lunedì 27 febbraio 2012

nuovi western - 2003

Western del 2003

Annata parecchio interessante, che dopo secoli rivede in scena finalmente una banda di ferocissimi indiani, due pellicole dedicate alla dura ma romantica vita dei cowboys, un solido western di serie B con due vecchie glorie e una curiosa rievocazione della rivoluzione messicana.


THE MISSING di Ron Howard
con Tommy Lee Jones, Cate Blanchett, Evan Rachel Wood, Jenna Boyd, Aaron Eckhart, Val Kilmer

Miracolo nel vecchio West. Un film che snocciola alcuni dei più insopportabili e ossessivi tic narrativi del cinema hollywoodiano degli ultimi decenni, diretto da un regista noto per la sua alta professionalità messa quasi sempre al servizio della più avvilente banalità, che però incredibilmente funziona. Non mancherebbe nulla per detestarlo. C'è lo scontro generazionale tra genitori e figli adolescenti, che secondo gli sceneggiatori hollywoodiani sarebbe una dinamica famigliare irriducibile anche di fronte alle peggiori sciagure, e risolvibile solo ritrovando la reciproca fiducia dopo sovrumane prove fisiche. C'è anche, come in tre quarti buoni dei film con ambizioni psicologiche degli ultimi vent'anni, il logoro metaforone sulla società senza padri, servito dal conflitto tra i due protagonisti. C'è il solito realismo fasullo della ricostruzione storica, ci sono le sequenze ridondanti, le forzature spettacolari, le strizzate d'occhio ad uno spiritualismo d'accatto. Eppure funziona.

Funziona perché Ron Howard e Thomas Eidson - autore del romanzo da cui il film è tratto, “The Last Ride” del 1995 - danno vita ad un West dal fascino funereo, dove anche i più abusati espedienti narrativi finiscono per essere proposti in una luce diversa dal solito, più sinistra, meno accomodante. Raramente si è visto infatti un West tanto claustrofobico e inospitale, con i personaggi positivi che si aggirano smarriti in uno scenario irreale e apocalittico, dove sembra non esistere rifugio e dove la morte si può manifestare ad ogni passo. Si arriva anche a sfiorare il confine del cinema horror con l'inserimento di destabilizzanti tematiche magiche estranee al genere. Dal punto di vista iconografico ad una delle più crudeli bande di indiani viste in un western (soprattutto nel cinema politicamente corretto degli ultimi anni) fa da contraltare un non meno inquietante squadrone di giacche blu, assolutamente marcio e cencioso. È insomma un West visto attraverso uno specchio deformato, capovolto fin dalla fotografia, che propone un West dalle cupe e livide tinte grigio-blu in contrasto con i toni caldi tipici del genere.

L'aggressività di alcune sequenze è davvero notevole, soprattutto considerando la natura comunque hollywoodiana e commerciale del film. I pugni allo stomaco dello spettatore non sono pochi: dal ritrovamento di quello che inizialmente sembrava potesse essere il protagonista maschile del film orribilmente torturato, all'agonia di una ragazza e il suo neonato, passando per un considerevole numero di ammazzamenti di vario tipo. Tutto ciò sarebbe però solo superficiale sensazionalismo, se il film non agisse anche ad un livello più sofisticato, con continui slittamenti di senso delle situazioni che confondono le idee e le aspettative dello spettatore. Magistrale in questo senso la sequenza in cui la ragazzina rapita provoca senza volerlo l'uccisione di uno dei suoi salvatori, fraintendendone le intenzioni: dalla lineare suspense riguardante il salvataggio si passa all'inquietante situazione in cui gli innocenti diventano involontari complici dei loro carnefici. In rete per altro si trovano stroncature del film dove scene come queste vengono definite sbagliate e irritanti.

Tra i tanti successi che costellano la sua carriera è uno dei pochi film di Ron Howard ad essere passato quasi sotto silenzio, ignorato dal pubblico e poco considerato anche dalla critica. Probabilmente non è il tipo di western che ci si poteva aspettare da un regista come lui. Un motivo in più per considerarlo un'opera riuscita.

Dicono di lui...

