venerdì 13 gennaio 2012

gli attori 1 - Tony Anthony

TONY ANTHONY
Dall'America con furore (e un pizzico di follia)

di Paolo D'Andrea, con i contributi di Tommaso Sega e Mauro Mihich


Quella di Tony Anthony (al secolo Roger Petitto) è stata, fuor di ogni dubbio, una delle personalità piú eccentriche e bizzarre che abbiano calcato i set del western nostrano. Un americano che in quella prolifica stagione dell’industria cinematografica italiana trovò terreno fertile per propugnare la sua personalissima concezione di un cinema stralunato e sopra le righe, in cui la dissacrazione dei tópoi e il ribaltamento dei canoni di genere diventano una vera e propria cifra stilistica. Il suo alter ego filmico, un vagabondo noto semplicemente come “lo Straniero” – ufficialmente protagonista di soltanto quattro dei suoi western (vedi sotto), ma lo è a ben vedere di tutti i suoi lavori – , è finito per divenire una delle figure di maggior culto del western italiano: sostanzialmente l’altra faccia della medaglia del senza-nome che Clint Eastwood incarnò negli spaghetti leoniani o, volendo, la sua versione «trasversale, sghemba e scazzata» [Mauro Mihich]. Non ne risulta però - e proprio in questo aspetto si cela il genio di Anthony - una semplice e goffa caricatura: appare, piuttosto, il risultato di una consapevole opera di sottrazione e smitizzazione, ottenuta tramite gli strumenti dell’ironia e dell’iperbole utilizzati in funzione antiepica. Perfetta esemplificazione di questo procedimento critico è la sequenza d’apertura del suo secondo film, Un uomo, un cavallo, una pistola: un cavaliere – lo Straniero, appunto - avvolto in un poncho lurido e sdrucito si avvicina alla macchina da presa riparandosi dal sole con un ombrellino rosa lavorato a pizzo, l’espressione di una svaccata indolenza stampata sul volto madido di sudore. Scorrono i titoli di testa sul suo tentar di arrotolarsi una sigaretta, cui desiste dopo un paio di maldestre esibizioni a favor di camera. Ecco cosí delinearsi il tipo di un pistolero accidioso ed errabondo, il cui animo ravvivato esclusivamente da avidità e basso opportunismo conduce ad impelagarsi in imprese fuori della sua portata, dalle quali esce o sconfitto o vincitore a prezzo di umiliazioni e torture di ogni tipo inflittegli dagli avversari. Tradimento, assassinio a sangue freddo, colpi alle spalle e inganno sono per lui espedienti usuali e imprescindibili. Tratti che raggiungono il parossismo in quello che da molti è reputato il suo capolavoro, Blindman: fin dall’idea di sovvertire la classica immagine del mendicante cieco, che da poveraccio inoffensivo e sottomesso quale sembra all’inizio si trasforma nel corso del film in una specie di angelo sterminatore dalle capacità quasi soprannaturali - ispirato allo spadaccino Zatoichi della tradizione giapponese - l’esasperazione la fa da padrona: donne declassate a mero oggetto di scambio, rappresentanti della legge corrotti e viziosi, una sequela di massime messe in bocca al protagonista improntate all’esaltazione del piú arido cinismo e del piú insensibile egoismo, una ridda di personaggi che si ammazzano a vicenda col sorriso sulle labbra. Da questo campionario di intuizioni emerge, come in una straordinaria ambivalenza, anche l’identità più ascosa del western anthonyano; quella che configura la tetralogia dello Straniero – e le sue propaggini - come una saga che condivide con i risultati piú fulgidi del genere una rappresentazione smisurata e barocca della violenza contenente in nuce una visione nichilistica e disillusa del genere umano, dipinto come un branco di belve la cui lotta intestina ha per fìne un meschino connubio fra profitto e sopravvivenza. Delirio di un folle? Be’, uno che porta lo spaghetti in Giappone e pure nella Spagna medievale una vena matta ce l’ha di sicuro. Ma, insomma… devo proprio ricordarvelo io quel vecchio adagio di Diderot sullo stretto rapporto fra genio e pazzia?


