giovedì 18 aprile 2013

i film - Impiccalo più in alto



1968 IMPICCALO PIU' IN ALTO (Hang 'Em High)
di Ted Post, con Clint Eastwood, Inger Stevens, Ed Begley, Pat Hingle, Ben Johnson, Charles McGraw, Ruth White, Bruce Dern, Dennis Hopper

Jed Cooper, un ex-sceriffo accusato per errore del furto di una mandria da una banda di vigilantes, viene linciato sul posto e lasciato per morto. Sopravvissuto all’impiccagione e assunto come marshall agli ordini del sanguinario giudice Fenton inizia, in maniera legale, una spietata caccia ai suoi carnefici, in contraddittorio equilibrio tra giustizia e vendetta.

Anche se il clamoroso successo dei film della “Trilogia del Dollaro” (che stabilirono i maggiori incassi della storia del cinema italiano, polverizzando ogni record precedente) lo trasformò in un attore di culto in Italia, Clint Eastwood, a differenza di altri suoi colleghi americani (pensiamo, ad esempio, a Lee Van Cleef), non sembrò mai veramente interessato a una carriera cinematografica nel nostro paese.
Eccettuati i tre film di Sergio Leone non prese in considerazione nessun’altra proposta di lavoro nel western-spaghetti (forse anche perché il suo cachet, lievitato dai 15.000 dollari di Per un pugno di dollari ai 250.000 di Il buono, il brutto, il cattivo, non lo rendeva esattamente alla portata delle tasche delle nostre produzioni) e, se si esclude l’episodio Una sera come le altre del film collettivo Le streghe, diretto da Vittorio de Sica e interpretato a fianco di Silvana Mangano, fino al 1966 continuò a recitare nella serie televisiva americana Rawhide (quella della famosa sigla Rollin’ Rollin’ Rollin’ parodiata dai Blues Brothers, brevemente apparsa anche da noi con il titolo Gli uomini della prateria), da lui interpretata fin dal 1959 a fianco di Eric Fleming.



Con la distribuzione anche in territorio americano, nel 1967, delle tre pellicole leoniane il nome di Eastwood cominciò però a circolare anche presso gli Studios di Hollywood, pur se ancora con un certo sospetto, dato che i sadici western italiani di serie B che si permettevano irrispettosamente di giocare sullo stesso terreno del genere americano per eccellenza avevano ancora per l’establishment cinematografico a stelle e strisce lo stesso effetto di un’invasione aliena.
Eastwood, però, come sempre aveva le idee ben chiare in testa e dopo aver - piuttosto sorprendentemente - detto di no a un'offerta milionaria di Leone per la parte del protagonista di C’era una volta il West cominciò a pianificare con la sua abituale oculatezza il suo esordio presso il pubblico degli Stati Uniti.
La strategia dell’attore si mosse lungo due direttrici: apparizioni in grosse produzioni (Dove osano le aquile, La ballata della città senza nome, I guerrieri…) con cui consolidare il suo nome da star e progetti più autonomi e personali da gestire e realizzare in prima persona.
Come suo primo film americano da protagonista (precedentemente aveva sempre fatto la comparsa o al massimo il caratterista) contro ogni aspettativa rifiutò il ruolo andato poi a Gregory Peck in L’oro di Mackenna e scelse appunto uno di questi progetti: una sceneggiatura di Leonard Freeman e Mel Goldberg che trattava di giustizia e pena di morte, vagamente ispirata ad Alba fatale di William Wellman, da coprodurre a basso budget con la sua neonata compagnia di produzione, la Malpaso.

Come regista del suo esordio sugli schermi statunitensi Eastwood scelse personalmente e contro il volere della United Artists (che avrebbe preferito i nomi di John Sturges o Robert Aldrich) il newyorchese Ted Post, che conosceva e stimava come autore di molti episodi di Rawhide, e che aveva lavorato anche in molte altre serie western.
Post, nato a Brooklyn nel 1918, era un anonimo mestierante soprattutto televisivo e probabilmente uno di quei registi su cui Eastwood tendeva ad imporre la sua autorità di produttore, tanto che dopo una seconda pellicola insieme (Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan, 1973), il loro sodalizio si interruppe proprio per la poca libertà di manovra concessa al regista dal protagonista/produttore.



Eastwood scelse intelligentemente di presentarsi presso il nuovo pubblico con una pellicola che mantenesse, almeno in certa misura, le innovazioni stilistiche dei western italiani, ma calate in un contesto tranquillizzante e convenzionale tale da non scioccare il pubblico americano, ancora abituato ad un tipo di western molto più canonico.

