giovedì 21 marzo 2013

i registi 22 - Martin Ritt

Il west di Martin Ritt e Paul Newman
...e di James Wong Howe

Martin Ritt (1914 - 1990) è stato un tipico esponente della generazione di registi progressisti emersi a Hollywwod a cavallo tra gli anni 50 e 60, molto attivo anche in teatro e in televisione, fedele ad una tradizione liberal tanto nobile e volenterosa quanto un po' noiosa. Ottimo direttore di attori, regista solido, a differenza di altri di quella generazione gli è però sempre mancata la scintilla del vero talento. Il che non gli ha impedito di dirigere molti film interessanti e qualcuno anche bello. Due di quelli belli sono western. In tutto ne ha diretti tre, tutti interpretati da Paul Newman. Una trilogia che oltre al regista e all'attore vede un terzo protagonista, più defilato, ma non meno fondamentale, il grande direttore della fotografia cino-americano James Wong Howe (1899-1976).


1963 Hud il selvaggio (Hud)
di Martin Ritt con Paul Newman, Melvyn Douglas, Patricia Neal, Brandon De Wilde, Whit Bissell, Crahan Denton, John Ashley, Val Avery

In Texas un vecchio allevatore vede andare in rovina il suo piccolo ranch. Non gli é di aiuto né sollievo il figlio trentenne e scapestrato Hud. Un nipote adolescente, diviso tra l'affetto per il nonno e la voglia di emulare lo zio, è testimone impotente della decadenza famigliare.



Il nipote è interpretato da Brandon De Wilde. Dieci anni prima era stato il bambino che ammirava il romantico pistolero Shane impersonato da Alan Ladd ne "Il cavaliere della valle solitaria". Impressiona pensare che tra quel celebre classico e questo film fossero passati solo dieci anni, perché sotto tutti i punti di vista sembrano due pellicole appartenenti a epoche lontanissime, non solo a livello di linguaggio cinematografico. La fiducia nel sogno americano pur velata da una profonda malinconica di "Shane" (il titolo originale de "Il cavaliere della valle solitaria") lasciava il posto al pessimismo senza speranze di "Hud" (altro titolo originale con un nome proprio monosillabico) e il poetico e cavalleresco Shane veniva soppiantato dal cinico e arido Hud, un antieroe che dieci anni prima sarebbe stato impossibile immaginare al centro di un film hollywoodiano. Qualcosa era decisamente cambiato nella società americana e qualcosa stava per cambiare per sempre nel genere western.



"In questo Texas c'è qualcosa di Čechov" ha ben commentato Morandini. "Hud" è un affascinante western di ambientazione moderna, soffuso e pessimista, con al centro un personaggio totalmente negativo, impersonato da un mitologico Paul Newman, al massimo del suo splendore divistico. "Un uomo con l'anima avvolta dal filo spinato" recitava il bellissimo slogan del film. E il protagonista sembra davvero prosciugato da qualsiasi impulso positivo: ubriacone, rissoso, scopatore di mogli altrui, privo di ogni scrupolo, disamorato del proprio lavoro e della propria terra. Lo vediamo far praticamente morire di crepacuore il vecchio padre e quasi violentare la materna governante, impersonata dalla straordinaria Patricia Neal, che vinse l'oscar per questo ruolo. E alla fine riesce a disgustare anche il nipote adolescente che lo ammirava (per altro figlio di un fratello "buono" morto per una bravata di Hud). Ma quando anche il ragazzo se ne va lasciandolo definitivamente solo, lui si limita ad un'alzata di spalle e a scolarsi l'ennesima birra.

Nonostante un tal concentrato di bastardaggine alla fine il personaggio suscita quasi una paradossale simpatia. Coltivando il suo sordo rancore contro tutti e contro tutto, Hud almeno emerge per vitalità dal mondo rassegnato e squallido che lo circonda. Perdente anche lui come tutti, ma almeno con una sua crudele lucidità e senza i melensi e vuoti alibi idealisti coltivati dal padre.