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Tony Anthony è un tipo che divide gli appassionati: o lo si ama o lo si odia. Ma una cosa devono riconoscergliela tutti, anche i detrattori: sapeva scegliersi i collaboratori. Stilisticamente, infatti, le sue pellicole sono assolutamente impeccabili, a volte anche qualcosa di piú: l’atmosfera sospesa, quasi irreale, in cui i momenti d’azione si alternano a lunghe, oniriche pause di silenzio e musica che contraddistingue Un dollaro tra i denti, per esempio, ha pochi pari non solo all’interno del western italiano. Probabilmente il merito va dato in buona parte allo stesso Anthony, il quale – ricordiamolo – seguiva molto da vicino la realizzazione dei suoi film, il piú delle volte producendoli e scrivendone di proprio pugno le sceneggiature. Ma sarebbe altamente ingiusto non attribuire la giusta importanza all’apporto dei due grandi e dimenticati (guarda un po’) artigiani del nostro cinema cui l’americano affidò il proprio estro.


LUIGI VANZI (1925-?)

Dimenticatissimo. Di lui si sa pochissimo. Nato nel 1925 e non si sa quando morto (Marco Giusti sul suo "Dizionario dei western all'italiana" mette un punto di domanda al posto della data). Eppure dei solo otto film da lui diretti, i quattro girati con Anthony sono dei gioielli (il quarto ed ultimo, Piazza pulita, è un gangster-movie girato come un western) e anche l'avventuroso Il segreto dei soldati di argilla, per i pochissimi che lo hanno visto, sembra un film molto interessante (unica laconico commento trovato in rete: «Bellissimo e introvabile film di avventura che nasconde un piccolo segreto. A voi scoprirlo sempre se riuscirete a vederlo.»). Prima aveva girato un paio di mondomovie e l'immancabile peplum. Se mai c'è stato un regista da riscoprire... (T. S.)


FERDINANDO BALDI (1927-2007)

Relativamente piú conosciuto di Vanzi, ma almeno per quanto riguarda i western pure lui uno dei tanti piccoli grandi maestri dimenticati del nostro cinema di genere. Era il tipico regista tuttofare del nostro cinema, con una quarantina di film all'attivo. Come molti era arrivato agli spaghetti dopo una lunga gavetta nei cappa & spada e nei peplum. Anche nel western ha girato di tutto, da un musicarello con Rita Pavone (Little Rita nel West), ai fagioli-western con i sosia di Bud Spencer e Terence Hill. Regista raffinato e tecnicamente solidissimo, ha caratterizzato i suoi western con atmosfere crudeli e surreali, non di rado contaminandoli con la tragedia greca e il melodramma. (T. S.)


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1966 UN DOLLARO TRA I DENTI di Luigi Vanzi. Con Tony Anthony, Frank Wolff, Gia Sandri, Jolanda Modio, Raf Baldassarre.


Primo spaghetti-western per il grande Tony Anthony, con il fido Luigi Vanzi alla regia (poi verrà sostituito dall’altrettanto fidato Ferdinando Baldi), che esordisce nel genere realizzando quello che è probabilmente uno dei capolavori del filone. C’è già la geniale commistione tra trucida violenza (il film fu vietato addirittura ai minori di diciotto anni) e beffarda ironia, marchio di fabbrica di Anthony in tutti i film a venire, con il protagonista sfigato e perdente che ammazza gli avversari preferibilmente alle spalle o a tradimento. La regia di Vanzi è tutta giocata sullo stile: elegante e barocca, esaspera e dilata allo spasimo le lentezze dei western leoniani. Oltre ad Anthony, impedibile nella sua andatura indolente e nella sua espressione a metà tra l’indifferenza e il sarcasmo, il film vanta anche un Frank Wolff in uno dei suoi ruoli piú riusciti, quello del sadico e crudele Aguila, che prende a calci le donne e tortura perfino i neonati. Indimenticabile la colonna sonora di Benedetto Ghiglia. (M. M.)


