L’estetica della violenza
Quentin Tarantino su un vecchio numero della rivista di cinema Sight & Sound si chiedeva quanti western dovesse avere diretto un regista per poter essere annoverato tra i maestri del genere, arrivando alla conclusione che anche solo un paio sarebbero stati sufficienti per essere inseriti in tale lista.
Tarantino nel suo articolo si riferiva a Monte Hellman, ma la sua osservazione si adatta alla perfezione anche a Michael Winner, regista inglese cantore della Swinging London degli anni sessanta emigrato nella ribollente Hollywood dei settanta, dove realizza un pugno di pellicole violente, archetipiche e controverse, spesso contrassegnate dalla maschera impassibile e granitica di Charles Bronson, accolte con grande favore dal pubblico ma con ostilità tanto accesa da apparire addirittura sospetta da parte della critica.
L’avversione nei confronti del regista era indubbiamente di stampo ideologico, in quanto i suoi film imperniati su cacce all’uomo e giustizie sommarie erano all’epoca considerati poco meno che fascisti, ma la loro personale e formidabile compattezza tematica e stilistica (Winner si occupava personalmente del loro montaggio, e spesso anche della sceneggiatura e della produzione) non può esimerci, almeno in questa sede, dal riconoscergli invece la patente di grande autore tout-court.
Almeno quattro sono gli indiscutibili capolavori del periodo americano di Winner: il controverso e famigerato Giustiziere della notte, lo straordinario noir nichilistico Professione: assassino (recentemente oggetto di un remake all’acqua di rose con Jason Statham) e appunto i due western Io sono la legge e Chato, con i quali si presentò presso il pubblico statunitense.
1971 IO SONO LA LEGGE (Lawman)
di Michael Winner con Burt Lancaster, Robert Ryan, Lee J. Cobb, Robert Duvall, Sheree North, Joseph Wiseman, Albert Salmi, Richard JordanIspirato direttamente alla tradizione dei western cittadini degli anni cinquanta come Sangue caldo di Richard Wilson e Ultima notte a Warlock di Edward Dmytryck, nei quali l’arrivo del pistolero giunto dall’esterno per riportare l’ordine nella città preda dei fuorilegge era occasione per illustrare le conseguenze dell’ingresso dell’elemento perturbante nella tranquilla comunità operosa, borghese e benpensante, il film di Winner se ne discosta invece sotto l’aspetto estetico e tematico.
Visivamente è evidente come la pellicola sia perfettamente calata nel clima di ultraviolenza del western degli anni settanta, con ampio risalto dato agli effetti prodotti dai colpi delle armi da fuoco e con dettagli ravvicinati delle ferite sanguinanti, dalle quali sgorgano autentici fiotti di sangue, soluzioni espressive queste mutuate tanto dallo spaghetti western italiano che dagli 'squib' (i detonatori utilizzati per simulare l’esplosione dei proiettili) di Sam Peckinpah, il cui Mucchio selvaggio era stato evidentemente un punto di non ritorno per la rappresentazione grafica della violenza nel cinema western.
Sotto l’aspetto concettuale il film si segnala per il radicale pessimismo di fondo, atipico persino nel generale clima di disincanto del cinema americano degli anni settanta, e per il rifiuto di ogni manicheismo nel tratteggio dei personaggi (con la soppressione di tutte le tradizionali distinzioni tra buoni e cattivi e tra criminali e uomini di legge).
Il nichilismo di Winner non ha niente a che vedere con la contestazione e il rifiuto delle regole dei western della New Hollywood di Penn e Altman, ma sottende piuttosto a una lucida e spietata analisi sulle conseguenze dell’istituzionalizzazione della violenza, la fondamentale ingiustizia dell’autorità, l’impossibilità di modificare la propria natura e la crudeltà che regola i rapporti umani.
Un grande cast di attori interpreta la sinfonia di morte messa in scena dal regista: lo sceriffo inflessibile e ligio alle regole autoimpostosi interpretato da Burt Lancaster, quello dedito all’alcool, al gioco e alle puttane di Robert Ryan, il rigido ma a suo modo coerente latifondista di Lee J. Coob, l’allevatore povero e impaurito di Robert Duvall.
1972 CHATO (Chato’s Land)
di Michael Winner, con Charles Bronson, Jack Palance, Richard Basehart, James Whitmore, Simon Oakland, Ralph Waite, Richard Jordan, Victor French, Sonia Rangan, Raul Castro
Questo magistrale e violentissimo rape & revenge western diretto con mano ferma e grande ferocia espressiva sarebbe da ricordare anche solo per una delle più grandiose interpretazioni del granitico Charles Bronson, che nel ruolo del mezzosangue apache è protagonista una straordinaria prova di recitazione usando la massima economia espressiva e pronunciando cinque parole in tutto il film, tre delle quali in lingua tribale (“The scream of his victims is the only sound he make” recitava la tagline pubblicitaria), e che alla soglia dei cinquant’anni sfoggia un fisico ancora scultoreo e invidiabile.
Ma è notevole anche tutto il composito gruppo di attori che interpretano i bianchi che gli danno la caccia, capitanati dal un efficacissimo Jack Palance, interprete di un personaggio a suo modo triste e sfaccettato, e composto da un cast tutto inglese e americano di facce patibolari.
Assurge al ruolo di grande protagonista anche lo spettacolare deserto dell’Almeria, fotografato straordinariamente (il film è girato praticamente tutto in esterni) e dipinto, forse come mai prima, come un luogo arido e inospitale, in cui solo l’apache è in grado di sopravvivere (non a caso il titolo originale del film è Chato’s Land, la terra di Chato); una frontiera corrusca e selvaggia popolata da uomini violenti che finiscono per scannarsi a vicenda in un gioco al massacro in cui in filigrana non è difficile intravedere una metafora del Vietnam.
La cadenza rimbombante e funerea della colonna sonora di Jerry Fielding (nominato all’oscar per Il mucchio selvaggio) sottolinea magnificamente la lenta agonia dei bianchi vittime del loro razzismo e della loro superbia e infine sconfitti dalla violenza amorale della natura.
Mauro Mihich
Segnalo un giochino autoreferenziale (ma molto significativo) di Winner ne "Il giustiziere della notte": nella scena in cui Charles Bronson impugna per la prima volta un' arma sullo sfondo si vede chiaramente il poster di "Io sono la legge". Per altro la scena è ambientata in un paesino del west usato come meta turistica.
RispondiEliminaConfermo. La scena è stata girata nel famoso villaggio western di Old Tucson in Arizona (ora anche parco tematico), teatro di moltissimi film western.
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