da Lanky Fellow a Nessuno
Parte 2
1972 UNA RAGIONE PER VIVERE E UNA PER MORIRE
di Tonino Valerii con James Coburn, Telly Savalas, Bud Spencer, Georges Géret, Ugo Fangareggi, Guy Mairesse, Benito Stefanelli
Anche se è forse il suo western più impersonale, anche il quarto "spaghetti" di Valerii è piuttosto curioso come impostazione. Stavolta non tanto per la trama o lo stile, anzi abbastanza convenzionali, quanto per l'insistita morale pacifista, decisamente insolita in un genere abbonato al sadismo e alla violenza gratuita come il western all’italiana.
Grossa coproduzione italo-iberico-franco-tedesca, con due star americane all’epoca di primissimo piano come Coburn e Savalas, e il lanciatissimo Bud Spencer, alla sua prima "libera uscita" da famoso dopo il successo in coppia con Terence Hill. Tre anni prima Spencer aveva già partecipato ad un film con caratteristiche molto simili, Un esercito di 5 uomini di Italo Zingarelli. Delle grosse coproduzioni europee il film si porta dietro anche una certa mancanza di personalità, ma la confezione è di lusso e a livello di scenografie può usufruire del bellissimo fortino costruito in Spagna dagli americani per il finto spaghetti western El Condor di John Guillermin.
Il film è diviso abbastanza nettamente i due parti. La prima vede una sapiente entrata in scena di tutti i personaggi, l’arruolamento della mezza sporca dozzina, il viaggio attraverso le zone di guerra tra mille difficoltà. Con il suo stile "leoniano", Valerii sfrutta bene il tono picaresco delle sequenze, ma sa anche dare concretezza alle tensioni interne al gruppo dei protagonisti. Il tema di fondo era molto sentito nel cinema d’azione di quegli anni, il limite tra omicidio e legittimo atto di guerra, la differenza tra assassini e guerrieri. In questo senso la scena più riuscita del film è senz’altro quella inquietante della fattoria dei contadini tagliagole.
La seconda parte, incentrata sulla presa del forte, sconta proprio l'andamento lento e "leoniano" di Valerii. Stile perfetto quando resta sui personaggi, meno quando c’è da stringere i tempi e mandare avanti l'azione con la giusta tensione. Insomma, la lunghissima parte in cui vediamo i protagonisti che si intrufolano nel forte rischia di procurare qualche sonoro sbadiglio. Ma poi il film si risolleva nel notevole massacro finale, gran sequenza mortifera dal body count stellare, con gran finale di Savalas che muore al rallentatore.
Notevole anche la parata di facce patibolari del nostro cinema di allora che il film fa sfilare. Fanno un film tutto loro il torvissimo sguardo di James Coburn e il marpionissimo ghigno di Telly Savalas, quest'ultimo dona al suo personaggio anche una notevole carica di ambiguità sessuale (accende i fiammiferi sui testicoli di una statua e con il suo secondo sembra esserci molto di più di un rapporto cameratesco).
A dispetto di quanto si legge spesso in giro, ottimo anche Bud Spencer in una parte da cencioso alla Tuco. Certo non è un gigione da Actors Studios come un Eli Wallach o un Rod Steiger, ma con il suo stile asciutto e posato riesce a dare corpo e personalità ad un personaggio a tutto tondo, molto diverso dai suoi soliti. Anche grazie al consueto aiuto della "sua voce" Glauco Onorato al doppiaggio, naturalmente. Curiosamente Valerii dirigerà separatamente, uno dietro l’altro, la più celebre coppia del cinema italiano degli anni 70.
1973 IL MIO NOME E’ NESSUNO
di Tonino Valerii con Terence Hill, Henry Fonda , Jean Martin, Piero Lulli, Mario Brega, Marc Mazza, Benito Stefanelli, Alexander Allerson, Rainer Peets
Senza dubbio l’ultimo grande capolavoro dei western spaghetti. O comunque l’ultima pellicola del genere entrata nell’immaginario collettivo. Uno di quei film di cui si ricordano facilmente ogni battuta, scena, smorfia degli attori, in perfetto equilibrio tra ironia ed epica - tanto che può essere considerato allo stesso tempo un film comico con momenti seri quanto un film serio con elementi comici - mette in fila dalla prima all’ultima sequenza tutta una serie di scene e situazioni che si sono piantate nell’inconscio collettivo di tutti gli appassionati: la prima apparizione di Nessuno sulle note di Morricone, l’inizio con l’attentato dal barbiere (poi replicato nel finale con variazione triviale), il duello tra Terence Hill e Henry Fonda nel cimitero, le apparizioni del Mucchio selvaggio sulle note di una parodia della Cavalcata delle Valchirie di Wagner (sei anni prima che "Apocalypse Now!" rendesse il brano un luogo comune) , il vagare chapliniano di Terence Hill nella cittadina in festa, il dialogo attorno al biliardo con la favola dell’uccellino nella merda. Ma soprattutto la magnifica sequenza di Henry Fonda solo contro i centocinquanta del mucchio selvaggio e il bellissimo (e finto) duello finale, che si svolge in una elegante e affollatissima via, con tanto di fotografo ad immortalare l’evento: l'atmosfera crepuscolare di modernità incombente aveva raggiunto anche gli "spaghetti".