“Buon western diretto da Ron Howard, che dai tempi del Richie Cunningham di Happy Days è imprevedibilmente diventato un regista di un certo successo (addirittura premiato con l’Oscar), anche se di non eccelse capacità. Il suo approccio al genere è piuttosto ondivago: il film comincia, infatti, come una roba ultrarealistica, ma del tutto priva di estetica western, stile Ritorno a Cold Mountain, prosegue come un classicissimo western avventuroso, con l’inseguimento alla Sentieri selvaggi delle fanciulle rapite (e tanto per non farsi mancare niente anche con l’inserimento, abbastanza fuori luogo, della magia indiana), e si conclude con l’immancabile finalone hollywoodiano roboante e tirato per le lunghissime (i bei finali asciutti come si usava nei western di una volta purtroppo ormai sono irrimediabilmente fuori moda). Comunque molto buona la parte centrale – quella più prettamente western – tutta a base di inseguimenti, cavalcate, sparatorie, deserti assolati e serpenti a sonagli. Il brujo indiano, però, che più che un apache sembra un aborigeno australiano dei film di Peter Weir, è uno dei più ridicoli cattivoni mai visti in un western e ovviamente, in ossequio alla nuova regola lombrosiana sui villains hollywoodiani, oltre che cattivissimo è anche bruttissimo (magari avevano paura che altrimenti il pubblico non capisse che era lui il cattivo…).
Tanto insopportabile è Cate Blanchett, per me l’attrice più sovrastimata e detestabile sulla scena mondiale (semplicemente da denuncia la sua interpretazione dylaniana di I’m not there), quanto immenso Tommy Lee Jones, grande attore western fuori tempo massimo. La fanciulla rapita è l'ancora giovanissima, ma già carinissima, Evan Rachel Wood di The Wrestler.”
(Mauro Mihich)

“C'è un ruolo che Cate Blanchett non può interpretare in maniera convincente? Qui è la colonna che regge l'impalcatura di tutto questo interminabile thriller storico di Ron Howard […] Se solo Howard e lo sceneggiatore Ken Kaufman avessero tirato fuori una storia degna degli sforzi di Cate. Kaufman ha scritto su di un caso di rapimento che si sviluppa lungo un percorso sorprendentemente lineare. Ogni volta che tentata di delineare una sottotrama - esplorando l'inefficacia dell'autorità nel selvaggio West, o mettendo in scena una delle tante drammatiche sequenze di fuga - lo fa senza fiducia. “The Missing” a volte ci illude di star per imboccare una rilevante deviazione dalla trama, ma poi torna rapidamente sui suoi passi e torniamo a seguire lo svolgimento della storia centrale, una narrazione troppo esile per tener desto il nostro interesse per tutti 147 minuti di durata del film. [...] “The Missing” è una sfida cinematografica che non mette in discussione lo spettatore. Il risultato è il meno interessante dei film di Howard di questi anni. Il film elimina le zone d'ombra che nascondono il dramma umano, dividendo nettamente gli eroi dai cattivi. [...] Sarà ricordato tutt'al più come uno sguardo sul lato più oscuro di Howard.”
(Sean O'Connell, “Filmcritic.com” 24/11/2003)


TERRA DI CONFINE (OPEN RANGE) di Kevin Costner
con Robert Duvall, Kevin Costner, Annette Bening, Michael Gambon, Michael Jeter

Secondo western anche come regista di Kevin Costner, a tredici anni dal trionfo di “Balla coi Lupi” (a tutt'oggi in America il film western di maggior successo di ogni tempo) e a dieci anni dall'assoluto fallimento di “Wyatt Earp” che gli ha parzialmente stroncato la carriera.

Come in “Balla coi Lupi” Costner mescola con abilità e furbizia classicismo e rivisitazione. “Terra di confine” si presenta apparentemente come una pellicola iperclassica nello sviluppo della trama, nel disegno dei personaggi, nei dialoghi puliti e virili. L'unica ma assolutamente sostanziale differenza con un western degli anni 40 o 50 è che dura un'ora di più. E Costner utilizza questo abbondante minutaggio in più per inserire nelle scene classiche tutta una serie di dettagli, particolari e rifiniture che approfondiscono, amplificano e trasformano il senso delle sequenze, i significati dei gesti, ridefinendo i caratteri dei personaggi. Tra gli esempi più lampanti, l'ironico dialogo tra i due protagonisti durante la lunga attesa della sparatoria finale con annotazioni sociali che arricchiscono in modo imprevisto la situazione, la classica confessione di un passato di sangue da parte di un personaggio a cui fa da contrappunto un bellissimo cielo stellato, il banale attraversamento di una strada cittadina resa un fiume di fango dalla pioggia che diventa un’impresa goffamente epica. Il tempo atmosferico è quasi un altro protagonista all'interno del film. Anche se a rischio di effetto pastello, parecchio originale anche la visione di un West fiorito e primaverile, apparentemente "gentile".