Con "Hud" Ritt faceva un passo decisivo verso la fase revisionista e crepuscolare del genere. Non solo facendo letteralmente a pezzi il mito dell'America dei cowboy, ma destrutturando il genere raccontando una storia senza catarsi punitive o redenzioni, priva persino di un reale sviluppo narrativo. Accompagnato dalle note malinconiche di una chitarra, Hud percorre con la sua Cadillac le polverose stradine sterrate di un Texas rinsecchito e desolato, letteralmente dipinto dalle sterminate inquadrature in cinemascope del maestro James Wong Howe. Un paesaggio desolato in cui il mito della colonizzazione del West è ridotto ad un mesto e tedioso sopravvivere in una terra arida e vuota, che pare capace di produrre solo rapporti umani altrettanto aridi e vuoti.

Abbastanza incredibile che all'epoca un film senza speranza e senza risposte come questo fosse giudicato un film commerciale, poco più che una passerella per il divo Paul Newman. Ma forse ancor più incredibile è che tale giudizio avesse pure una certa fondatezza.


1964 L'oltraggio (The Outrage)
di Martin Ritt con Paul Newman , Laurence Harvey, Claire Bloom, Edward G. Robinson, William Shatner, Howard Da Silva, Albert Salmi, Thomas Chalmers

Un giovane prete, un giocatore d'azzardo e un cercatore d'oro si incontrano in una fatiscente stazioncina ferroviaria e si raccontano le diverse versioni di un fatto di cronaca, quello di un predone messicano che ha assalito una coppia, uccidendo l'uomo e violentando la donna. Il fatto viene quindi raccontato da quattro punti di vista differenti (compreso quello del morto).



Folle trasposizione in chiave western del capolavoro "Rashomon" di Kurosawa. Curiosamente uscì in America nell'autunno del 1964, mentre in contemporanea in Italia usciva "Per un pugno di dollari", un altro western tratto da un film di Kurosawa. I due film ebbero decisamente diversa fortuna. Trasporre in western i film di Kurosawa era una vera e propria moda nella prima metà degli anni 60, considerato che quattro anni prima era uscito "I magnifici sette", notoriamente tratto da "I sette samurai". Ma se trasformare le storie di samurai in storie di pistoleri aveva decisamente un suo senso, molto diverso era fare la stessa cosa con una favola morale come "Rashomon".

Infatti è uno dei western più strambi e strampalati mai visti. La storia è fedelissima a quella del film di Kurosawa, con pochissime e trascurabili varianti, ma la differenza di ambientazione modifica fatalmente il tono e quindi anche il senso di tutta la vicenda. Pur raccontando le stesse identiche cose, senza la spiritata teatralità degli attori giapponesi e senza il ritmo quasi musicale della regia di Kurosawa, si creano scompensi insanabili nella coerenza del racconto. L'ambientazione quasi da favola della versione giapponese rendeva plausibile una sequenza come quella del morto che parla attraverso una maga, molto più dura digerire la variante western con lo stregone apache che fa da tramite al morto davanti ad un tribunale americano. Un effetto posticcio che si avverte per tutto il film e che sminuisce il racconto. A cominciare dal gioco sulle diverse versioni del fatto di cronaca, dove si incrociano falsità e dubbie verità, che da apologo sulla menzogna di cui si nutre ogni esistenza umana si riduce ad una banale constatazione dell'ambiguità dei punti di vista. Il tutto non certo nobilitato dagli ampollosi dialoghi filosofeggianti dei tre narratori.



Nonostante tutto, almeno per due terzi di film, il geniale meccanismo narrativo inventato da Kurosawa (giustamente accreditato tra gli sceneggiatori) funziona anche ne "L'oltraggio". Crolla però inesorabilmente nella parte finale. Anche qui come nell'originale nell'ultima parte viene svelata la meschinità di tutti personaggi, ma se nel film giapponese la pateticità dei personaggi non smorzava la tensione, ma accresceva anzi il senso di amarezza, nella versione di Ritt sembra improvvisamente di vedere una commedia western del peggior Burt Kennedy, con gag degne di titoli come "L'infallibile pistolero strabico". Colpo di grazia il ritrovamento del neonato abbandonato da parte dei tre narratori, il barlume di speranza finale. Colpo di scena coerente nel contesto di un medioevo giapponese devastato da guerre e carestie, ma involontariamente ridicolo e gratuito se ambientato in una stazioncina ferroviaria del West sperduta in mezzo al nulla.



