(Mauro Mihich)

“Non è un film di Jan Kounen. Non è nemmeno una messa in scena di Jan Kounen. Come ci tengono a render noto i titoli di coda si tratta di una “session” di Jan Kounen. E, perbacco, lo sembra proprio. Una session di due ore in compagnia di un regista con un'ossessione per l'occulto e l'incapacità di capire quando il troppo è troppo. [...] Il superbo Sergio Leone aveva già accennato - e con molta più sottigliezza - al soprannaturale nei suo spaghetti-western, con la figura impenetrabile e misteriosa del Uomo Senza Nome di Clint Eastwood. Anche qui si aspira a fondere un che di spiritistico con l'epica western, ma la cosa non riesce, in gran parte perché la parte tradizionale della storia con i cowboy è un totale pasticcio. Il direttore della fotografia Tetsuo Nagata ha catturato alcune magnifiche e desolate immagini del deserto, ma le incursioni visionarie e sciamaniche sono un incrocio tra uno screensaver inquietante e gli esperimenti di un moccioso con il suo primo cerchiometro. [..] È un film grosso... ma non un film intelligente.”
(Tim Evans, “Sky Movies” 2004)

Scusi, dov'è il west?


Il sentiero per Hope Rose (The Trail to Hope Rose) di David S. Cass sr.
con Lou Diamond Phillips, Ernest Borgnine, Lee Majors

Non fate caso al torvo Lou Diamond Phillips con due pistole in locandina, è un monotono e abulico finto-western dall'aria inconfondibilmente televisiva, probabilmente prodotto per un pubblico di ispirazione cristiana. Di western c'è praticamente solo quella che dovrebbe essere la resa dei conti finale, ma che è una sequenza inverosimile e titubante come tutto il resto del film. In realtà è un melodramma sentimentale di ambientazione ottocentesca, girato con i colori stinti e avviliti del dramma sociale. Peccato, perché per un western sarebbe stata piuttosto originale l'ambientazione proletaria, con la messa in scena del lavoro in una miniera e i sorveglianti degli operai come cattivi. Ma il film si concentra unicamente sull'apatica tematica sentimentale. A parte un linciaggio prima dei titoli di testa e poi minacciare a vuoto per tutto il resto del film, anche i cattivi non è che facciano un granché. Come tutti i personaggi del film d'altra parte. Le troppe facce invecchiate di attori un tempo più o meno noti contribuiscono ulteriormente alla mestizia generale.

Tommaso Sega

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