Come già aveva dimostrato in "Balla coi lupi", ma in parte anche nel disastroso apocalittico "L'uomo del giorno dopo", Costner è un regista tutt'altro che banale. Il suo pregio maggiore è la capacità di smontare e poi rimontare i luoghi comuni, riproponendoli come se fossero cose nuove. In questo senso notevolissimo il caotico massacro finale, dove riesce a restare in equilibrio tra eccitazione spettacolare e realismo destabilizzante, con ad esempio il classico risveglio morale degli onesti cittadini che è messo in scena senza nasconderne la natura meschina e tardiva. Altro gran pezzo di regia è quello in cui il suo personaggio ha un'allucinazione in casa del dottore, pochi secondi in cui Costner riesce a confondere le idee agli spettatori quanto quelle del suo personaggio. Senz’altro meno originale il lavoro sugli attori, comunque generalmente buoni, con i veterani Robert Duvall e Michael Gambon, il caratterista irlandese che fa il cattivo, che prevedibilmente surclassano tutti di parecchie spanne.

Non tutto funziona a dovere. Ad esempio il rallenty con cui si conclude la resa dei conti è fastidioso e incongruo con lo stile del resto del film. Ma soprattutto fastidiosi tutti gli sdilinquimenti finali tra Costner e Annette Bening, che, a parte far emergere una banalità sentimentale fino ad allora tenuta a freno, stonerebbero per eccessi zuccherosi in una commedia, figuriamoci in un western. Disguido sintomatico di quel sempre malcelato narcisismo con cui il Costner attore ha forse frenato la carriera e il talento del Costner regista.

Dicono di lui...

“A parte la scena della sparatoria, il film mi è sembrato uno spreco di celluloide. Robert Duvall, Kevin Costner, Annette Bening avrebbero potuto recitare quei ruoli dormendo. I dialoghi sono quasi intollerabili (e ce ne sono un sacco - nessuno sta seduto e zitto in questo film), la trama è tutta un ventaglio di opzioni come se non avessero saputo decidere quali temi stipare nella storia, non c'è alcuna sottigliezza. [...] L'importanza dei singoli eventi è diluita da tutte le "profonde e significative" conversazioni che dominano la maggior parte del film. Questi tipi hanno lavorato insieme per dieci anni e stanno parlando proprio adesso di quella roba? L'unica volta che non c'è molto dialogo è durante la sparatoria - che è il probabile motivo per cui mi è piaciuta."
(Ceyanna, "IMDb" 24/9/2005)

“A volte, lento è meglio. “Open range” è uno dei migliori film del 2003 e la prova innegabile che Kevin Costner è ancora un talento come lo era più di dieci anni fa, ai tempi di “Balla coi lupi”. [...] Ha ritrovato la giusta strada con “Open Range” tirando fuori un solido, vecchio stile da western. L'intero film procede come una mandria procede lenta e costante. […] In poche parole: in un momento in cui il cinema è governato da film muscolosi, veloci e prodotti col computer c'è ancora un posto per la classe di un film al servizio di una storia. Spero sarà sempre così. ”
(Coventry, “IMDb” 1/4/2004)


MONTE WALSH di Simon Wincer
con Tom Selleck, Isabella Rossellini, Keith Carradine

Più che un remake di "Monty Walsh un uomo duro a morire", con Lee Marvin del 1970, è un nuovo adattamento dell'omonimo romanzo di Jack Schaefer, coerente con la vena “letteraria” degli altri western interpretati da Tom Selleck. È un bel film televisivo sulla dura vita del cowboy Monte Walsh, ennesimo esempio come un certo cinema di genere dal respiro ampio e meditativo ormai trovi più facilmente asilo sul piccolo schermo che non al cinema. La confezione d'altra parte non ha nulla di televisivo nel senso negativo del termine, ma anzi sembra un film pensato per il grande formato, con campi lunghi e vasti paesaggi.