Un film quindi profondamente sbagliato, ma non privo di un suo fascino strambo e malato. Soprattutto grazie al mostruoso lavoro di James Wong Howe, che compie autentici miracoli con il suo bianco e nero. Tanto luminose e vuote erano state le inquadrature di "Hud", tanto qui le immagini sono barocche e piene di chiaroscuri. Resta impressa l'atmosfera di un West allucinato e surreale, con momenti di grande suggestione, come la spettrale atmosfera crepuscolare in cui è immersa la stazioncina ferroviaria e il clima rarefatto e onirico durante le sequenze del processo. Ritt dal canto suo ci mette la sua solita abilità nel dirigere gli attori, riuscendo ad infondere un fascino teatrale a molte sequenze. Se Kurosawa si rifaceva alla tradizione del teatro Nō l'americano sembra guardare al teatro di Pirandello.

Per Newman, che fa il trucido truccato da messicano, si tratta con tutta probabilità della sua interpretazione universalmente più mal giudicata. Ma alla fine la palese assurdità della sua mascherata è coerente con lo spirito alterato e ambiguo di tutta la messa in scena. E se fa la macchietta la fa comunque da grande attore.


1967 Hombre
di Martin Ritt con Paul Newman, Fredric March, Richard Boone, Margaret Blye, Martin Balsam, Diane Cilento, Cameron Mitchell, Frank Silvera, Barbara Rush

John Russell detto Hombre, un bianco adottato dagli apache, riceve in eredità una pensione gestita da una vedova. Recatosi in città vende la pensione e licenzia la donna. I due si ritrovano su una diligenza che durante il viaggio viene assalita da cinque banditi. Toccherà al mezzo indiano, disprezzato dagli altri passeggeri, fronteggiare la banda e salvare tutti. Ma a caro prezzo.



Tratto da un romanzo di Elmore Leonard (Hombre, 1961), l'ultimo dei western di Ritt e Newman è quello relativamente più tradizionale, pur comunque non privo di elementi originali. Notevole soprattutto la trovata paradossale di mostrare come vittima di pregiudizi razziali un personaggio interpretato da Paul Newman, che produce l'ovvio spaesamento di veder emarginato un bianco dai tratti apollinei e gli occhi azzurri, una contraddizione visiva che mette a nudo con efficacia i meccanismi sociali e culturali del razzismo. Un'intuizione a forte rischio ridicolo involontario riuscita alla perfezione soprattutto grazie alla straordinaria prova dell'attore. Infatti, nonostante appaia in costume da indiano solo nelle prime sequenze e poi sia sempre vestito come un bianco, è impareggiabile la capacità di Newman di atteggiarsi, muoversi e impugnare le armi come fosse davvero un apache. Da vita così ad uno dei migliori personaggi del western americano degli anni 60, un guerriero glaciale, imperturbabile e imperscrutabile, "una perfetta e magistrale interpretazione del classico e tormentato personaggio dell'anti-eroe newmaniano" (M. Mihich)



Tutto il film è all'insegna del paradosso. I noti liberal Ritt e Newman mettono in scena una realtà spietata, dove gli scrupoli morali e la pietà umana hanno solo effetti negativi e la sopravvivenza è legata alle scelte apparentemente amorali e opportunistiche del protagonista. In questo senso da antologia la sequenza in cui Hombre tenta di uccidere a sangue freddo un bandito che era venuto per parlamentare ("How you going to get back down that hill?"), dove non solo infrange una regola cavalleresca, ma anche una convenzione cinematografica che il pubblico in genere si aspetta venga rispettata anche dai personaggi negativi. Non è però un semplice ribaltamento di prospettiva, l'esaltazione del buon selvaggio libero dalle ipocrisie dei bianchi rispettosi delle convenzioni anche mentre si ammazzano, dato che il protagonista si dimostra anche cinico e opportunista, apparentemente indifferente alle sofferenze e ai problemi altrui. L'unico personaggio positivo del film è quella della vedova, la cui bontà scatenerà involontariamente però proprio la tragedia conclusiva. Il finale è infatti beffardo e crudele. Di fronte alla vigliaccheria e impotenza dei bianchi tocca al "selvaggio" indifferente tentare il gesto eroico, ma pagherà caro quel suo primo gesto di umana solidarietà.



Il film è carico di quell'atmosfera fatalista, sospesa ed ambigua, tipica di un certo cinema americano degli anni 60 e interpretato da gente uscita dall'Actors Studio come Newman. Il ritmo è lento e disteso, ma la tensione monta in maniera inesorabile, arrivando a splendidi momenti di tensione (la rapina, l'agguato sul crinale, il finale) che deflagrano in fulminee e memorabili esplosioni di violenza. I personaggi sono delineati con eleganza e sicurezza, soprattutto il capo dei banditi interpretato da Richard Boone, che tiene testa a Newman con il suo solito personaggio sornione e canagliesco, in fondo quasi simpatico.