Se per il cinema americano la messa in discussione del western operata dal filone cosiddetto crepuscolare o revisionista fu una faccenda soprattutto storica, politica e culturale, per il cinema italiano e europeo fu una questione legata alla fede nei miti narrativi e alla possibilità, o impossibilità, di raccontarli ancora. Il film mescola l’elegia di un mondo e un genere che stanno scomparendo con lo svelamento della sua sostanziale falsità. Il colpo di genio della pellicola è Nessuno, rarissimo caso di personaggio che mette a nudo i meccanismi narrativi della storia di cui è protagonista senza mai arrivare a sfondare la proverbiale quarta parete, ma restando sempre all’interno della narrazione, personaggio vivo e credibile, per quanto sulfureo e surreale. Terence Hill va ben oltre il suo solito personaggio, dando prova di essere un attore dalla fisicità e i tempi comici dei grandi, con pezzi di virtuosismo recitativo come quello della scena dei bicchieri nel saloon. Peccato che non troverà quasi più registi altrettanto capaci di valorizzarlo.
Gli fa da contraltare il più convenzionale personaggio di Jack Beauregard, classico pistolero sul viale del tramonto che si dimostra meno leggendario della sua leggenda, illuminato dall’interpretazione di un enorme Henry Fonda, in vero stato di grazia e a cui basta respirare per essere mitico. Dopo il Frank di “C’era una volta il west” gli spaghetti western gli regalano un' altra indimenticabile interpretazione. Una bella differenza con il grigiore dei suoi ultimi anni di carriera hollywoodiana.
Parlare de "Il mio nome è Nessuno" significa purtroppo parlare anche dell'eterna controversia a su chi andrebbe realmente attribuito il film: al regista o all'ingombrante produttore Sergio Leone?
"Il film è ufficialmente firmato da Tonino Valerii e Leone figura effettivamente solo come produttore e autore dell'idea iniziale. Fin qui, almeno, la versione ufficiale. Il fatto, però, che parecchie scene di questo autentico piccolo capolavoro (amato e studiato, tra gli altri, anche da Steven Spielberg) siano di fatto state dirette da Sergio Leone in persona è cosa ormai conclamata da tutti. Ed è stata ammessa anche dallo stesso Tonino Valerii qualche anno fa in un libretto-intervista della rivista Nocturno Cinema. Solamente che Valerii, evidentemente ancora risentito con Leone pur vent’anni dopo la sua morte, ha dichiarato che le scene dirette da Leone sono quelle più “deboli” del film, quelle in stile Trinità (la scena del saloon, la scena del circo, ecc.), mentre le scene madri sarebbero state dirette da lui.
Sergio Leone ha più volte invece dichiarato (sminuendo con davvero ben poca signorilità l’apporto di Valerii, bisogna dire) che le scene per cui il film è famoso (la scena iniziale con Henry Fonda, quella del cimitero, quella con il Mucchio selvaggio, ecc.) sono state da lui dirette in prima persona.
Ora, a chi ne capisce solo qualcosa di cinema e ha visto le precedenti opere sia di Leone (La trilogia del dollaro, C’era una volta il West, Giù la testa) che di Valerii (I giorni dell’ira, Una ragione per vivere e una per morire) appare davvero lapalissiano chi è stato a dirigere cosa. Con tutto il rispetto verso Valerii, bravissimo artigiano, e ammettendo il comportamento certamente ingeneroso di Leone verso di lui, la differenza di “mano” nelle diverse scene appare davvero chiara ed evidente.
Secondo me proprio per questo Il mio nome è Nessuno vive di due anime nettamente distinte e contrapposte (quella ridanciana alla Trinità di Terence Hill e quella da western classico di Henry Fonda), facendo risaltare ancor di più (e quindi forse intenzionalmente) il discorso sulla fine di un’epoca storica e l’avanzata della modernità che Leone ha voluto affrontare." (Mauro Mihich)
Da un altro punto di vista l’eterna controversia potrebbe essere considerata di lana caprina. In primo luogo perché comunque il film è diretto benissimo dalla prima all’ultima sequenza, con trovate e finezze in ogni scena, e Valerii aveva già dimostrato di essere capacissimo da solo di dirigere "alla Leone". In secondo luogo perché sopravvalutando l’influenza di Leone nel film si rischia di sottovalutare l’influenza che tutti i produttori hanno sui film che producono, soprattutto nel cinema di genere. Certo non tutti i produttori girano delle scene sostituendosi al regista e sono anche degli autori dalla personalità riconoscibilissima come Leone. Ma alla fine non si capisce perché non attribuire, semplicemente, il film a chi ci ha messo il nome.
Al di fuori del western Valerii dirige un interessante thriller all’italiana "Mio caro assassino" e un discreto poliziottesco come "Vai gorilla". Poi come succede a praticamente tutti i registi di genere di quegli anni la sua carriera declina rapidamente con il declinare produttivo del cinema italiano, trovando al massimo un rifugio nell’anonimato televisivo.
Merita di essere ricordato come il regista capace di regalare agli spaghetti western alcuni dei personaggi più memorabili del genere: il cacciatore di taglie Lanky Fellow, il pistolero Frank Talby, il pistolero stanco Jack Beauregard e Nessuno.
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