venerdì 29 giugno 2012

i film 39 - Jesuit Joe



1991 JESUIT JOE
di Olivier Austen, con Peter Tarter, John Walsh, Laurence Treil, Geoffrey Carey, Chantal DesRoches, Valerio Popesco, Guy Provencher

Tentativo ammirevole e coraggioso, ma purtroppo davvero ben poco riuscito, di trasporre su pellicola le immagini e le atmosfere delle storie a fumetti del grande Hugo Pratt.
Uno dei problemi di fondo della pellicola è probabilmente l’opera su cui è caduta la scelta, Jesuit Joe, conosciuta anche come L’uomo del Grande Nord (con questo titolo è stata pubblicata come ventottesimo numero della bellissima collana edita dalla Bonelli Un uomo Un’avventura nel giugno 1980), una delle più rarefatte e stilizzate, meno dialogate e più concettuali del Maestro veneziano.



E’ ovvio, quindi, che per raggiungere il metraggio sufficiente e l’ora e mezza canonica di durata il regista, tale Olivier Austen, al suo primo (e si vede) e unico (e si capisce perché) film, abbondi nelle inquadrature di paesaggi, con un profluvio di riprese aeree di distese innevate, immancabili sequenze accelerate di nuvole in movimento, ralenty a profusione e lunghissimi pezzi solo musicali (il tutto occuperà metà film).



Per quanto cerchi di rimanere il più possibile fedele al testo d’origine, seguendo alla lettera il canovaccio della storia a fumetti, il regista ne riempie spesso i silenzi con dialoghi sentenziosi e filosofici del tutto fuori posto, fino ad arrivare a un finale didascalico e “leoniano” che fa a pugni con l’asciuttezza di quello di Pratt.
La scelta peggiore di tutte, però, è senza dubbio l’idea di utilizzare come voce narrante un insopportabile e cantilenante avvoltoio (specie che in Canada nemmeno esiste), che interrompe di continuo la narrazione con degli insostenibili discorsi mistico-filosofici. Il ritmo del film, va da sé, è lento e soporifero.
La musica, in aggiunta, è completamente fuori luogo e contribuisce non poco a peggiorare notevolmente il tutto.



Abbastanza efficace, invece, l’attore protagonista, Peter Tarter, che trasmette abbastanza bene il cinismo e l’indifferenza del métis prattiano.
Da salvare rimane qualche immagine del Grande Nord innevato, comunque suggestiva per chi, come chi scrive, è cresciuto a pane e Jack London e alcune folgoranti battute prattiane, come quella iniziale in cui il protagonista spara a un paio di uccellini in amore: “Troppa felicità in questo bosco”.


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