James Wong Howe fa il solito magistrale lavoro anche con il colore. La fotografia in "Hombre" è al servizio della storia, più "invisibile" e neutra, meno spettacolare rispetto ai due film precedenti, ma ugualmente capace di trasmettere il senso dello spazio e di catturare il calore e l'aridità dell'ambientazione. Fu il suo dodicesimo ed ultimo western, il primo a cui aveva lavorato era del 1919, quasi cinquant'anni prima.

5 commenti:

  1. Ottima scheda. Sono sempre più convinto che dobbiamo avere qualche legame telepatico, perché ce l’avevo allo studio anch’io una monografia su Ritt (ma per fortuna non avevo ancora iniziato a scrivere niente). Mi mancava appunto di recuperare “L’oltraggio”, che non ho ancora visto.
    Riguardo agli altri due sono entrambe pellicole che mi piacciono moltissimo: “Hud” è un film davvero duro e senza speranza con un Newman bravissimo nel fare il bastardo (un ruolo simile a quello interpretato ne “Lo spaccone” un paio d’anni prima, ma qui ancora più degenere), mentre “Hombre” è un bellissimo western che si regge quasi tutto sulla sua glaciale interpretazione.
    Tra gli altri film di Ritt quello che ricordo con più piacere è “I cospiratori”, una durissima storia di scioperi di minatori interpreta da uno strepitoso Sean Connery.

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  2. Vorrei soffermarmi su "Hud il selvaggio", a mio parere il capolavoro di Martin Ritt.
    Come giustamente osservato il merito di quest'opera va diviso tra il regista, il direttore della fotografia James Wong Howe e l'eccezionale Paul Newman in una delle sue migliori e più coraggiose interpretazioni (e quindi, vista la caratura dell'attore, va da sè una delle migliori della storia del cinema) a cui aggiungerei però anche l'autore del romanzo originale "Horseman, pass by", ossia Larry McMurtry.
    Questo profilico autore texano comincerà proprio con questo romanzo una lunga carriera di romanziere e sceneggiatore culminata da una parte con il premio Pulitzer assegnato alla splendida saga western di "Lonesome Dove" (1985), dall'altra con l'Oscar vinto col copione di "Brokeback Mountain" nel 2006.
    Personalmente di suo ho letto solo "Lonesome dove" tradotto in italiano con il fuorviante titolo di "Un volo di colombe" e non posso far altro che consigliarlo caldamente a ogni amante di letteratura western (tra l'altro il libro uscì lo stesso anno di "Blood Meridian" di McCarthy in una sfida tra grandi autori che in America fece molto discutere) ma ha scritto moltissimi altri libri sull'epopea della frontiera, alcuni anche su personaggi storici come Cavallo Pazzo e Buffalo Bill.
    Fecondo anche il suo rapporto con Hollywood sia come sceneggiatore sia come autore di romanzi trasportati con grande successo al cinema anche se con alterni risultati oltre a "Hud il selvaggio" anche "L'ultimo spettacolo", "Voglia di tenerezza" e "Texasville".

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  3. Nel post precedente:
    "prolifico autore texano" ovviamente e non "profilico".
    Se qualcuno può correggere gliene sarei ovviamente molto grato.
    A proposito del dualismo "Lonesome Dove"/"Blood Meridian" molto interessante è l'analisi che ne fa Stefano Rosso nel libro "Le frontiere del West- forme di rappresentazione del grande mito americano" (Shake edizioni 2008), ponendo i due libri come le pietre angolari del postwestern sia letterario che cinematografico.

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  4. Beh, che dire Leno? Grazie mille per i preziosi appunti e i consigli!
    Alla scheda di "Hud" volevo aggiungere e poi mi sono dimenticato il nome di McMurtry, ma avrei messo solo una nota, non sapendo nulla dell'autore e della sua importanza.

    PS i commenti non si possono correggere, solo cancellare. Al massimo puoi riscrivere tutto corretto e poi io cancello i doppioni.

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    1. Grazie a voi per il bel blog e gli interessantissimi articoli piuttosto.

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