1967 UN UOMO, UN CAVALLO, UNA PISTOLA di Luigi Vanzi. Con Tony Anthony, Marina Berti, Ettore Manni, Marco Guglielmi, Daniele Vargas.


Vanzi e Tony Anthony meglio di altri avevano capito le regole dettate da Leone: intreccio e personaggi ridotti all'osso, ampie divagazioni, tempi dilatati, gran cura delle coreografie violente, molta attenzione ai rumori e ai dettagli. Ha probabilmente ragione chi sostiene che i film dello Straniero sono una rivisitazione grottesca, naïf e cialtrona, della "trilogia del dollaro", ma non è certo un difetto. Ancora più che nei film di Leone, nobilitati dal respiro epico, in una pellicola disadorna come questa si avverte il gusto acre dello spettacolo della morte. Ben curato e pregevole doppiaggio italiano, uno dei veri punti di forza di tutto il film, che serve bene dei dialoghi pepati al punto giusto e alcune azzeccate battute ad effetto. Il personaggio dello “Straniero” si riconferma formidabile, praticamente la versione strampalata e un po' sfigata del personaggio di Clint Eastwood. Bello l'inizio con la lunga gag delle fosse e ottima la lunghissima resa dei conti finale illuminata dai fuochi d'artificio. Da antologia delle crudeltà la sequenza dello sgherro a cui il protagonista concede l'ultimo pasto prima di freddarlo. Non potendo competere con le coreografie di Leone gli autori hanno optato per scoppi di violenza ancora più fulminei e brutali, amplificati dall'uso di un fucilone a quattro canne. Un piccolo classico, un soffio sotto il precedente per via di un cast meno incisivo. Attenzione alla copia che circola normalmente in televisione, malamente sforbiciata. (T. S.)


1968 (uscito nel 1977) LO STRANIERO DI SILENZIO di Luigi Vanzi. Con Tony Anthony, Lloyd Batista, Kin Omae, Kita Mura, Raf Baldassarre.


Terzo capitolo delle avventure dello Straniero di Tony Anthony dopo Un dollaro tra i denti e Un uomo, un cavallo, una pistola, girato immediatamente dopo il secondo ma uscito solo diversi anni dopo (nel ’74 in America, mentre l’edizione italiana, che però non risulta da nessuna parte, dovrebbe essere del ’77) causa contrasti tra il produttore Allen Klein – cioè lo stesso dei Beatles – e la casa distributrice MGM. Il film è a suo modo geniale, visto che primo in assoluto opera un'azzardata commistione tra due generi popolari come lo spaghetti-western italiano e il film di samurai – o chambara movie – giapponese ed è il primo a fare interagire insieme cow-boy e samurai. È, inoltre, l’unico western ambientato e girato in Giappone. La storia è quella classica di due clan di samurai rivali con lo straniero interpretato da Anthony nel mezzo, cioè la stessa di Per un pugno di dollari. Che è anche quella della Sfida del samurai di Akira Kurosawa. In pratica Anthony ritorna alle origini, riportando il western italiano in Giappone e al film da cui era partito Sergio Leone. Rispetto ai capitoli precedenti questo terzo è ancora piú ironico, quasi comico, anche se al solito non mancano, oltre a grandi momenti western e trovate molto divertenti, anche episodi truci, massacri e ammazzamenti variamente assortiti. Anche il personaggio dello Straniero è ancora piú estremizzato rispetto ai due precedenti film: solito poncho e solito cavallo, ma sorriso ancora piú sardonico, battute ancora piú ironiche, dollari sempre piú in mente, sempre piú menefreghista del codice cavalleresco (spara con noncuranza pure alle donne, quando tentano di ammazzarlo), ancora piú sbeffeggiato, pestato e in difficoltà, ma alla fine comunque vincitore contro tutto e tutti. Il film è anche un riuscitissimo omaggio ai film di samurai, con una bellissima ricostruzione del Giappone di fine Ottocento, combattimenti sotto la pioggia alla Kurosawa (dovuti al fatto che si pensò bene di andare a girare gli esterni nella stagione dei monsoni) e la ripresa di elementi classici del genere come il nano, l’effeminato, la principessa bambina. Travolgente e in puro stile western la colonna sonora di Stelvio Cipriani. Reperibile solo in lingua inglese, cosa che comunque non costituisce un particolare problema visto che i dialoghi sono pochissimi (ma poi è mai stato doppiato in italiano?). (M. M.)


