1973 IL MIO NOME È SHANGHAI JOE di Mario Caiano, con Chen Lee, Klaus Kinski, Robert Hundar, Gordon Mitchell, Giacomo Rossi-Stuart, Piero Lulli, Carla Romanelli, Katsutoshi Mikuriya, Rick Boyd, Tito Garcia
Curioso ed interessante ibrido tra lo spaghetti western e il film cinese di kung-fu, genere che dopo l’uscita di Cinque dita di violenza e Dalla Cina con furore godeva anche in Italia all’epoca di grande popolarità.
Il regista, un ispirato Mario Caiano, amalgama il tutto con momenti truci e scene splatter. Il film, infatti, è violentissimo: occhi cavati dalle orbite, mani mozzate, teste scoperchiate, in un accumulo di atrocità che raggiunge il parossismo con i quattro deliranti e mostruosi cattivi da film horror che il sadico possidente interpretato da Piero Lulli (uno che per divertimento fa il tirassegno sui peones legati) mette sulle tracce dell'immigrato cinese interpretato da Chen Lee, e cioè Pedro il cannibale (un grande Robert Hundar, dalle desumibili abitudini alimentari), Sam il becchino (Gordon Mitchell, che seppellisce la gente ancora viva intonandogli nel mentre una canzoncina), Tricky il baro (Giacomo Rossi-Stuart) e Scalper Jack (il solito eccezionale Klaus Kinski, che va in giro con la giacca foderata di coltelli di diverse dimensioni a seconda degli scalpi da strappare alle sue vittime, che applica poi a delle bamboline che tiene in casa sua).
Un mix davvero curioso, e sorprendentemente riuscito, di atmosfere quasi horror, momenti feroci alla Se sei vivo spara, sparatorie sanguinarie alla Peckinpah, toni più pop e leggeri (c’è pure una storia d’amore), istanze sociali antirazziste e anticapitaliste (un classico del western italiano, queste, in aperta controtendenza con quello americano) e ovviamente calci volanti e combattimenti a mani nude (anche se non si capisce bene quale sia lo stile di arti marziali usato da Lee...).
La regia di Caiano è in qualche momento persino raffinata, con un efficace uso dello zoom e del ralenty, e riesce intelligentemente ad evitare l’auto-parodia, realizzando una convincente contaminazione di generi (ora si chiamerebbe cross-over).
Belle sono anche la fotografia di Guglielmo Mancori e la musica di Bruno Nicolai (anche se riciclata da una sua precedente colonna sonora, quella per Buon funerale amigos... paga Sartana). Ottime, anche se a volte un po’ esagerate dal montaggio, le numerose sequenze acrobatiche (con gran lavoro da parte degli stuntman).
I limiti del film sono il suo protagonista, che – nonostante il doppiaggio di Ferruccio Amendola – non è un attore professionista e si vede (venne reclutato in una palestra di arti marziali di Roma) e che è pure giapponese anziché cinese, il contrasto troppo evidente tra le scene girate in Almeria e quelle invece a Roma e la sceneggiatura un po’ sconclusionata che manca clamorosamente di un finale: Shanghai Joe, infatti, se ne va via a cavallo verso il tramonto, come il più classico degli eroi, ma Piero Lulli e i suoi accoliti non si capisce bene che fine facciano.
È comunque la dimostrazione di come anche nel periodo farsesco del genere, cioè quello post Trinità, si potessero ancora realizzare western seri ed inventivi, con ottime trovate, capacità tecniche, bravi attori e validi caratteristi.
Mauro Mihich
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