Un film in cui sono evidenti l'amore e la competenza che la coppia Selleck e Wincer nutrono e mettono nel western. È anche il più curato e ambizioso dei loro film dedicati al genere. Se gli altri film con protagonista Selleck si rifacevano al western classico, questo si rifà decisamente al western crepuscolare. E questo è forse l'unico vero problema del film. Perché mentre la formula del western classico nella sua atemporalità risulta sempre felicemente riproponibile, il western crepuscolare è invece un filone legato ad una precisa stagione del cinema americano. In sostanza quella dozzina di pellicole realizzate tra gli anni 60 e 70 che avevano svelato lo squallore e l'abbrutimento della vita dei cowboys avevano probabilmente già abbondantemente sviscerato ed esaurito l'argomento. Infatti se nel 1970 del film con Lee Marvin la demistificazione del mito del cowboy aveva ancora un senso ed era ancora una novità, nel 2003 riproporre quasi lo stesso punto di vista rischia di apparire una scelta ovvia e tardiva.

Detto questo il film è comunque notevole e regge bene il confronto con il film del '70. La casualità degli avvenimenti che portano al drammatico finale è ben resa, come anche la durezza della vita dei cowboys e la precarietà di ogni loro scelta di vita. L'amaro esito della storia sentimentale tra il protagonista e una dolce prostituta (Isabella Rossellini) è gestito senza nessuna concessione al sentimentalismo. La prosciugata regia di Wincer è ammirabile nella sua secchezza e laconicità, anche nelle poche ma efficacissime scene d'azione. Nonostante la profonda malinconia dell'insieme in controluce si intravede l'elegia nostalgia di un mondo comunque più semplice e virile, dove il protagonista accetta le crudeli casualità della vita con rassegnata dignità.

Dicono di lui...

"Deludente remake di un classico. La delusione maggiore deriva dall'aver visto l'originale "Monty Walsh" del 1970 con Lee Marvin, e dal conseguente confronto. Il film originale era davvero triste, ti dava la sensazione di un modo di vivere che stava scomparendo e che le cose non sarebbe davvero più state le stessa. Lee Marvin faceva percepire la delusione e l'angoscia del doversi lasciare la sua vita e i suoi amici alle spalle. Alla fine si percepiva anche un senso di sollievo e ottimismo, con la scena finale in cui sembrava dimenticare quel che ormai era alle spalle e guardava al futuro. Al contrario, l'attuale versione di "Monte Walsh" pur seguendo la stessa trama di base, citando e parafrasando il film originale, non sembra riuscire a trasmettere le emozioni delle situazioni, ma è più che altro l'esposizione di una storia di tempi grami. Le relazioni tra Monte e i suoi amici e la sua donna erano più sentite e genuine nell'originale che non nell'interpretazione di Tom Selleck. Il finale sembra voler essere più una fuga dal passato che uno sguardo sul futuro, senza riuscire a trasmettere la sensazione che la vita va comunque avanti.”
(Barrie Hiern, “IMDb” 18/1/2003)

“Meglio conosciuto per il romanzo "Il cavaliere della valle solitaria (Shane)", Jack Schaefer ha anche scritto il romanzo "Monte Walsh", una rappresentazione della vita del mandriano itinerante. Non c'è molta trama, ma una fetta estremamente dettagliata e meravigliosamente descritta di vita, dura, tenera e comica. Il primo film di Monte Walsh era un grande piccolo ritratto, con un ruolo insolito per un buon Jack Palance come Chet, l'amico di Monte. Ma questo remake TV potrebbe persino essere un film migliore. Tom Selleck è semplicemente grandioso come Monte - giusto solo un po' vecchio per fare il cowboy da rodeo, ma ancora parecchio in gamba. Keith Carradine si esalta come Chet, il cowboy che dà via tutto per sposare la vedova del ferramenta. [...] il film mi ha lasciato la sensazione che mi piacerebbe davvero trascorrere alcuni mesi con un gruppo di mandriani. La trama è realistica, per nulla artificiosa e sempre in movimento. "Monte Walsh" si guadagna davvero i suoi speroni, mostrando al pubblico del ventunesimo secolo come poteva essere la vita meravigliosa ed orribile del diciannovesimo secolo.”
(JimB-4, "IMDb" 3/2/2003)



Hard Ground - La vendetta di McKay (Hard Ground)
di Frank Q. Dobbs, con Burt Reynolds, Bruce Dern, Martin Kove, Amy Jo Johnson, Seth Peterson

Un feroce bandito compie una serie di rapine per finanziarsi un piccolo esercito e mettere così a ferro e fuoco il confine tra Stati Uniti e Messico. Visto che sulle tracce della spietata banda c'è solo un giovane vicesceriffo inesperto, l' anziano sceriffo, suo zio (Bruce Dern), chiede aiuto ad un vecchio pistolero (Burt Reynolds) che sta scontando vent’anni di carcere, e che è il padre del ragazzo. Alla caccia si unirà una ragazza, unica sopravvissuta ad una strage della banda e venduta come prostituta.

