sabato 13 aprile 2013
i film - Bruciatelo vivo! / Le pistole dei magnifici 7
Nell'anno in cui il filone dei western americani girati Almeria produceva uno dei suoi risultati più fortunati (El Verdugo), uscivano anche i due titoli meno interessanti presi in considerazione da questa nostra rassegna. Anzi, il primo merita tranquillamente di vedersi appioppata l'etichetta western brutti...
1969 Bruciatelo vivo! (Land Raiders / Al infierno gringo)
di Nathan Juran con Telly Savalas, George Maharis, Arlene Dahl, Janet Landgard
Lotta fratricida tra un fratello buono contro un fratello cattivissimo, padrone di una città e foraggiatore dei cacciatori di scalpi che massacrano gli indiani dei dintorni. Saranno questi ultimi a risolvere la situazione in modo definitivo.
Regista e produttori sono americani, ma l'aria scalcagnata è da sottoprodotto italiano. Terribili in particolare le sequenze d'azione e di massa riprese palesemente da altri film, e i costumi da carnevale del quartierino, con quegli indiani finti la cui presenza era nove volte su dieci garanzia di serie Z per i western europei. Infatti. C'è parecchia violenza, anche se ogni volta che si vede scalpare qualcuno (il che capita spesso) la regia deve staccare, non avendo evidente i mezzi per un mostrare un qualsiasi effetto sanguinolento. Non si salva quasi nulla, dalla regia inerte alla trama cervellotica, stupida e noiosa. Il film è curiosamente incentrato sull'orgoglio messicano. Savalas è un messicano (sic!) che ha tradito la sua razza americanizzandosi il cognome e sposando una "gringa", mentre il fratello buono è un hombre molto macho e un po' scemo, orgoglioso delle sue origini e del suo ciuffo latino (“Al diavolo i gringos!” dice al fratello). Se aggiungiamo l'abbondanza di toni melodrammatici, soprattutto nei patetici flashback, vien da pensare ad un film maldestramente indirizzato al mercato latino.
Unica elemento degno di interessante è la presenza di Telly Savalas. Come Klaus Kinski era uno di quegli attori dalla presenza magnetica che riuscivano a non sfigurare anche nei contesti più miserabili e raffazzonati. E infatti la scena della sua morte, con lui serafico che aspetta nel suo ufficio di essere massacrato dagli indiani, è l'unico cosa da ricordare di un film per il resto tranquillamente dimenticabile.
1969 Le pistole dei magnifici 7 (Guns of the Magnificent Seven)
di Paul Wendkos con George Kennedy, James Whitmore, Monte Markham, Reni Santoni, Bernie Casey, Fernando Rey
Ancora una volta il pistolero Chris corre in aiuto della popolazione messicana in compagnia di altri sei compari. Stavolta devono assalire una prigione militare per liberare un capo rivoluzionario (l'onnipresente Fernando Rey).
Non sgradevole, ma noioso, terzo capitolo della serie. Non c'è più neanche Yul Brynner, sostituito da George Kennedy, attore enorme in tutti i sensi, ma che non ha mai avuto il fisico adatto per fare il protagonista. Anche le altre facce del film sono quelle di caratteristi televisivi tipici del periodo, il che da una parte da al tutto un'aria ordinaria da telefilm, ma dall'altra svecchia un po' l'immagine della serie. La confeziona è di lusso, ma gli autori sembrano fortunatamente prendersi poco sul serio, girando un semplice film d'azione popolato da personaggi colorati e fumettosi, caratterizzati in modo vistoso anche dal punto di vista visivo. Stavolta non va di scena il Messico arcaico dei due capitoli precedenti, ma quello pieno di militari, fucilazioni e impiccagioni canonizzato da El Verdugo. Anche la consueta retorica sul popolo che resta e vince, mentre i guerrieri passano e perdono, è aggiornata in chiave post-sessantottina con, al posto dei contadini inermi afflitti dai desperados, dei rivoluzionari straccioni che combattono contro i rurales. C'è anche il tentativo di diversificare il solito canovaccio, assecondando la moda di allora dei film sulle missioni suicide, con i soliti sette che per una volta devono attaccare e non difendere una posizione.
Alla fine tutto affoga però nel déjà vu. Il canovaccio è sempre quello ormai usurato del primo film. Tutto sembra pensato e scritto con lo stampino, con sempre gli stessi dialoghi, le stesse situazioni, le stesse dinamiche tra gli stessi personaggi. Alla fine muoiono i soliti che si devono redimere e, oltre al protagonista, sopravvivono quello simpatico e l'insopportabile pivello messicano. Anche il celeberrimo commento musicale di Elmer Bernstein finisce quasi per risultare fastidioso nella sua continua e vuota riproposizione. A parte una discreta dose di violenza (il comandante dei rurales è un sadico dedito alla tortura di massa), si batte insomma una strada davvero troppo battuta per essere ancora divertente. Alla fine il capitolo con più elementi "spaghetti" della serie sarà il quarto e ultimo con Lee Van Cleef, I magnifici sette cavalcano ancora del 1972, film però totalmente americano.
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