1971 BLINDMAN di Ferdinando Baldi. Con Tony Anthony, Ringo Starr, Lloyd Batista, Magda Konopka, Raf Baldassarre.


Uno dei western piú bizzarri, stravaganti ed eccentrici mai realizzati e perfetto esempio di come in Italia, nel periodo d’oro del filone, si potessero trascendere le coordinate del genere fino a salire nell’astrazione. Diretto da Ferdinando Baldi – ottimo artigiano che purtroppo non sempre si è trovato a lavorare con dei budget all’altezza (ma quando gli è capitato i risultati si sono quasi sempre visti) – ma voluto, prodotto, scritto e interpretato dallo stesso Tony Anthony. Piú che a uno spaghetto somiglia quasi, anche per il look dei personaggi e la raffigurazione degli ambienti, a un film di samurai medioevale, e non sarà un caso che Anthony, dopo aver portato il suo Straniero in Giappone con Lo straniero di silenzio, si rechi poi addirittura nella Spagna medievale a combattere contro i vichinghi in Get Mean, in una specie di commistione dei generi ante litteram e ante Tarantino. La trama: Anthony è il pistolero cieco Blindman, che deve scortare un gruppo di cinquanta donne in un villaggio di minatori che le hanno chieste in spose (plot probabilmente ispirato a Donne verso l’ignoto di Wellman, con la sensibile differenza che qui le donne sono mezze nude per tutto il film). Queste vengono però rapite prima da una banda di banditi messicani e poi da un plotone di rurales, in una girandola di colpi di scena per il loro possesso in cui le ragazze vengono trattate alla stregua di una mandria di vacche (c’è pure una scena cultissima – per dirla alla Giusti – nella quale vengono lavate nude tutte insieme in una stalla). Il film è pieno zeppo di grandi trovate visive e di sceneggiatura. Innanzitutto, ovviamente, la figura del pistolero cieco che parla e si fa guidare dal suo cavallo – autentico ossimoro per il genere, ispirata probabilmente al samurai della tradizione giapponese Zatoichi – che è un po’ l’estremizzazione del personaggio che Anthony aveva incarnato anche nei suoi precedenti spaghetti-western: battute ridotte al minimo, autoironia surreale e straniante, amoralità spinta all’eccesso (nel duello finale uccide il suo avversario sparandogli clamorosamente alle spalle), perennemente pestato e sbeffeggiato dai suoi avversari ma del tutto indifferente a tutto quello – donne comprese – che non siano i soldi. Altrettanto memorabile, poi, il delirante Ringo Starr in versione psicopatica – che sembra abbia accettato la parte soprattutto per l’enorme quantità di belle ragazze presenti sul set – e gli altri due componenti della folle famiglia di banditi messicani: Lloyd Battista – che non è meno pazzo e che nutre per il fratello un rapporto di amore-odio morboso, tanto che alla sua morte organizza un funerale che non avrebbe sfigurato in El Topo, tinteggiando di nero la piazza del villaggio e facendolo sposare da morto con la ragazza (la biondissima – e gnocchissima – svedese Agneta Eckemyr) di cui si era invaghito – e la spettacolare Magda Konopka, nel ruolo dell’aguzzina delle ragazze, protagonista di un’altra scena cultissima nella quale viene legata completamente nuda a un palo al centro di una piazza. Il tutto sostenuto da una grande regia barocca di Baldi, che probabilmente si è potuto sbizzarrire grazie al fatto che il film – coprodotto con gli Usa – poté godere di un budget di tutto rispetto, che si esalta in particolare nelle grandi scene di massa (in primis la carneficina dei soldati messicani e lo stupro selvaggio delle prigioniere in fuga nel deserto) e in quelle numerose di esplosione, da dalle scenografie complesse e mai banali e da una colonna sonora fragorosa e trascinante dello specialista Stelvio Cipriani. (M. M.)