Tipico western televisivo, dai molti stereotipi e dal ritmo indugiante, ma con uno suo fascino demodé. Questo tipo di tv-movie sembrano fatti per mettere comodi gli spettatori. Quindi, nonostante un’insolita dose di violenza per un prodotto di questo tipo, è un film che bada bene di restare in superficie delle cose che racconta. Il viaggio dei protagonisti verso la resa dei conti con la banda non ha nulla di catartico e non ci sono particolari complicazioni psicologiche. Quel che conta sono i dialoghi attorno al fuoco, le cavalcate contro cieli ben fotografati, i rimbrotti e gli attestati di stima reciproci. Tutto è costruito per mettere in mostra l’esperienza di vita e la concretezza dei due protagonisti anziani, cui fa contrappunto l'inesperienza dei due personaggi giovani. I due vegliardi sono ovviamente l’incarnazione di un'America violenta, ma dagli incrollabili principi di lealtà e di rispetto dei ruoli sociali. È lo sceriffo ad aver arrestato il pistolero, nonostante fosse il marito della sorella, ma il pistolero non serba alcun rancore verso il cognato. Al contrario gli avversari sono un concentrato di pura malvagità (uccidono anche una bambina), sempre pronti al tradimento reciproco. Il capobanda in particolare sembra agire più per piacere di scatenare il caos e compiere azioni crudeli che per un reale tornaconto. Per tutto il film gira persino con il cappello di un soldato che ha ucciso, con tanto di foro di proiettile insanguinato in corrispondenza della fronte.

Film tanto lineari e schematici funzionano se funzionano gli attori. E in questo caso Burt Reynolds e Bruce Dern fanno la differenza rispetto a molti prodotti analoghi votati alla fiacchezza senile. Va da sé che non stiamo parlando di un film che sprizza freschezza giovanile, ma almeno non c'è il triste effetto di vedere vecchi attori hollywoodiani spompati costretti a fingere di essere ancora in gamba per ragione di copione, magari traditi da facce gonfie e doppi menti. Nonostante qualche traccia di lifting, una brutta parrucca e un pizzico di narcisismo, il sessantasettenne Reynolds è in buona forma e ha ancora un grande carisma, peccato che dopo i grandi successi degli anni 70 sia stato così poco e male utilizzato. Anche se sembra più vecchio di vent’anni Bruce Dern è suo coetaneo, ma è il classico immenso caratterista americano che saprebbe interpretare con classe anche un palo del telefono. Sono loro che danno fascino, carisma e burbera simpatia a personaggi che con altre facce sarebbero stati solo due vecchi tromboni. Efficaci anche i lombrosiani cattivi. Al solito invece inefficace il reparto giovanile, con le solite due belle facce in libera uscita da qualche telefilm adolescenziale, ma purtroppo questo è ormai un problema cronico per il western alle prese con le nuove generazioni di attori.

Una confezione povera ma di classe e una buona colonna sonora nobilitano una regia anonima, per quanto non priva di mestiere. È per altro l'unica regia western di Frank Q. Dobbs (morto nel 2006), che nella sua carriera ha però lavorato tantissimo nel western televisivo, come produttore, sceneggiatore (suo il pilot del telefilm anni 90 tratto da “I magnifici sette”), operatore, attrezzista, aiuto regista.

Dicono di lui…

“Il film sembra essere un'altra, ennesima, produzione di Robert Halmi Jr, sulla falsariga del suo lavoro per la leggendaria serie "Lonesome Dove", e, di fatto, questo film ha molti punti di contatto con quel celebre telefilm. [...] Anche se non direttamente collegato alle finalità della storia, il film mostra come gli individui di  quel periodo della storia americana, uomini simili a McKay e allo sceriffo Hutchinson, scoprirono solo da anziani che i loro sentimenti per l'ovest americano erano diventatati ironicamente simili a quelli dei nativi americani che contribuirono a scacciare. Quando il paesaggio libero e selvaggio cominciò a scomparire dalla Storia, iniziarono a provare rabbia e frustrazione. Gli spettatori che hanno eventualmente deciso di non seguire gli ultimi minuti di questo film (dopo che lo scontro a fuoco è finito) hanno, purtroppo per loro, perso le parole conclusive di McKay su questo argomento. Parole in cui potrebbero riconoscersi molti americani anziani che si sentono allo stesso modo, cento anni di vita più tardi, all'inizio di un altro secolo...”
(Glades, “IMDb” 16/11/ 2007)

