Un dittico trash
Il nome di Bruno Mattei non comparirà mai in nessuna enciclopedia sulla Storia del cinema. E probabilmente non sarà inserito nemmeno nell’elenco di quei validi artigiani che con competenza e professionalità sono riusciti a realizzare prodotti esemplari e dignitosi anche all’interno delle produzioni di serie B. Mattei, nascosto spesso dietro a una moltitudine di pseudonimi, per tutta la sua carriera ha infatti militato in categorie cinematografiche più inferiori e infamanti, quelle dei film usa e getta realizzati con budget miserabili in tempi ridottissimi, girati anche due per volta in paesi come le Filippine e appartenenti ai filoni più deteriori della cinematografia di genere, ora raggruppati sotto il nome di exploitation (eros-svastica, mondo-movie a base di perversioni sessuali varie, horror particolarmente efferati e truculenti…): titoli di fruizione immediata, dedicati a una platea dai gusti facili, girati seguendo le mode del momento e copiando spesso spudoratamente i modelli di successo, con l’unico scopo di ricavare guadagni semplici e veloci.
La sua lunga e ostinata militanza di mercenario cinematografico (quarant’anni di ininterrotta carriera conclusasi appena pochi mesi prima di morire, nel 2007) e il suo girare sempre, comunque e dovunque denotano però anche un incrollabile amore per la settima arte, non venuto meno neanche con la morte del cinema di genere in Italia, superata con lo spostamento verso il mercato dell’home-video, oltre a un innegabile mestiere nel riuscire a fare di necessità virtù, riuscendo a confezionare prodotti accettabili e soprattutto commerciabili in condizioni precarie se non spesso impossibili, e una personale e riconoscibile cifra stilistica contraddistinta dal gusto per le situazioni parossistiche e improntate allo shock visivo.
Se Tim Burton ha dedicato un intero film a Ed Wood, “il peggior regista di tutti i tempi”, noi spendiamo quindi volentieri un articolo per i due western che Mattei, coadiuvato dal fido Claudio Fragasso, ha girato contro tutto e contro tutti, a genere oramai morto e sepolto, nei classici scenari dell’Almeria alla metà degli anni ottanta.
1986 SCALPS di Bruno Mattei (e Claudio Fragasso), con Vassili Karis, Mapi Galàn, Alberto Farnese, Charly Bravo, Beni Cardoso, Lola Forner, Emilio Linder
Questo violento ed eccessivo western gore diretto ben oltre la morte del genere segue un po’ la stessa falsariga di Soldato blu (ma il massacro finale di quest’ultimo è ben più cruento), aggiornata con la deriva splatter e il cinema d’azione alla Rambo degli anni ottanta, in una mescolanza non priva di un certo fascino.
Pur essendo un film di una povertà di mezzi davvero estrema non è dozzinale come si potrebbe pensare, ma ha anzi una sua dignità artigianale, con una buona coesione narrativa, sostenuta da sceneggiatura semplice ma non banale, e una regia corretta e professionale.
Anche sotto il profilo strettamente western non è male, con dei begli esterni in Almeria, negli stessi set di C’era una volta il West (si riconosce lo Sweetwater Ranch costruito dallo scenografo Carlo Simi e tuttora esistente e divenuto un'attrazione turistica sotto il nome di Rancho Leone).
Funzionano bene anche i due attori protagonisti, il greco Vassili Karis e la spagnola Mapi Galàn, nel ruolo dell'indiana guerriera, stupenda. Ed è convincente anche lo squadrone di soldati che se ne va in giro a compiere massacri per divertimento e a violentare donne indiane, capitanato dal pazzo colonnello interpretato da Alberto Farnese.
Il risultato è un western cattivo, intenso ed estremo – soprattutto nel tesissimo finale – con tanto di stupri, scotennamenti, teste mozzate e scalpati che si rianimano in stile zombi. Da vedere.
1986 BIANCO APACHE di Bruno Mattei (e Claudio Fragasso), con Sebastian Harrison, Lola Forner, Alberto Farnese, Charly Bravo, Cinzia de Ponti, Charles Borromel, José Canalejas
Film “gemello” girato back-to-back con Scalps, con gli stessi attori, nelle stesse locations e probabilmente con i pochi soldi rimasti.
Ma se in quello l’estrema povertà del budget veniva in qualche modo ovviata da una buona tenuta della storia, un efficace climax drammatico e una cattiveria delle situazioni che facevano funzionare il film nonostante tutto, qui la pur indiscutibile professionalità artigianale di Mattei – dalla costruzione delle scene e dalla scelta delle inquadrature si vede che il regista non è un dilettante – non riesce a evitare il disastro.
Soprattutto la prima parte ambientata nel campo indiano, con i costumi dei pellerossa realizzati a mano dallo stesso regista, è purtroppo davvero ridicola, ma anche in seguito il film non riesce mai a funzionare, con scene legate tra di loro in barba a ogni plausibilità narrativa, flashback del tutto deliranti, inserti in stile spiritualità new-age e inquadrature di animali che si vede lontano un chilometro prese da qualche documentario (Mattei era uno specialista nell’utilizzare materiali di repertorio e un mago del montaggio nell’inserirli quasi subliminalmente in altre opere).
Solo il finale, tirato, sadico e brutale, a suo modo funziona.
Anche la tanto decantata violenza per cui il film è famoso è comunque parecchio attenuata rispetto a Scalps, salvo l’inizio, piuttosto forte, il finale appunto e il caratterista Carlos Bravo che si prende un tomahawk in piena faccia.
L’attrice che fa l’indiana (dall’originalissimo nome di Stella Nascente), Lola Forner, è molto carina e indubbiamente anche il biondo e atletico Sebastian Harrison (figlio di Richard, interprete di molti spaghetti western) avrà un certo appeal presso il pubblico femminile, ma più che in western sarebbero stati perfetti in una telenovela.
Impossibile da rivalutare anche per i più spericolati amanti del trash.
Mauro Mihich
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