mercoledì 10 aprile 2013

i film - Shalako



1968 Shalako

di Edward Dmytryk con Sean Connery, Brigitte Bardot, Stephen Boyd, Jack Hawkins, Peter van Eyck, Honor Blackman, Woody Strode

Un gruppo di nobili europei ha la bella pensata di organizzare una battuta di caccia in territorio apache, facendosi anche guidare da una canaglia che li abbandonerà appiedati. Toccherà a Shalako, un bianco amico degli indiani, tentare di salvarli. Se la caveranno in pochi.

Raro caso di produzione western anglo-tedesca, però dal gusto assolutamente americano, diretto da un veterano di Hollywood e tratto da un romanzo di Louis L'Amour, autore che ricorrerà spesso in questo filone. Anche la canzone dei titoli di testa fa Hollywood vecchio stile. Non ha una buona fama, invece è tutto sommato un buon western vecchio stile, infarcito di indiani, assedi, inseguimenti e agguati. È il quinto ed ultimo western di Dmytryk, che due anni prima in America aveva diretto l'inamidato e obsoleto (quello sì) "Alvarez Kelly". In Europa evidentemente si respirava un'aria diversa, perché questo invece ha una parvenza più moderna e scattante, soprattutto grazie ad un montaggio efficace, che vivifica le numerose sequenze d'azione. In un certo modo il film anticipata la violenza e il cinismo degli anni 70, con diverse concessioni ad una violenza sensazionalista. Gli ammazzamenti sono in effetti tutti un po' truci, c'è gente che si becca in pancia frecce incendiarie, cani sgozzati e una sequenza decisamente sadica con Honor Blackman (ai tempi famosa dopo aver affiancato proprio Connery nel terzo 007 "Missione Goldfinger") che viene tormenta e uccisa dagli apache che gli fanno ingoiare una collana.



La storia scorre prevedibile e stereotipata, ma divertendo e dosando le giuste dosi di tensioni e cattiveria per tener desta l'attenzione, peccando solo in un finale improbabile e un po' buttato lì. L'unico tocco originale è l'idea di questi aristocratici europei in gita nel selvaggio West che si scontrano con la feroce vitalità del Nuovo Mondo. Ma lo spunto si risolve in un contrasto abbastanza manicheo e prevedibile tra spocchia nobiliare e genuinità americana, anche se fortunatamente si mescolano anche un po' le carte, ad esempio con  l'inetto barone interpretato da Peter van Eyck che si riscatta grazie alla sua esperienza di alpinista. Curiosi gli effetti provocati dalla natura apolide del cast, con uno scozzese che impersona un personaggio simbolo di virilità americana, una francese che impersona una contessina russa e un attore di colore (Woody Strode) che fa il capo apache. Eloquente dello spirito dei tempi il fatto che si tentasse di costruire un film di successo imitando modelli americani, ma costruendo tutta l'operazione attorno a due divi del cinema europeo.



Eppure il film scontentò, e rischia di scontentare ancora oggi, per quello che è appunto ancora oggi il suo principale motivo di interesse, cioè la presenza come protagonisti di due delle massime icone cinematografiche degli anni 60. Per Sean Connery sarà l'unico western della carriera, per la Bardot il secondo di tre, ma l'unico non farsesco. Probabilmente nessuno dei due era particolarmente adatto al genere, ma il problema vero è che qui sono alla prese con due personaggi che sfruttano al minimo le caratteristiche che li avevano resi celebri. La carica erotica della Bardot è imprigionata in un ruolo che avrebbe potuto interpretare qualsiasi altra attrice di bella presenza. L'unico momento in cui gli autori sembrano ricordarsi di chi era la Bardot è nella scena in cui fa un bagno mezza nuda, sequenza ovviamente gradevole (almeno per il pubblico maschile), ma improbabile e fuori tono rispetto al resto del film. Anche il fascino virile di Connery è ingabbiato in un ruolo da generico fustacchione. La cosa è paradossale se si pensa che in quegli anni nei western spaghetti c'erano personaggi ispirati al suo James Bond, magari interpretati da attori che giocavano molto su una più o meno vaga somiglianza proprio con Connery.

Alla fine la potenziale alchimia tra i due attori e il fascino che avrebbero potuto avere i loro personaggi traspaiono più dalle numerose foto di scena che circolano sulla lavorazione del film che non dal film stesso.






Probabilmente con due attori meno ingombranti come protagonisti e quindi con un minor carico di aspettative da mantenere il film all'epoca sarebbe stato accolto e giudicato con meno severità (fu comunque un buon successo di pubblico). Ma probabilmente senza Connery e la Bardot sarebbe oggi un titolo completamente dimenticato.

4 commenti:

  1. Per me il più grande merito di questo film è senza dubbio quello di aver fornito lo spunto per una delle migliori storie di Zagor, "La marcia della disperazione" di Nolitta/Ferri.

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  2. In effetti già di suo è un film con molte caratteristiche nolittiane.

    Anche un episodio di "Alla conquista del West" aveva uno spunto identico. E a sua volta l'episodio del telefilm aveva influenzato ben due storie di Tex scritte da Nizzi, l'ottima "Sioux" disegnata da Ticci e la meno riuscita "Le colline dei Sioux" disegnata da Monti.

    Mi chiedo se tutto parte da questo film o alla base esiste un qualche evento storico realmente accaduto.

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  3. Può anche essere, forse le scampagnate di ricchi europei nel selvaggio West all'epoca non erano una rarità e la cosa potrebbe aver ispirato il libro di L'Amour.
    Anche se bisogna dire che il gruppo di ricchi civilizzati alle prese con la natura selvaggia un topos sfruttato in molti racconti avventurosi sin dai tempi di L'ultimo dei Mohicani.

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  4. Ragazzi, ma quanto è bona la Honor Blackman semi-spogliata dagli Apaches, che le recidono pure il corpetto con un colpo di coltello?

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