“Se si ha familiarità con i film che produce e distribuisce la Hallmark Entertainment, già si intuisce che questo film non può che essere un bersaglio mancato. Ad essere onesti, non tutto il film è brutto. È sempre un piacere vedere Burt Reynolds o Bruce Dern, e in questo film ci sono entrambi. Danno al film un certo fascino e funzionano bene insieme. Ma non c'è molto altro in quest’opera. L'atmosfera non è quella giusta, dalla poco verosimiglianza della ricostruzione storica alle scenografie naturali troppo generiche. I cattivi sono sorprendentemente noiosi, non fanno molto di più che sparare alla gente sghignazzando. Il più grande difetto del film è che è molto quieto, procede a un ritmo lentissimo. Ci si sente come davanti ad un episodio western di mezzora allungato a 88 minuti.”
(Wizard, “IMDb” 7/11/2010)


PANCHO VILLA, LA LEGGENDA (AND STARRING PANCHO VILLA AS HIMSELF) di Bruce Beresford
con Antonio Banderas, Eion Bailey, Alan Arkin, Michael McKean, Jim Broadbent

Incaricato di girare un film dal vero su Pancho Villa (il realmente esistito e perduto “The Life of General Villa”, che davvero mescolava riprese di studio con riprese da documentario), un giovane cineasta americano finisce nel bel mezzo della rivoluzione messicana (1910 - 1917). Sperimenterà il fascino e le contraddizioni della rivoluzione, di un personaggio come Villa e di un mezzo illusorio come il cinema.

Film-tv anche troppo ambizioso, ma di egregia fattura. Tutta la parte riguardante il cinema nel cinema è troppo insistita e va a spezzare continuamente la parte rivoluzionaria e picaresca, che invece funziona piuttosto bene; è l'ennesima replica del celebre ma un po' logoro assunto fordiano della leggenda che vince sulla realtà. Più interessante il contrasto tra un Messico colorato e chiassoso, dove la gente vive la realtà sulla propria pelle combattendo e morendo in prima persona, e un'America fredda e grigia, dove la realtà è continuamente filtrata dai mezzi di informazione e le esperienze di vita sono solo quelle virtuali e manipolatorie del cinema. In questo senso notevole una delle prime sequenze del film, ambientata sulle sponde del Rio Grande che fa da confine tra le due nazioni: da una parte si vedono i messicani impegnati in una battaglia, mentre sull'altra sponda si vedono gli americani che assistono comodi e divertiti al combattimento come fosse uno spettacolo. La visione della rivoluzione è romanticamente positiva, nonostante se ne mostri anche il lato più truce, benché ovviamente gli ideali che la muovevano siano ridotto ad un'ottica genericamente umanitaria con ben poco di politico. Bizzarro il cupo pessimismo con cui viene dipinto invece il mezzo cinematografico, descritto come un'arte incapace di catturare la vita, ma capace solo di spacciare ad un pubblico affamato di rassicuranti banalità solo altra banalità. (Ci sarebbe da notare che tutto questo venga mostrato in un film che a sua volta romanza e semplifica fatti storici realmente accaduti.)

Sempre piacevole la rievocazione folcloristica di un Messico dove la rivoluzione è una specie di festa sanguinaria. Belle ed epiche le scene di battaglia, girate con tante comparse come si faceva una volta e gli effetti digitali ridotti al minimo. Una bella sorpresa considerato lo stile leccato e calligrafico per cui è conosciuto il regista Beresford (“A spasso con Daisy”), ben riconoscibile d'altra parte nelle parti americane del film.
Banderas si riconferma un attore monocorde e portato alla macchietta latina, ma in questo caso non privo di un certo carisma, anche se è forse più merito del fascino del personaggio storico che dell'interprete. Anonimi ma efficaci gli altri attori, tra cui spicca solo un canagliesco Alan Arkin nella parte di un avventuriero, ebreo e di Brooklin, esperto di mitragliatrici (spassosa la sequenza in cui lo ritroviamo alle prese con la vecchia madre). L'amico del protagonista è il reporter John Reed, protagonista nel 1981 del film biografico “Reds” diretto e interpretato da Warren Beatty. Tra i molti personaggi realmente esistiti c'è anche il futuro maestro (anche) del western Raoul Walsh, che interpretò davvero Pancho Villa in “The Life of General Villa”.

Dicono di lui...

