1950 LE FURIE (The Furies) di Anthony Mann. Con Barbara Stanwyck, Walter Huston, Wendell Corey, Gilbert Roland, Judith Anderson.
Piú che un western un ingessato drammone in abiti western, teatrale e un poco antiquato, che fa specie sapere successivo al fiammeggiante e modernissimo Winchester ‘73: non stupisce sia uno dei capitoli meno celebrati della carriera di Mann. Non un brutto film comunque, anzi: fatto il callo all’atmosfera seriosa e ai toni stentorei, irrimediabilmente datati dei dialoghi – non aiuta il vetusto doppiaggio, che aggiunge improbabili citazioni in latino e italianizza maldestramente i nomi – si possono apprezzare le tinte forti da tragedia, suggerite sin dal titolo – le Furie o Erinni nella mitologia greca erano tre sorelle, personificazione della Vendetta – e le inevitabili implicazioni psicanalitiche, riassunte nel perverso rapporto di amore-repulsione che unisce la giovane e impetuosa Vance al padre, megalomane e tirannico. Non mancano i rimandi a Shakespeare, consuetissimi in Mann: il vecchio Jeffords rinvia direttamente a Lear, anticipando per molti versi l’Alec Waggoman dell’Uomo di Laramie, ma si individuano facilmente anche collegamenti con La bisbetica domata, senza dimenticare influenze dostoevskijane (L’idiota soprattutto), indicate dallo stesso Mann. L’eredità letteraria è insomma cospicua, e se da un lato costituisce un indubbio motivo d’interesse, dall’altro incombe sulla pellicola come un peso gravoso, talora spossante, di cui in qualche modo sembra risentire il regista stesso. Mann infatti, concordemente alla materia narrata, sfoggia uno stile insolitamente compassato e flemmatico, che trova sfogo soltanto nelle poche, ma memorabili, sequenze d’azione: strepitose la sparatoria notturna presso la proprietà degli Herrera, famiglia di abusivi che Jeffords vuole scacciare dalle “Furie”, e la conseguente impiccagione del capofamiglia. Nel cast, oltre alla Stanwyck, bravissima - pur con un che di fastidiosamente accademico - nel rendere un personaggio complesso e mutevole, svetta il grande Gilbert Roland, attore splendido e poco fortunato che troverà il ruolo della vita soltanto a carriera cinematografica praticamente finita in un misconosciuto gioiello del western italiano, Ognuno per sé di Giorgio Capitani. La scura e violenta fotografia, quasi da noir, aggiunge tenebre ad una Frontiera ferma al Medio Evo, in cui, come ricorda l’iscrizione iniziale, i feudatari sono sostituiti dai proprietari terrieri in un delirio di grandezza e dominio, fra busti di Napoleone e una miseria sotterranea, inconfessabile e spaventosa. Le Furie, a differenza della maggior parte dei western manniani, non è passato indenne alla prova del tempo: eppure conserva, forse proprio in virtú di questo, un fascino strano, una potenza indefinibile e inquietante. Come fosse scritto da un Eschilo che abbia per chissà quale meccanismo valicato le barriere spazio-temporali, giunto fino a noi per ribadire uno dei suoi ancestrali, terribili moniti.
Paolo D'Andrea
Ottima recensione.
RispondiEliminaDirei che concordo, anche se ad essere sincero lo ricordo pochissimo. A deludermi fu soprattutto il finale, in cui invece dell'esplosione della tragedia tutto mi sembrò finire in modo ambiguo e (almeno nelle intenzioni) strappalacrime.
C'è da dire che ero partito con aspettative molto alte. Prima di tutto perché ovviamente è un film di Mann, poi perché nel suo documentario sulla storia del cinema americano Scorsese dedica grande spazio a questo film, mostrando proprio la bellissima scena dell'impiccagione. Peccato che il resto del film non sia decisamente dello stesso livello.
E' uno dei western di Mann che ancora non sono riuscito a reperire (gli altri sono "L’ultima frontiera" e "Il segno della legge"). Bisogna dire che Mann all'epoca era ancora un regista tuttofare che dirigeva tre film all'anno e quindi era difficile che ognuno fosse un capolavoro come "Winchester '73"...
RispondiEliminaIn particolare il 1950 è stato in assoluto l'anno più prolifico della sua carriera, con ben quattro film all'attivo: tre western (dei quali due sono peraltro capolavori assoluti) e un buon noir con Farley Granger ("La via della morte").
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