Impiccalo più in alto risulta quindi una sorta di ibrido tra il western classico americano, con le sue convenzioni stilistiche e i suoi insegnamenti morali, e le nuove istanze estetiche di quello italiano, con i suoi cacciatori di taglie, le sue cacce all’uomo, le sue giustizie sommarie e la sua rappresentazione della violenza molto più esplicita.
E’ già anche un film in cui Eastwood, come in tutti i suoi western successivi , gioca con gli archetipi del genere: nella straordinaria sequenza d’apertura egli è un mandriano che sta conducendo una mandria di vacche (in pratica ancora in tutto e per tutto il Rowdy Yates della serie televisiva Rawhide) che, con un colpo di scena di grande effetto, viene preso e impiccato da una posse di giustizieri che lo accusa del furto della mandria (e già la violentissima scena della sua impiccagione – risolta in primo piano con ampio risalto al suo volto tumefatto – mette subito in chiaro lo scarto rispetto ai western americani precedenti); dopodiché sul suo corpo penzolante partono i titoli di testa virati in rosso come quelli di Django, o di un horror di Roger Corman, dopo i quali il nostro di fatto resuscita (viene salvato ancora vivo da Ben Johnson, grande attore fordiano che in questo caso rappresenta una specie di Caronte che traghetta il protagonista tra due diversi tipi di western) e rinasce come l’incarnazione dell’Uomo senza nome, che vestito di nero e con un cigarillo agli angoli della bocca comincia la spietata caccia a coloro che lo hanno impiccato. L’approccio al genere di Eastwood, come si vede, è già consapevole, personale e poco ortodosso.



Anche il protagonista del film, Jed Cooper, è una figura tormentata e dubbiosa più simile a quelle interpretate dall’attore nei western da lui diretti in seguito che non alla ieratica icona leoniana. Intanto ha un nome e un cognome ed è un servitore della legge anziché un cacciatore di taglie, e rispetto ai western di Leone sono già novità non da poco. Inoltre rispetto ai film della Trilogia del dollaro Eastwood cerca già di affrontare temi più complessi e profondi: l'attore Pat Hingle interpreta un personaggio ispirato al vero giudice Isaac Parker, soprannominato "Hanging Judge" a causa del gran numero di uomini da lui fatti giustiziare durante il suo servizio come giudice distrettuale a Fort Smith nell'Arkansas, e il film analizza la differenza tra giustizia e legge e come quest’ultima venga spesso esercitata in maniera personale e fallibile, tanto da causare nel protagonista dilemmi morali e tormenti interiori. Il film pone anche uno sguardo molto critico sulla pena di morte, descritta ne più ne meno come omicidio legalizzato, cosa che dovrebbe quantomeno far riflettere coloro che per molti anni hanno dipinto acriticamente Eastwood come l’incarnazione della destra americana più deteriore.

Il film contiene infatti almeno un’altra sequenza straordinaria, quella dell’impiccagione pubblica, raffigurata in forte e volontario contrasto tra grottesca atmosfera circense e cupa disperazione, e che è così simile come tensione alle analoghe scene di esecuzione presenti in Fino a prova contraria e Changeling che è impossibile non pensare che l’attore non vi sia intervenuto in prima persona.
Assolutamente notevole è anche il finale, risolto con un climax da tregenda da film horror.



I limiti della pellicola sono un andamento troppo televisivo, retaggio probabilmente della provenienza del regista, e una trama eccessivamente complessa e dialogata, che soffre anche di una lunghezza eccessiva (ma i western di Eastwood non sono mai brevi).
L’immagine del Far West è inoltre troppo ordinata e pulita, appunto da serial televisivo anni sessanta, e una delle principali innovazioni stilistiche del western italiano, quella della raffigurazione di una frontiera sporca, sordida e polverosa, è assolutamente tralasciata.

Le riprese iniziarono nel giugno del 1967 nella zona di Las Cruces nel New Mexico, mentre la scena del linciaggio di apertura è stata girata sulle rive del Rio Grande, e il film uscì nelle sale nel mese di luglio 1968.
Nonostante le prevedibili recensioni negative da parte della critica (il Time lo definì “il film più raccapricciante dell’anno” e Varietya poor American-made imitation of a poor Italian-made imitation of an American-made western”) il film fu un grande successo e incassò quasi 7 milioni dollari nei soli Stati Uniti. La carriera americana di Clint Eastwood era ufficialmente cominciata.

2 commenti:

  1. Bella analisi.
    Come altre pellicole di Eastwood palesemente dirette da registi "maggiordomi" io tendo a considerarlo un film di Eastwood a tutti gli effetti. Del resto, col senno di poi, la sua mano mi pare evidente in più punti, come ad esempio nel finale.

    Anche se non è stato un regista particolarmente brillante, di Ted Post secondo me va almeno segnalato il dimenticato, ma notevole "Vittorie perdute (Go Tell the Spartans)" con Burt Lancaster, che nel 1978 fu praticamente il primo vietnam movie moderno tra tutti quelli usciti negli anni 70 e 80.

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  2. Credo che in effetti la mano, più o meno presente, di Eastwood ci sia in tutte i film prodotti dalla Malpaso (tranne quelli di Don Siegel e “Una calibro 20 per lo specialista” di Cimino), anche se comunque quelli firmati da lui in prima persona sono indubbiamente registicamente molto più raffinati di quelli di un James Fargo o un Buddy Van Horn. Questi ultimi in effetti erano dei “maggiordomi”, o meglio degli amici, a cui Clint delegava le sue produzioni più commerciali. Il discorso vale anche per l’ultimissimo film prodotto dalla Malpaso, “Di nuovo in gioco”, firmato dall’esordiente Robert Lorenz, socio e amico di Eastwood di vecchia data.

    Di Ted Post, che veleggia per i 95 anni, ho anch’io sempre sentito parlare bene di “Vittorie perdute” ma lui comunque è stato un regista prevalentemente televisivo, il cui rapporto con Eastwood si interruppe appunto con il secondo film della serie dell’ispettore Callaghan proprio per il fatto che “pareva fosse Clint a dirigere il film”…

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