1975 GET MEAN di Ferdinando Baldi. Con Tony Anthony, Lloyd Batista, Diana Lorys, Raf Baldassarre, David Dreyer.


Trionfo di quello che in America veniva chiamato il camp. Qualcosa di diverso dal nostro trash: un tipo di estetica che vede tra i suoi classici un film come The Rocky Horror Picture Show e da cui è nato - anche se oggi non lo si direbbe mai - un film come Guerre stellari. Nel film di Baldi la filosofia camp è esplicita fin dall'assunto di base: il protagonista non viaggia nel tempo come si legge in molti riassunti, ma prende semplicemente una nave e da selvaggio west si sposta in Spagna, dove, come se fosse la cosa piú normale del mondo, si ritrova nel medioevo tra tribú barbare che combattono contro schiere di mori. È uno spostamento di set come nella Città dei robot, attuato secondo la logica surreale del Mel Brooks di Mezzogiorno e mezzo di fuoco. Ambientare uno spaghetti-western in Spagna - visualizzata attraverso i suoi piú tipici luoghi comuni storici - provoca un ovvio e curioso cortocircuito: per anni si erano accettati centinaia di western girati in una Spagna spacciata per Far West, ma diventa durissima accettare uno spaghetti ambientato realmente in quei luoghi. A suo modo quasi un film crepuscolare che, svelandone la finzione, parla della fine di un certo modo di fare cinema. È curioso notare come il quasi coevo e non meno bislacco Keoma contenesse a sua volta elementi medievali, sia pure adattati al western. Detto questo, è il tipico film piú divertente da raccontare che da guardare, forse meno interessante delle pippe teoriche che può eventualmente ispirare. Fotografia, scenografie e costumi sono una festa di colori, e il tutto è girato piuttosto bene (molto bello il prologo allucinato, che per cinque minuti fa sperare di trovarsi davanti ad un film molto piú acido e psichedelico di come poi sarà), ma manca totalmente una storia o anche il piú scarno degli sviluppi narrativi. Le scene si accavallano senza un vero perché, con vari buchi logici, e nessun personaggio emerge rispetto agli altri. Anche lo Straniero di Tony Anthony è smorto e sottotono. Molte trovate sono di grana grossa, anche se prive della volgarità dei fagioli-western. O quasi… diciamo che scenette come quelle dello Straniero che viene preso a schiaffoni dai fantasmi, o che diventa "negro" per colpa di un'esplosione, o che viene quasi violentato da tre infoiatissime barbare non corrono il rischio di essere prese ad esempio di humour all'inglese. Alla fine tutto assomiglia ad un simpatico scherzo, a tratti divertente, ma tirato troppo per le lunghe. Infatti la pellicola è breve, neanche un'ora e mezza, ma la noia è spesso in agguato; anche dove non dovrebbe, come nel pirotecnico finale. Ma forse il difetto principale del film è quello di essere arrivato fuori tempo massimo, quando la voglia di giocare con il western era già finita da un pezzo. (T. S.)