“Non è un tipico film TV su un dramma storico fatto di sagome di cartone. Che il cinema sia un modo perfetto per fare propaganda non è una novità. I tedeschi lo hanno utilizzato molto durante la seconda guerra mondiale e anche in tempi più recenti è stato utilizzato per fare pubblicità all'esercito (ricordate il boom di giovani che volevano arruolarsi nell'aeronautica, dopo aver visto "Top Gun"?). Ma che Pancho Villa lo avesse già utilizzato nel corso della sua rivoluzione, tra il 1912-1916, è qualcosa di inedito. E non pensate che sia l'idea di qualche furbo tizio di Hollywood, bravo ad immaginare una bella storia che potrebbe diventare un buon modo per fare un sacco di soldi. No, è tutto realmente accaduto. Se non mi credete è sufficiente digitare “Pancho Villa” nella ricerca di IMDb e controllare la sua filmografia. Vedrete che ci sono stati diversi film realizzati con lui come attore protagonista. Peccato siano tutti andati persi. Ma nessun problema, abbiamo l'HBO, una canale televisivo noto per i suoi lavori di buona qualità riguardanti i soggetti (si pensi all'esempio di "Band of Brothers"). [...] Non spaventatevi dall'etichetta “TV” che si trova dopo il titolo. Non è il tipico drammone televisivo, ma un dramma dignitoso e robustamente storico.”
(Philip Van der Veken, “IMDb” 19/5/2005)

“Soggetto troppo duro e complesso per lo sceneggiatore medio Hollywood. Il grosso problema è che la storia è incentrata sull'esperienza durata un paio di settimane di una troupe cinematografica al seguito di Pancho Villa, ma il film non si limita a parlare semplicemente di Villa o solo della Rivoluzione. È una storia troppo imponente, con troppi personaggi, molti inganni e molti intrighi. Si doveva farne una serie o un film molto più approfondito per renderla più interessante. L'interpretazione di Banderas è simpatica ma stereotipata, e resta avvilente l'atteggiamento tradizionale di Hollywood nei confronti dei messicani delle epoche passate. Villa nel film è per lo più mal vestito, con la barba lunga, generalmente sporco e unto, si esprime come una persona greve ed ignorante. Si poetva evitare, il film ne avrebbe guadagnato.”
(A. Steve, "IMDb" 2/3/2007)


GANG OF ROSES (inedito in Italia) di Jean-Claude La Marre
con Monica Calhoun, Lil' Kim, Stacey, Marie Matiko, Lisa Raye, Bobby Brown, Mario Van Peebles

Le ex componenti di una banda di fuorilegge tutta al femminile e all-black (più un'asiatica), si rimettono insieme per vendicare l'omicidio della sorella di una di loro, assassinata da una donna appartenente ad un'altra gang, sempre di colore.

Connubio in odor di vecchia blaxploitation tra due non certo memorabili western degli anni 90: “Bad Girls”, per l'idea della banda tutta al femminile di ex prostitute, e “Posse”, omaggiato con un cameo del protagonista Jessie Lee interpretato sempre da Mario Van Peebles. “Gang Of Roses” è un western intriso di cultura hip hop, dove tutti gli anacronismi sono voluti e sfrontatamente ricercati. I personaggi di colore parlano e si atteggiano come dei gangster urbani, la colonna sonora ha i ritmi sintetici della black music odierna, gli assurdi costumi delle cowgirls sembrano usciti da un video di MTV di pessimo gusto.

L'insieme è un tale delirio che poteva anche essere divertente, se il risultato fosse stato all'altezza di un materiale tanto folle. Invece il film non è per nulla folle o delirante, neanche sotto il profilo della violenza e del sesso, ma è solo un bolso e inerte filmaccio senza stile. Difficile stabilire se l'haitiano La Marre è peggio come regista o come sceneggiatore. Nel primo ruolo si rivela totalmente inetto, probabilmente convinto che per dare un'aria “pulp” ad un film basti abbondare di primi piani di facce e pistole deformati dall'obiettivo. E dirige malissimo le scene d'azione, che per un western è un difetto madornale. Come sceneggiatore non ha una sola idea decente, sformando la solita trama anodina e cervellotica, tipica dei prodotti di serie Z che devono allungare il brodo. A cominciare da una sotto-trama di mappe del tesoro tatuate di interesse nullo. Particolarmente insensate le derive melodrammatiche del finale, con personaggi che muoiono in modo illogico e patetico, in netto contrasto con la patina cinica che il film aveva ostentato fino ad allora.

Dicono di lui...

“Penso che un gran numero di spettatori non abbia semplicemente capito che si tratta di una evidente parodia dei film western. Non è un brutto film, è un'intelligente versione di western con dentro delle belle figliole. Non credo che questo film si prenda mai sul serio, neanche per un momento. Ciò che rende questo film unico è il fatto di essere incentrato su quattro toste e belle donne, due delle quali di colore, un'asiatica e un'ispano/messicana. Non sono le solite donnette dei western, sono delle dure, che estraggono veloci e sparano dritto. La trama è quella tipica dei film western, del tipo "Hai sparato a mio fratello? Vengo a prenderti!" Solo che in questo western è il turno della sorella di una donna ed è lei è che parte per la vendetta con la sua banda. […]. È un film ben fatto, che non è riuscito a trovare un pubblico che lo riconoscesse per quello che è. La mia unica delusione è che la sola lesbica del film debba per forza essere una cattiva - delle "eroine", a parte una, non vengono invece mai resi noti gli orientamenti sessuali.”
(Starfire, “IMDb” 2/2/2007)

“Un mucchio fumante di sterco di vacca. Non mi raccapezzo nel tentativo di capire il perché questo film è stato fatto. Hip-Hop e vecchio western non sono fatti per mescolarsi. Che target di riferimento avevano in mente le persone che hanno avuto la bella pensata di progettare questa catastrofe? [...] Preferisco guardare la TV spenta che rivedere questa pellicola.”
(Lilmac, “IMDb” 1/12/2009)

“Questo film è la peggiore rappresentazione della popolazione nera che io abbia mai visto!”
(ActionScene “IMDb” 15/3/2007)

Scusi, dov'è il West?


Gods and Generals (inedito in Italia) di Ronald F. Maxwell
con Jeff Daniels, Stephen Lang, Robert Duvall, Mira Sorvino, Kevin Conway

Colossale produzione televisiva sulla Guerra di Secessione. Dieci anni prima lo stesso regista aveva diretto l'analogo “Gettysburg”, di cui questo nuovo film racconta gli antecedenti. Questa doveva essere la prima parte di una trilogia, ma è stata un gigantesco flop, anche a causa delle grosse difficoltà produttive che ne hanno tardato la messa in onda per tre anni. Per quello che chi scrive può capirne è probabilmente la ricostruzione storica più accurata e realistica di quell'evento storico (quindi lontanissima dall'iconografia western), almeno per il realismo dei costumi, delle scenografie e per l'attendibilità dei luoghi. Ma lo spirito con cui tutto è mostrato è quello ridicolo e inamidato che può piacere solo agli appassionati di Storia, illusi che eventi come le guerre possano essere spiegati attraverso isolati aneddoti strategici dovuti all'ispirazione dei condottieri, tanto consapevoli di star facendo la Storia che ogni due per tre se ne escono con frasi fatte apposta per essere tramandate ai posteri. Piuttosto che simili tromboni, meglio i poveri capitani alcolizzati che sognano di far saltare in aria i ponti che devono conquistare....

Tommaso Sega

5 commenti:

  1. Ciao a tutti, volevo segnalare che il film su Pancho Villa con Banderas esiste anche in italiano, anche se non so dirvi se è mai stato pubblicato in dvd o sia mai stato trasmesso in tv.

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  2. Hai ragione, su IMDb risulta uscito in Italia il 9 marzo 2005, anche se non è specificato dove e come. Non risultandomi un titolo italiano (lo avranno distribuito o trasmesso con un titolo in inglese così complesso?) ho dato per scontato fosse inedito. Grazie per la precisazione.

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  3. "And Starring Pancho Villa as Himself" è stato tradotto in Italia come "Pancho Villa, la leggenda". Visto che è un film televisivo immagino sia stato trasmesso su qualche canale Rai o Mediaset ed essendo diretto da Bruce Beresford non credo sia esattamente imperdibile...

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  4. Ok, aggiornata la scheda.
    Sì non è imperdibile ed è anche pochissimo western, ma come ho scritto nella parte messicana Beresford sorprende con tre o quattro belle scene di battaglia. Poi, ovvio, il suo è un Messico tutto di luoghi comuni, ma in fondo anche i nostri tortilla western mettevano in scena gli stessi cliché.

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  5. Se a qualcuno interessa "Pancho Villa, la leggenda" sarà trasmesso
    lunedì prossimo in prima serata su RaiMovie...

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