1981 COMIN' AT YA di Ferdinando Baldi. Con Tony Anthony, Victoria Abril, Gene Quintano, Ricardo Palacios, Dan Barry.


Ultima follia di Tony Anthony e di Ferdinando Baldi: aggiornare il tipico sensazionalismo del genere al 3D. Ma anche l'ultimo tentativo non ancora "post" di girare un western spaghetti. Un film che nell'indifferenza generale (allora come oggi) andava a chiudere definitivamente un'epoca. Girato nel 1981, a genere ormai sepolto da un pezzo, ma a vederlo quasi non ci si crede, tanto sembra uno spaghetti dal sapore antico, che mai si direbbe contemporaneo de I predatori dell'arca perduta e 1997: Fuga da New York. Gli ultimi cinque minuti del film - dove in stile fuochi artificiali vengono riproposte le scene in 3D piú ad effetto, cui segue un minuto di schermo nero in cui si sente solo una bella musica malinconica - fanno molto sipario che cala per sempre. Come Howard Hawks e John Wayne con Un dollaro d'onore ed El Dorado (be’, quasi), anche Baldi e Anthony devono aver pensato che se un film era venuto benissimo una volta poteva venire bene anche una seconda. Quindi visto che avevano girato uno degli ultimi grandi classici del genere come Blindman, che aveva avuto un enorme successo (anche se non in Italia), perché non rifare dieci anni dopo un film praticamente uguale? In realtà (come nel caso dei western di Hawks) non è un vero remake, ma piuttosto una riproposizione degli stessi elementi del film precedente, ricollocati e modificati. La variazione su un tema conosciuto ha un effetto piacevole, anche se non tutto funziona come una volta. Il personaggio di Tony Anthony non ha nulla a che vedere con personaggi esplosivi come Blindman e lo Straniero: è un incolore marito innamorato in cerca della moglie, che gli è stata strappata direttamente sull'altare da una banda che pratica la tratta delle bianche. Inoltre il delirante miscuglio di erotismo e violenza di dieci anni prima non era piú possibile, per cui tira aria da autocensura, per quanto venga spinto maggiormente il pedale del macabro (tutte le donne fanno una brutta fine). Per aumentare l’effetto 3D, per tutto il film ci sono strambissime e reiterate inquadrature di mani, stivali, pistole, fucili, coltelli, animali e ogni tipo di oggetto ripresi in primissimo piano o che sbattano direttamente contro la cinepresa. L'effetto sarebbe ridondante se Baldi non fosse capace di fare di un'esigenza tecnica uno stile. Cosí la sovrabbondanza di particolari, le esagerate sequenze al rallentatore, la necessità di costruire delle scene ad effetto, diventano estetica barocca, creando un clima onirico da film horror. E infatti le scene migliori del film sono le sequenze piú gratuite e deliranti, alla Dario Argento, come le donne ammassate in un sotterraneo che vengono attaccate da dei pipistrelli (palesemente finti), un tizio legato in una chiesa che viene assalito dai topi (in questo caso verissimi), il protagonista alle prese con delle frecce incendiarie, i passatempi dei cattivi in attesa della sfida finale. Aggiungiamo la consueta rarefazione dei dialoghi, con dodici minuti di film prima di sentire la prima parola, e si avrà l’idea se non di un capolavoro di un film perlomeno di grande fascino. Difficile capire la cattiva fama di cui gode: la sensazione è che molti ne parlino per sentito dire, senza averlo mai visto. Ovviamente anche per via della difficoltà della visione delle copie che circolano, con le immagini e i colori sballati imposti dal 3D vecchia maniera. (T. S.)


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Arzillo settantaquattrenne, Anthony al giorno d'oggi dirige un'azienda nel settore dell'ottica a Clarksburg (West Virginia), sua città natìa. Grande scalpore ha suscitato fra gli appassionati la sua decisione di ripubblicare, nel 2011, il suo ultimo spaghetti, Comin' at ya, in una versione riveduta e restaurata nei canoni del moderno 3D. Un progetto che, a giudicare dalla mancanza di notizie recenti e dalla chiusura del sito ufficiale, pare notevolmente rallentato per difficoltà legate soprattutto all'eventuale distribuzione. D'altronde chi sarebbe disposto, di questi tempi, a proiettare uno sconosciuto western europeo girato da un altrettanto sconosciuto regista italiano ormai trent'anni fa?

Ma Anthony noi lo amiamo proprio per questo: follie come le sue nel mondo del cinema non le fa piú nessuno.

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